Tratto dal mensile “30Giorni” pubblichiamo il dialogo che Paolo Mattei realizzò con padre Virgilio Fantuzzi, critico cinematografico della “Civiltà
Cattolica”, che parla dei luoghi in cui fu girato ”Roma città aperta”, e che ricostruisce quella realtà brulicante di vita e di racconti che ispirò il film capostipite del neorealismo italiano. L’articolo fu pubblicato nel numero 07/08 del 2001.
Tre amici, nel luglio 1944, si ritrovavano abitualmente a mangiare in una trattoria nei pressi di via del Tritone, al centro di Roma. Si raccontavano storie della vita, storie di guerra e di resistenza. Da qualche giorno nella capitale erano giunti gli Americani e il cammino dei liberatori proseguiva verso il Nord, dove i combattimenti e la resistenza continuavano.
Durante le chiacchiere su quei tavolini all’aperto, in una Roma ancora stordita dalla guerra, ma che lentamente ripigliava fiato nelle serate estive addolcite da una pace tanto attesa, venivano fuori le vicissitudini di preti imprigionati e uccisi dai tedeschi, di bambini “bombaroli” un po’ per gioco un po’ no, di partigiani-viveur che sfuggivano agli inseguimenti con rocambolesche corse sui tetti, di donne che sbarcavano il lunario per far campare i figlioletti in assenza dei padri che erano soldati, partigiani o prigionieri. I tre amici si chiamavano Roberto Rossellini, Sergio Amidei e Alberto Consiglio. Mettendo insieme quei pezzi di storie, qualche tempo dopo realizzarono “Roma città aperta”.
Padre Virgilio Fantuzzi, scrittore della “Civiltà Cattolica” e critico cinematografico, ha visitato i luoghi di Roma in cui il film capostipite del Neorealismo fu girato. E ha realizzato, in collaborazione con Alessandro Rossellini, nipote di Roberto, un documentario dal titolo “La Roma di Rossellini”, presentato a giugno all’Auditorium del Louvre nell’ambito di una retrospettiva completa dedicata al celebre regista romano. «Fu un film fatto con niente» inizia a raccontare Fantuzzi. «Con la fame che c’era, immaginiamoci quale valore rappresentasse la pellicola per fare i film. Rossellini la rimediava dagli “scattini”, fotografi di strada possessori di una Leica, l’unico apparecchio che funzionava con la pellicola del cinematografo. Gli scattini la reperivano al mercato nero. Con i frammenti di pellicola, Rossellini girava le scene. Ecco spiegata la brevità di alcune di esse».
Roma era una realtà brulicante di vita e racconti. «Una realtà che si faceva avanti da sola verso la macchina da presa, sbucava dalle vie del centro e della periferia. Non c’era bisogno di andare alla ricerca di chi sa che
cosa…». Le vicende del film c’erano già tutte, e si erano consumate poco tempo prima che quei tre amici le narrassero nel film. «Alberto Consiglio, giornalista napoletano e teorico del cinema, conosceva l’avventura di un prete ucciso nelle Fosse Ardeatine, don Pietro Pappagallo, sul quale pare avesse anche pubblicato un racconto, “La disfatta di Satana”. Era un sacerdote piuttosto tranquillo, un monsignore beneficiato di Santa Maria Maggiore, che fabbricava documenti falsi per chi, sprovvisto, ne aveva bisogno per circolare. Fu arrestato, rinchiuso a Regina Coeli e poi portato alle Fosse Ardeatine, dove, si dice, prima di morire riuscì a dare l’estrema unzione a quelli che stavano per essere giustiziati». Ecco prendere forma il profilo del personaggio interpretato da Aldo Fabrizi in “Roma città aperta”, il prete falsificatore di documenti. Ma pure amico dei partigiani clandestini. «Un’altra figura di sacerdote informa la personalità di don Pietro Pellegrini, protagonista del film. È don Giuseppe Morosini, un religioso che era stato cappellano militare e che, dopo lo sbandamento dell’8 settembre, manteneva i contatti con gli ex combattenti che s’erano dati alla macchia. Li andava a cercare con un’automobilina, magari solo per dire messa. O per portare messaggi. Fu fucilato a Forte Bravetta, ed ebbe i conforti religiosi da monsignor Traglia, all’epoca vescovo vicegerente di Roma». Ora don Pietro-Fabrizi è riconoscibile: prete-falsario e prete-messaggero, giustiziato dal colpo di grazia di un ufficiale tedesco dopo che il plotone d’esecuzione dei soldati italiani fa in modo di non colpirlo a morte.
