A corredo della visita al quartiere di Torpignattara, in calendario per il mese di giugno, pubblichiamo un brano da “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini.
Le immagini sono tratte dal sito Roma Sparita, che ringraziamo.
Dall’osteria, per andare dove dovevano andare, si passava da Porta Furba, si svoltava giù verso il Quadraro, si tagliava in mezzo alle casette isolate come capanne e si arrivava all’orto, che da una parte era limitato da una stradina bianca, dall’altra si perdeva per delle praterie con in fondo una villa e una pineta.
C’era puzzo di stabbio e di paglia al macero, e un gran profumo di finocchi, che si vedevano distendersi come una nuvola verde, con in mezzo la cappuccina, oltre la ramata, tutta scassata, tra gli squarci della siepe di cannacce fradice che la costeggiava.
«Namo de qqua,» fece con una faccia da lupo mannaro il vecchio, andandosene ingobbito a passi felpati più giù, dove finiva la ramata, tutta contorta e cominciava una parata d’assi fradice e disuguali, fino che arrivarono alla scalarola: tra questa e la parata, c’era una specie di passaggio, un buco, coperto con degli zeppi spinosi e un po’ di canne. Il vecchio cominciò a rasparci intorno per allargarlo, in ginocchio sulla lingua di cane, la porcacchia, la malva, e i bietoni del fossatello, tutti zuppi di guazza. Attraverso quel buco s’infilarono nell’orto.
La luce della luna lo investiva tutto, grande com’era, che non ci si vedevano i recinti dell’altra parte. La luna era ormai alta nel cielo, s’era rimpicciolita e pareva non volesse più aver a che fare col mondo, tutta assorta nella contemplazione di quello che ci stava al di là. Al mondo, pareva che ormai mostrasse solo il sedere; e, da quel sederino d’argento, pioveva giù una luce grandiosa, che invadeva tutto. Brilluccicava, in fondo all’orto, sulle persiche, i salci, i petti d’angelo, le cerase, i sambuchi, che spuntavano qua e là in ciuffi duri come il ferro battuto, contorti e leggeri nel polverone bianco. Poi scendevano radendo a far
sprizzare di luce, o a patinarlo di lucore, il piano dell’orto: con le facciatelle curve di bieta o cappuccina metà in luce e metà in ombra, e gli appezzamenti gialli della lattughella e quelli verde oro dei porri e della riccetta. E qua e là i mucchi di paglia, gli attrezzi abbandonati dai burini, nel più pittoresco disordine, che tanto la terra faceva da sola, senza doversi rompere il c… a lavorarla.
Il vecchio aveva allumato i cavoli fiori, e soltanto quelli. Seguito dai due soci, senza perdere tempo, attraversò il solco, e si cacciò giù per la spranga, ch’era come un viottoletto con un dito d’acqua in mezzo all’appezzamento di cavoli fiori, e da dove a destra e sinistra partivano gli scrimoli, acquitrinosi pure loro, dividendo l’appezzamento in tanti riquadri. […]
«Daje, » fece il vecchio, che già teneva aperto in mano il coltello. E, cacciandosi dentro per uno scrimolo, si immerse tra i filari dei cavoli fiori che gli arrivavano fino alla cintola, e cominciò a farli fuori a colpi di coltello. Li tagliava e li cacciava dentro il sacco incarcandoli con le mani e coi piedi. I due complici, restati in dietro in osservazione, si guardarono in faccia e sbottarono a ridere, sempre più forte, fino a quando le loro sghignazzate si sarebbero sentite al Quadraro. […]
Il Lenzetta, adempiendo la bisogna, si mise a cantare. Il vecchio allora lo guardò di sguincio, accucciato come stava accosto al suo sacco pieno, e tutto preoccupato fece: «A coso, ce lo sai che mi’ nipote per un cavolo, ma uno de numero, s’è fatto sei mesi de priggione? Che, ce voi fa carcerà tutti quanti?» […]
Come furono sulla strada, i due fiji de na mignotta non vollero, capirai, che il vecchio facesse lui la fatica, e s’offrirono loro a tutti i costi d’incollarsi il sacco pieno. Lo portarono un po’ peruno sulle spalle, mostrandosi tutti allegri e indifferenti, e facendo una gran moina, mentre camminavano tutti sderenati e bestemmiando dentro di sé per lo sforzo che gli toccava fare, dietro al sor Antonio, che costretto a fare la
parte del micco, ora aveva i micchi che gli portavano il carico.
Quando ch’ebbero lasciato alle spalle, passo passo, Porta Furba e si furono ben internati in mezzo a una Shanghai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane, e quasi erano arrivati alla Borgata degli Angeli, che si trova tra Tor Pignattara e il Quadraro, il vecchio fece con contegno di persona compita e a modo: «Perché nun salite su casa?» «Grazie, come no,» risposero i due scagnozzi tutti sudati, e dentro di loro pensavano: «Ce mancava mo’ che nun c’invitasse a salì, sto froscio!»
La Borgata degli Angeli era tutta deserta a quell’ora, e tra i grandi scatoloni delle case popolari costruite in tante file regolari, si vedevano, giù, quattro strade di terra battuta piena di zozzerie, e in alto, il cielo senza una nuvola con una lunetta che locca locca tramontava.
Brani tratti da: Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1976, pp. 130-133
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