Con piacere riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Paolo Ricciardi sul vinile tra i più vicini alla Pop Art di sempre: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei The Beatles, album che da poco ha festeggiato i suoi cinquanta anni.
Paolo Ricciardi è un esperto di cinema, ma soprattutto di musica che ha curato programmi radiofonici e lavorato per diverse case discografiche.
Benvenuti.
Innanzitutto, una breve nota introduttiva.
In questo spazio andremo a segnalare i dischi che, in modi diversi, hanno influenzato lo sviluppo della musica ed il nostro modo di ascoltarla.
La scelta iniziale è stata ardua ma doverosa.
Non si poteva cominciare questo viaggio che con l’album che più degli altri ha rappresentato, e rappresenta ancora oggi, un vero spartiacque, con il quale la musica moderna ha fatto un enorme balzo in avanti.
Signori e Signore…
Pubblicato in Inghilterra il 1 Giugno 1967, ottavo album dei Beatles, è stato inserito dalla rivista Rolling Stone al primo posto nella lista dei 500 migliori dischi di sempre, vendendo 11 milioni copie negli Stati Uniti e 32 milioni nel resto del mondo.
Ascoltarlo oggi, anche se siamo ormai abituati a suoni come quello dei sitar, alle voci registrate al contrario, ai nastri accelerati e rallentati, ai violini distorti, agli ottoni compressi, ai clavicembali e ai corni francesi arrangiati in chiave “pop” che allora furono il frutto di uno sforzo sovrumano e geniale in sala di registrazione, costituisce ancora una sorpresa, magari un po’ frastornante e forse troppo colorata rispetto all’ingrigito panorama attuale.
“Sgt. Pepper’s” è rimasto quel che era, per chi ha a cuore le prospettive storiche e i “contesti”: una elaboratissima sinfonia pop in celebrazione di un Nuovo Mondo avventuroso che sembrava non porre freni alla fantasia. E’ la Summer of love che incontra la Old Britannia, e la prende bonariamente o crudelmente in giro, a seconda delle circostanze, la Swingin’ London che va a braccetto con l’India del Maharishi Mahesh Yogi, nel raga di “Within you without you”, unico pezzo che George Harrison riesce a sottrarre all’egemonia compositiva di Lennon & McCartney.
Impegnati nel campionato mondiale del pop contro Brian Wilson e i Beach Boys, John & Paul triturano simboli, suoni e immagini del passato e del presente in un frullatore impazzito, Pop Art allo stato puro.
La brass band del pezzo che intitola il disco, sui titoli di testa e di coda dell’immaginario “concerto” che prende corpo nelle prime dodici tracce in scaletta, sta al Regno Unito come il cricket e il tè delle cinque.
Qui incoccia però nel rock’n’roll e nel fragore delle chitarre elettriche, vecchio e nuovo mondo allegramente in collisione tra di loro. Così i ricordi circensi d’infanzia di “Being for the Benefit of Mr. Kite!” e il music hall di “When I’m Sixty-Four”, l’antitesi del “voglio morire prima di diventare vecchio” di “My Generation” degli Who, mentre le marcette di “With a Little Help from My Friends”, voce solista di Ringo, “Getting Better” e “Fixing a Hole” hanno il sapore fresco della miglior musica “leggera” di quegli anni, se non fosse per tutto quel che gli succede sotto e intorno.
Il produttore George Martin e l’ingegnere del suono Geoff Emerick che “suonano” lo studio di registrazione, modulano, piegano, distorcono, plasmano gli strumenti dell’orchestra, giocano con le manopole del mixer e i nastri incollati a collage, sfruttano i riverberi e gli spazi dell’ambiente cercando di esaudire i desideri dei Quattro e di entrare nella loro testa, McCartney all’inseguimento della melodia perfetta, Lennon che chiede qualcosa di strano e di diverso per ogni canzone.
Fu la negazione assoluta dell’album concepito come raccolta di singoli e riempitivi, oggi, a passo di gambero, siamo tornati proprio lì, dell’equazione tra musica live e musica di studio. Questa, al contrario, è musica “artificiale”, creata in vitro per accumulazione di prove, tentativi, esperimenti, irriproducibile su un palco e in presa diretta: eppure non fredda, anzi, una nuova, inebriante forma d’arte prima sconosciuta.
Fu ancora più chiaro, dopo “Sgt. Pepper’s”, quanto sia importante il “suono” nella riuscita di un disco; uno dei tre elementi essenziali, si dice, insieme alla brillantezza dell’esecuzione vocale e strumentale e alla qualità delle canzoni.
E infatti: “She’s Leaving Home” di McCartney è un capolavoro punto e basta, con quella storia così struggente ma anche cinica, il sovrapporsi nel refrain della linea melodica principale e del “controcanto” dei genitori abbandonati dalla figlia in fuga da casa, le 5 di mattina di un mercoledì qualunque. In “Lucy in the Sky with
Diamonds” Lennon somiglia al Syd Barrett dei primissimi Pink Floyd, la sua filastrocca infantile deformata dall’Lsd e da immaginifiche visioni alla Lewis Carroll, i “cieli di confettura”, la ragazza con gli “occhi da caleidoscopio”, i taxi fatti di carta di giornale. A spettacolo concluso, quasi fuori onda, “A Day in the Life” rimane uno di quei pezzi che davvero ti spingono a pensare che la musica più sublime arrivi da altrove, un pianeta sconosciuto di cui l’artista geniale è il medium predestinato, già nel 1964 Timothy Leary, professore ad Harvard e profeta dell’acido lisergico, parlava dei Beatles come di “esseri mutanti, prototipi di agenti evolutivi inviati da Dio”: straniata, snervata, eppure toccante e irresistibile, spazzata via da un turbine orchestrale, 4 piste x 4, e un fragoroso, incomprensibile chiacchiericcio in “loop” che lasciava il vinile in surplace sull’ultimo solco.
Il consiglio è di ascoltarselo tutto in una volta, di non farne uno spezzatino: perdereste il senso della sequenza delle canzoni, una dietro, a volte dentro, l’altra senza soluzione di continuità, la straordinaria visione d’insieme, il gusto del contrasto, il sitar e le tabla di “Within You Without You” che trascolorano nei clarinetti old fashion di “When I’m Sixty-Four”.
E come si fa a rinunciare alla copertina di Peter Blake con il pubblico immaginario del concerto della band dei cuori solitari, quella fantastica e surreale hall of fame che ha fatto versare fiumi d’inchiostro?
Nel collage da cui essa è formata, i Beatles mettono insieme i loro personaggi simbolo, con l’idea di radunare il pubblico davanti a cui avrebbero preferito esibirsi: Albert Einstein, Marlon Brando, Karl Marx, Edgar Allan Poe, Sonny Liston, Lenny Bruce, Paramahansa Yogananda, Aleister Crowley, Stanlio e Ollio, Lewis Carroll e molti altri. Tra i soggetti messi in lista da Lennon e poi scartati, vi erano anche anche Gesù, Adolf Hitler e Gandhi.
Forse non è stato il migliore disco dei Beatles, ma è stato sicuramente quello più spiazzante, fantasmagorico, abbagliante e pirotecnico.
“L’immaginazione al potere” diceva uno slogan dell’epoca, e in un mondo come quello attuale, svuotato d’ideali ed energie, riascoltare questo album ci fa sperare che quegli ideali possano esistere ancora.
Roma, 5 dicembre 2018.
Nessun commento
No comments yet.
RSS feed for comments on this post. TrackBack URL
Sorry, the comment form is closed at this time.