Con Pina Baglioni ripercorriamo le strade e i luoghi del grande santo, patrono della città insieme a Pietro e Paolo.
Pochi a Roma conoscono San Girolamo della Carità a via di Monserrato, a due passi da piazza Farnese e via Giulia, al rione Regola. Eppure questa chiesa, ricca tra l’altro di straordinarie opere d’arte, ha molto da raccontare. Intanto perché eretta sull’area del monastero dove san Girolamo, il grande padre della Chiesa e traduttore della Bibbia dal greco al latino, dimorò nell’anno 382. Accanto al monastero, alcune nobildonne romane, attratte dalla santità di Girolamo, vollero riunirsi per condividerne lo stile di vita ascetico e di carità verso i poveri. Tra tutte, Marcella e Paola, entrambe proclamate sante. Nei secoli successivi, rispettando la tradizione, il luogo continuò ad accogliere i poveri e i pellegrini che arrivavano a Roma per visitare le grandi basiliche.
Poi, alla metà del XVI secolo, ecco che a San Girolamo della Carità arriva un altro immenso personaggio: il fiorentino Filippo Neri.
Il rione, al tempo, era abitato per la maggior parte dai suoi connazionali, che, attirati a Roma dai due papa Medici, Leone X e Clemente VII, si erano accaparrati tutta la zona sulla riva sinistra del Tevere. Là avevano la loro chiesa, ancora incompiuta, di San Giovanni dei Fiorentini; sempre là avevano aperto studi di pittori, di orafi, di cesellatori. Ma soprattutto le loro banche che praticavano tassi usurai.
Che ci faceva Filippo in un posto così? «Eccolo bighellonare per il dedalo delle strade romane con l’aria di non aver mai altro da fare. Si mescola familiarmente a non importa a quale gruppo, sempre pronto ad unirsi a qualche partita di piastrelle, o a fermarsi in una qualsiasi bottega, e non c’è commerciante che non si preoccupi di vedere i clienti dilungarsi in interminabili conversazioni» scrive Louis Bouyer nel suo La musica di Dio. San Filippo Neri (Jaca Book, Milano, 1980, pag. 29). Di notte, Filippo se ne va a pregare alle catacombe di San Sebastiano fuori le Mura o a dormire sotto il peristilio di qualche grande basilica. Sarà proprio a San Sebastiano che Filippo, chiedendo al Signore di «avere spirito», verrà esaudito ricevendo una straordinaria effusione (un “globo ardente”) di Spirito Santo che gli invase e dilatò il cuore.
Il giovane fiorentino, in quella chiesa-monastero alla Regola – il rione dove, tra l’altro, aveva abitato per due anni anche san Paolo – aveva trovato un punto di riferimento ideale. San Girolamo della Carità fino a qualche tempo prima era stata la sede dei Francescani dell’Osservanza. I frati l’avevano poi ceduta alla confraternita della Carità, fondata nel 1518 sull’esempio dell’omonima Compagnia fiorentina, dal cardinale Giulio de’ Medici per soccorrere quei poveri che non avevano il coraggio di chiedere l’elemosina.
Per ottenere la sede, i confratelli della Carità avevano dovuto promettere ai Francescani di mantenere una comunità di preti il cui unico compito fosse quello di farsi carico del ministero della chiesa di San Girolamo. E a Filippo Neri quell’ambiente era andato subito a genio per il bel clima di libertà che vi si respirava e anche perché là aveva conosciuto un tal Persiano Rosa, prete umilissimo e gioviale che spesso si divertiva a prenderlo in giro chiamandolo, con una certa qual preveggenza «san Filippo».
Ogni domenica e nelle feste comandate un gruppetto di gentarella da quattro soldi si ritrovava con padre Rosa per la confessione, per assistere alla messa, e per raccontarsi le cose belle capitate durante la settimana.
Col passare del tempo quell’amicizia nata spontaneamente attorno ai sacramenti e all’eucarestia era talmente crescita che il vecchio padre, confortato dalla presenza di Filippo, decise di trasformarla in una confraternita. Il cardinal vicario di Roma Filippo Archinto, entusiasta dell’iniziativa, suggerì di unire alle pratiche di pietà personale un’attività caritatevole, e, in particolare, l’accoglienza ai pellegrini che arrivavano a Roma quasi sempre sprovvisti di tutto.