Anna Magnani è la sora Pina. La storia di questo personaggio è in parte ispirata alla vicenda di Teresa Gullace, madre di cinque figli, uccisa mentre tentava di consegnare dei viveri al marito imprigionato.
La figura del partigiano galantuomo, Luigi Ferraris, alias ingegner Manfredi, che muore durante le torture della Gestapo in via Tasso è, invece, un’idea di Sergio Amidei, sceneggiatore di “Roma città aperta”. «Amidei l’ha immaginata pensando un po’ anche a se stesso. La pensioncina in un attico di piazza di Spagna – dalla quale nel film il partigiano, sorpreso di notte dai tedeschi, scappa, rifugiandosi sui tetti dell’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede – esisteva veramente. Ne erano titolari le due sorelle zitelle che interpretano se stesse nel film. E Amidei, che vi aveva alloggiato, ha probabilmente vissuto un’avventura simile di fuga notturna su quei tetti».
Rossellini sente raccontare storie di bambini sabotatori che facevano esplodere le bombe negli arsenali, e le propone nel film. Anche il celebre episodio in cui Anna Magnani, che interpreta la sora Pina, cade sotto i colpi di un mitra a via Montecuccoli, presso la via Prenestina, a quel tempo estrema periferia di Roma, è tratto da una storia vera: «Si tratta della vicenda di Teresa Gullace, madre di cinque figli e in attesa di un sesto. Morì il 3 marzo 1944, più o meno come si vede nel film, mentre tentava di consegnare un po’ di pane e formaggio al marito che, rinchiuso in una caserma, attendeva di essere deportato in Germania. C’è ancora una lapide che la ricorda in viale Giulio Cesare dove fu uccisa».
Il viaggio alla ricerca dei luoghi che ospitarono le riprese di “Roma città aperta” ha portato padre Fantuzzi da una parte all’altra della Città eterna. Oltre a piazza di Spagna e a via Montecuccoli, ci sono via Casilina e
Trastevere: «Durante questo viaggio romano, sono venuto io pure a conoscenza di altre storie, come quella di padre Raffaele Melis, parroco di Sant’Elena, sulla via Casilina, nei pressi della ferrovia, dove sono girati gli esterni della chiesa rappresentata nel film. Questo sacerdote, di cui è in corso il processo di beatificazione, morì durante un bombardamento nell’agosto del ’43 mentre recava conforto ai feriti. Colpito mortalmente, fu trovato riverso a terra nei pressi della ferrovia Roma-Napoli col dito ancora intinto nel vasetto dell’olio santo… Gli interni della chiesa sono invece quelli di Santa Maria dell’Orto a Trastevere. Là, da alcune persone che all’epoca dei fatti erano presenti, ho sentito parlare di monsignor Mariano De Carolis, il quale nascose nella sacrestia ebrei e ricercati politici durante l’occupazione nazista e, dopo la liberazione, consentì a Rossellini di effettuare nella chiesa le sue riprese. Alcuni di quegli ebrei e ricercati politici entrarono poi a far parte della troupe».
Era, quella di Rossellini, una troupe aperta – come la Roma raccontata nel suo capolavoro – in cui lavoravano persone di varie estrazioni e provenienze politiche e sociali. D’altro canto, anche quei tre amici che si ritrovavano insieme in una trattoria romana e che insieme lavoravano per girare un film, politicamente non la pensavano allo stesso modo. Tutt’altro. «Amidei era dichiaratamente comunista, Rossellini certamente no. Consiglio era un monarchico. Con loro lavorava anche Ubaldo Arata, che durante le riprese nascondeva sotto la giacchetta una piccola camera a mano, una di quelle usate dai reporter di guerra, e filmava di nascosto
particolari delle scene all’insaputa degli stessi attori per creare un effetto ancora più realistico. Lui era un altro noto comunista. Nell’impresa a un certo punto entra pure un giovane Fellini, che comunista non era sicuramente, come non lo era Fabrizi. Ecco, Rossellini seppe creare un sistema, diciamo così, di pesi e contrappesi che gli permise di lavorare con personalità molto diverse. Fu un criterio di collaborazione che mantenne anche per gli altri suoi film, una sorta di ecumenismo politico. In quel momento storico, gli anni dell’immediato dopoguerra, era una cosa molto significativa».
Sono piccole cose che accaddero a Roma. Storie che ancora si sentono raccontare girando per le strade di questa città aperta.
Roma, 6 febbraio 2019
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