Ecco allora che Filippo Neri diventa il fulcro della confraternita: insieme con i suoi compagni, passa il giorno a lavare i piedi ai pellegrini, a nutrirli, a vestirli, a curarli. E romani, pellegrini e chiunque altro ha la fortuna di imbattersi in lui, iniziano a chiamarlo Pippobuono.
C’è talmente tanto da fare a San Girolamo che si rende subito necessario trovare un’altra sede per le riunioni di preghiera e di riflessione: prima se ne vanno a San Salvatore in Monte, poi, nel 1563, papa Pio IV concede loro San Benedetto in Arenula. A Roma, intanto, non si parla che di Filippo e dei suoi amici. Soprattutto da quando hanno introdotto la pratica assolutamente nuova delle Quarant’Ore: all’inizio di ogni mese, davanti all’ostia solennemente esposta, ci si alterna in una preghiera ininterrotta inframezzata da riflessioni in cui Filippo dà il meglio di sé.
La confessione e la Messa: i “segreti” di Filippo
«Filippo, perché non diventi prete?»: alla domanda a bruciapelo del suo vecchio amico padre Rosa, Filippo Neri quasi tenta la fuga. È un’idea, quella, che non gli è mai passata neanche per l’anticamera del cervello.
Il pensiero di entrare in un’altra “struttura” precostituita come quella della confraternita gli metteva i brividi. Ma il vecchio prete tiene duro, promettendogli la più completa libertà di movimento a San Girolamo. Così alla fine Filippo cede. Per gli studi non si ponevano particolari problemi: il giovane fiorentino, per suo diletto, già da molti anni aveva seguito più o meno regolarmente gli studi teologici. Insomma, in sei mesi riceve gli ordini: diaconato al Laterano e il 23 maggio del 1551, a San Tommaso in Parione, l’ordinazione. Certo, non avrebbe più potuto andare, di notte, a San Sebastiano: il suo nuovo status lo obbligava a risiedere stabilmente a San Girolamo della Carità. Allora si sceglie una stanzuccia, a cui si affezionerà al punto che, anni dopo, chiamato ad altri incarichi, ci vorrà l’ordine perentorio del papa per convincerlo a lasciarla. Ancora oggi è possibile visitare la cameretta di Filippo trasformata in cappella, amabilmente custodita dalle Suore di San Filippo Neri.
Due cose, una volta diventato sacerdote, gli staranno a cuore: la confessione e la celebrazione della messa. Tutte le mattine le passa a confessare e, a mezzogiorno, a celebrare la santa messa. E se all’inizio aveva potuto dedicarsi alla recita del breviario e del rosario, ora non ha più il tempo nemmeno per quello. Perché al confessionale accorre una vera e propria folla di romani. Giovani soprattutto, che l’avevano conosciuto per strada o l’avevano visto all’opera tra i malati della Trinità dei Pellegrini. Insomma, a Roma stava accadendo qualcosa di grande: Filippo era diventato il centro di una cosa che non si poteva ancora definire ma che, senza una regola prestabilita, aveva acquisito una forza d’attrazione inspiegabile.
Un vecchio granaio si trasforma in oratorio
Filippo, intanto, osserva i giovani che gli vanno dietro: ce n’è più di uno capace di offrire al Signore più del minimo: costoro non sono mai tra quelli che si sono mostrati, da subito, particolarmente devoti. Anzi. Sta di fatto che questi – sette o otto in tutto – si ritrovano ogni pomeriggio nella stanzetta di padre Filippo. In genere per leggere e commentare il vangelo di Giovanni. Ben presto la grande affluenza di giovani obbligherà a occupare un’altra camera più grande. Poi, addirittura, un locale nelle soffitte della chiesa un tempo destinato a granaio, che diventerà per tutti l’“oratorio”.
Visto il numero sempre crescente di persone che gravitano intorno a loro, Filippo obbliga i discepoli più stretti a preparare un’allocuzione, sempre legata alla vita, al concreto. E se qualcuno s’azzarda a trasformarla in un sermone di tipo accademico, cominciano le prese in giro. Famoso l’episodio di Agostino Manni, chiamato a tenere un discorso. A lui Filippo farà ripetere il suo bellissimo sermone ben sette volte per mortificare la sua palese compiacenza e vanità.
I testi scelti da padre Filippo sono, in genere, di autori quali Cassiano, Giovanni Climaco, Dionigi il Certosino, i Dialoghi di Santa Caterina da Siena, la Vita dei Padri del deserto e le Laude di Jacopone da Todi. Letture e conversazioni che, sempre, si concludono con il canto. Anche perché ad ascoltare Filippo e i suoi ragazzi sono arrivati ultimamente diversi artisti e musici delle cappelle pontificie, che non si fanno pregare a concludere gli incontri con le splendide armonie di Pierluigi da Palestrina. E sempre più spesso si eseguono anche canti scritti dai ragazzi stessi, prendendo ispirazione dalla vita dei santi.
Ma c’è dell’altro, in questo oratorio filippino della primissima ora: il buonsenso, la bonomia sottile, la santità felice che Filippo incarna. Senza alcuno sforzo, regna in questo ambiente sostanzialmente fatto di gente semplice un gusto, un tatto, una sorta di estetica generata dalla bellezza della vita cristiana. Il tutto supportato da una cornice unica al mondo: la bellezza incommensurabile di Roma, la vera coprotagonista di ciò che sta accadendo. Quando Filippo e i suoi escono da San Girolamo, non hanno che da scegliere: le pendici del Gianicolo, le Terme di Diocleziano, l’Appia Antica. Sotto grandi alberi ci si siede per ricreare una specie di oratorio all’aperto. E allora i canti Adoramus te Christe e O vos omnes si fondono al brusio delle foglie o allo scrosciare dell’acqua delle fontane. Con Filippo, però, l’imprevisto è la regola: a volte, infatti, si va a visitare gli ammalati in un ospedale. Oppure si prende di mira, con scherzi micidiali, qualcuno dei suoi ragazzi.
Le Sette Chiese
Ma la più bella e la più apprezzata delle gite era senza dubbio il pellegrinaggio alle sette basiliche patriarcali di Roma. Un pellegrinaggio lunghissimo: la sera della vigilia si attraversava il Tevere per andare a pregare alla basilica di San Pietro; all’indomani, prestissimo, per la via di Ostia, ci si recava a San Paolo fuori le Mura. Di là, tagliando per i campi della via Ardeatina, si raggiungeva l’amatissima San Sebastiano sull’Appia Antica. Una volta arrivati, chi non si era confessato si affrettava a farlo. Poi s’intonava una bella messa polifonica, per esempio la Messa di papa Marcello di Pierluigi di Palestrina. Oppure, l’Ecce Sacerdos Magnus. E solo quelli che erano venuti a digiuno si comunicavano.
Dopo la messa si ripartiva, prima che facesse troppo caldo, per la via Appia. Prima di rientrare in città, ci si riposava alla vigna dei Crescenzi, vicino alla piramide Cestia. E visto che si stava facendo un pellegrinaggio, si suggeriva a tutti di parlare a voce bassa, assicurandosi che il pasto fosse lo stesso per tutti: pane, salame, prosciutto romano, un uovo e un frutto. E un sorso di vinello dei dintorni. Stazione successiva, la Scala Santa, salita in ginocchio. Di qui, a Santa Croce in Gerusalemme. A quel punto non restava che seguire, all’interno delle mura di Adriano, la linea del Pomerium, il confine sacro dell’antica Roma, e giungere a San Lorenzo a Campo Verano: il santuario del diacono romano era infatti il luogo dell’ultima meditazione. Poi si raggiungeva l’ultima basilica patriarcale, Santa Maria sull’Esquilino, detta anche Santa Maria delle Nevi, oggi più nota come Santa Maria Maggiore. Sotto il soffitto che Alessandro VI aveva appena ricoperto con il primo oro d’America, portato dal Perù da Cristoforo Colombo, la giornata si concludeva col Salve Regina.
Va detto che, col passare del tempo, a seguire Filippo e i suoi amici si erano aggiunti giovani e meno giovani di tutte le estrazioni sociali: si era creato un clima che ignorava tutte le distinzioni di rango e di nobiltà. In quella compagnia si potevano trovare apprendisti, impiegati di banca fiorentini, gran signori, musici e cantori di basilica, artigiani, giovani ebrei, domestici. E persino banditi di strada. Il padre Filippo è lo stesso con tutti, sapendo, tuttavia, come trattare ciascuno. Come nel caso di un grande e grosso montanaro abruzzese, giunto a Roma nel 1557: un tal Cesare Baronio, destinato a diventare il secondo cardinale filippino. La sua famiglia stava facendo di tutto per fargli proseguire gli studi a Roma. Qualcuno lo aveva portato da Filippo che lo aveva subito chiamato «il barbaro» per via del suo carattere “rustico”. L’ irriducibile buon senso, l’applicazione maniacale al lavoro, la grande fedeltà ne faranno uno dei prediletti di Filippo, che, per distoglierlo dalla sua insistenza a parlare sempre e comunque delle pene eterne, lo obbligherà a studiare la storia della Chiesa. Docile e ubbidiente, Cesare Baronio produrrà, grazie alla sua incredibile erudizione, gli Annali della Chiesa, grazie ai quali tutta la materia ne risulterà rinnovata.
Nasce la Congregazione dell’Oratorio
I compatrioti di stanza a Roma, nel 1564, inviarono a padre Filippo Neri, allora quarantanovenne, un’ambasciata per chiedergli di accettare la carica di rettore di San Giovanni dei Fiorentini, chiesa ancora incompiuta della colonia del giglio rosso sulle sponde del Tevere. Filippo, appena rimesso da una grave malattia, però, non volle saperne di lasciare la chiesa e la sua stanzetta a San Girolamo della Carità. Al tempo stesso, non voleva deludere i suoi connazionali. Trova, allora, la soluzione: affida la cappellania di San Giovanni ad alcuni dei discepoli più fidati, sotto la sua direzione puramente nominale. Il problema è che nessuno dei suoi è prete. Per invogliarli all’ordinazione, chiede, guarda caso, a Cesare Baronio di diventare sacerdote per primo. A lui e a tutti gli altri chiederà anche di tornare ogni sera a San Girolamo per dare una mano all’oratorio, sempre più affollato. E quelli, ovviamente, ubbidiscono.
Ma tutti si rifiutano di entrare in un ordine religioso: desiderano essere nient’altro che dei semplici sacerdoti. Tutt’al più, preti dell’oratorio «che annunciano la parola di Dio quotidiana e familiare» come scriverà uno di loro. Hanno imparato dal Neri una cosa essenziale: che per quella gente che non comprende più quale potenza di vita contengano le formule cristiane, non saranno certo i discorsi né le argomentazioni a persuaderla. L’unica strada è un’esperienza personale del cristianesimo, sull’esempio del loro padre Filippo: la notte, a colloquio con lo Spirito Santo; durante il giorno, a colloquio con gli uomini.
Col passare degli anni, ci si rese conto però che non era più possibile portare avanti il ministero a San Giovanni dei Fiorentini e l’oratorio. Per questo, nel 1575, i padri filippini abbandoneranno la grande parrocchia per stabilirsi nella piccola chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Sarà quello un passaggio decisivo: perché il trasferimento alla chiesetta, tra l’altro fatiscente, avrebbe conferito ai sacerdoti di Filippo Neri esistenza canonica. La bolla dichiarava espressamente che alla Vallicella sarebbe stata eretta a perpetuità «una congregazione di preti e di chierici secolari denominata Oratorio». Era il 15 luglio del 1575, una data che non creava ma consacrava qualcosa che esisteva già. Insomma, l’Oratorio romano di Filippo Neri aveva trovato il proprio centro in una chiesa che altro non era che rovine. Il compito maggiore che assorbirà per anni gli sforzi di Filippo e i suoi, che tra l’altro non avranno mai il becco di un quattrino, sarà quello di trasformare quel cumulo di rovine nella bellissima Chiesa Nuova grazie a diverse donazioni.
Pippobuono deve lasciare San Girolamo
È il 1583 quando Filippo Neri viene messo definitivamente alle strette: deve lasciare l’amatissima chiesa di San Girolamo della Carità. Per convincerlo a trasferirsi alla Vallicella e assumere la guida della Congregazione deve intervenire addirittura papa Gregorio XIII. Alla fine, è costretto ad accettare. A patto che lo si lasci organizzare il trasloco alla sua maniera: i discepoli più fedeli avrebbero dovuto attraversare il percorso da San Girolamo alla Chiesa Nuova sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando un pezzo della povera mobilia di Filippo Neri. Insomma, nonostante la nuova carica, anzi proprio per quella, il sacerdote farà in modo che tutto si trasformi in una grande burla.
Intanto, la giovinezza si rinnova senza posa attorno a Pippo. Alla confraternita si unisce Antonio Gallonio: punzecchiato continuamente a causa della sua precocità intellettuale, diventerà un illustre studioso dei primi martiri cristiani e biografo del Neri. E poi Giovenicale Ancina, futuro vescovo di Saluzzo e amico di San Francesco di Sales. E Pietro Consolini, uno dei beniamini di Filippo.
Ma gli anni passano e Filippo è ormai un vegliardo le cui forze stanno declinando rapidamente. I discepoli cercano invano di alleggerirgli il carico di lavoro. Ottengono soltanto che si metta a confessare in una delle sue due camerette situate proprio in cima alla Vallicella. Accoglie sempre chiunque si presenti, ma visibilmente lo Spirito Santo lo pervade poco a poco. I discepoli e i visitatori se ne accorgono soprattutto durante la celebrazione della messa, quando, al momento della comunione si assiste a vere e proprie estasi. Confusi con il popolino, vanno spesso a trovarlo Carlo e Federico Borromeo.
Nella primavera del 1594 egli si deve mettere a letto per una grave malattia. Tutta Roma ne è addolorata. Ma quando già si dispera, una visione della Madonna rimette in piedi Pippobuono. Quasi un anno dopo, ecco una nuova ricaduta. Filippo però sa che la sua ora non è ancora giunta e il primo maggio, festa di san Filippo apostolo, si alza per andare a celebrare la messa.
Il 12 maggio, si ammala gravemente. Cosa che spinge Cesare Baronio a somministrargli l’estrema unzione. Il cardinal Borromeo, prima titubante, decide di dargli la comunione. Non appena vede l’ostia Filippo grida di gioia: «Ecco il mio amore! Ecco il mio amore! Che me lo si dia subito!». Qualche giorno dopo, tra lo stupore generale, eccolo ristabilirsi ancora una volta. La lieta notizia si sparge per tutta Roma. Ma Filippo sa bene come andranno a finire le cose e chiede di celebrargli subito una messa per la salvezza della sua anima. È il 25 maggio del 1595: Filippo confessa per tutta la mattina e poi celebra la messa. Alla sera, quando i padri vengono a chiedergli la benedizione domanda che ora sia. «Tre ore di notte» gli rispondono (le undici di sera). E lui: «Tre e tre sei, tre e tre sei». Nessuno ci fa caso. Ma alla sesta ora della notte, Gallonio, che dorme di sopra, riconosce i colpi secchi del bastone che picchia sul pavimento. Accorre. Filippo, in piedi, gli dice: «Antonio, me ne vado».
I padri allora si raccolgono nella sua camera. Baronio recita le preghiere dei moribondi, poi chiede al padre di benedire tutti. Filippo allora apre gli occhi, si leva un istante per impartire loro la benedizione e, in un sospiro, la sua vita terrena si compie. È il 26 maggio del 1595.
Le sue spoglie saranno seppellite alla Vallicella due giorni dopo, trasformandosi immediatamente in oggetto di culto per la Città Eterna. Nel 1615 sarà proclamato beato. E il 12 marzo del 1622, Gregorio XV lo dichiara santo insieme con Francesco Saverio e Teresa d’Avila.
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