Pollock e la Scuola di New York

In mostra al Vittoriano uno dei nuclei più preziosi della collezione del Whitney Museum di New York: Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning,

Jackson Pollock – Hans Nmuth.

Franz Kline e gli altri rappresentati della “Scuola di New York” irrompono a Roma con tutta l’energia e quel carattere di rottura che fece di loro gli artisti – eterni e indimenticabili – del nuovo astrattismo made in USA.
Sebbene alla “Scuola di New York” sia stata attribuita questa definizione dal sapore didattico essa era in realtà un gruppo informale di poeti, pittori, ballerini e musicisti americani attivi sulla scena newyorkese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Questi artisti non scrissero mai un vero e proprio manifesto ma trassero spesso ispirazione dal surrealismo e dai movimenti artistici d’avanguardia. Ne furono elementi espressivi l’action painting, l’espressionismo astratto, il jazz, il teatro d’improvvisazione e la musica sperimentale. Tra i poeti che ne fecero parte è bene ricordare quelli della beat generation come Gregory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac tra gli altri.
La scelta dell’astrattismo per molti pittori è una scelta obbligata: siamo in America, in un periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Quest’ultima ha profondamente influenzato la società americana e soprattutto ha permesso il diffondersi dell’idea che fosse impossibile progettare una società su modelli utopici o razionale. Gli artisti, ed in particolare i pittori, non si sentono più in grado di progettare un’opera basata su moduli formali prestabiliti. L’arte si stacca così dalla rappresentazione reale del mondo che circonda l’artista per diventare tentativo di rappresentare il caos. Questa nuova modalità di espressione pittorica viene codificata come “espressionismo astratto”: il gesto di dipingere diviene espressione diretta dell’esperienza dell’artista.

Gregory Corso e Allen Ginsberg.

Nell’ambito dell’espressionismo astratto si afferma la personalità e l’ideologia di Jackson Pollock, che è certamente da considerarsi la più alta espressione dell’Action Painting, termine coniato nel 1952 da Harold Rosenberg per dare una definizione alla tecnica che lo stesso Pollock utilizzava per dipingere. Egli infatti attuava una modalità di pittura che prevedeva lo sgocciolamento del colore dal pennello, o direttamente dai barattoli, sulla tela, spesso di enormi dimensioni, stesa per terra, in maniera tale che ci si potesse lavorare contemporaneamente su tutti e quattro i lati.
In questa maniera la tela non è più uno spazio diviso tra centro e periferia, primo piano e piani ulteriori, ma il suo spazio si allarga e può anche travalicare i bordi stessi del supporto pittorico.
L’opera non è più progettata ma diviene il risultato di un processo continuo d’improvvisazione portato avanti in uno stato di trance, così che sia direttamente l’inconscio a creare l’opera senza alcuna intermediazione della razionalità.
La tela che per secoli era stata interprete delle impressioni, dei sentimenti, dei racconti diviene supporto su cui l’esperienza artistica è fissata in quanto vero e proprio ritmo ed essenza vitale.
Esemplificativo di questa esperienza è la grande tela di Pollock intitolata “Number 27” realizzata nel 1950, e presente in mostra. Sulla tela è possibile risalire al movimento che il braccio di Pollock ha effettuato per depositare la vernice e lo smalto. E’ possibile vedere con chiarezza come il colore non sia stato mai lasciato cadere a coprire completamente il fondo nero, che quindi entra in rapporto dinamico con i colori: contemporaneamente quindi si può leggere il nero come continuamente interrotto dai colori, o i colori come se fossero continuamente interrotti dal nero. Entrambe le possibilità sono vere e coesistono. Il dipinto ha anche una tridimensionalità conferita dalle colature di vernice metallizzata.

Number 27 – Jackson Pollock.

Alla fine dell’azione artistica rimarranno impressi sulla tela sei colori: bianco, nero, giallo, verde oliva, grigio e rosa pallido.
La trama è indecifrabile e tesa a coprire l’immagine che Pollock stesso aveva immaginato, per volere e per dichiarazione esplicita dell’artista: “velare l’immagine, la quale diventa oscura e misterica”.
Lo stesso Pollock insistette molto perché la sua maniera di dipingere, a metà tra danza, trance e performance fosse documentata con immagini fotografiche e video e il suo desiderio nel 1951 trovò nel regista tedesco Hans Namuth colui che lo attuò.
Grazie alle foto e ai brevi filmati di Namuth, ancora oggi restiamo affascinati e colpiti da come Pollock lavorasse alla pittura, stravolgendola rispetto ai canoni ordinari. E tra questi documenti diviene un cult il video, girato sempre da Hans Namuth nello suo studio a Spring: Pollock all’opera mentre lavora e danza intorno alla grande tela srotolata in terra.
Pollock diviene così leggenda. Artista tra i preferiti dell’iconica collezionista Peggy Guggenheim che di lui ebbe a dire: «Era un uomo contraddittorio. Così timido e difficile da presentare alla gente e nervoso. Arrivava sempre sbronzo e per questo non avrebbe potuto farcela da solo».
La mostra in corso al Vittoriano, curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice è divisa in 6 sezioni, permette di ammirare più di 50 capolavori, e diviene così un susseguirsi di colori vividi, armonia delle forme, soggetti e rappresentazioni astratte che immergono e guidano i visitatori in un contesto artistico unico e originale: quello dell’espressionismo astratto.
In mostra, quindi, c’è il frutto di una “rivoluzione” nata nel maggio del 1950, quando il Metropolitan Museum di New York organizzò un’importante mostra di arte contemporanea escludendo la cerchia degli “action painter”. La decisione scatenò la rivolta degli esponenti del movimento e proprio in questo clima d’insurrezione e stravolgimento sociale l’espressionismo astratto divenne un segno indelebile della cultura pop, attraverso il particolare connubio tra espressività della forma e astrattismo stilistico, elementi che influenzarono sensibilmente tutti gli anni ’50 del Novecento.

Four Darks in Red – Mark Rothko – 1958.

L’Action painting, ovvero la “pittura d’azione”, diventa così sinonimo d’innovazione, trasformazione, rottura degli schemi e del passato e questa straordinaria mostra permette di riscoprire non solo il fascino di tale movimento, ma anche di rivivere emozioni e sentimenti propri di quegli artisti che hanno reso unico un capitolo fondamentale della storia dell’arte, che vede in Pollock certamente una delle punte più limpide e alte.
Pollock nasce a Cody, Wyoming, nel 1912. Le cronache riferiscono di un’infanzia difficile e itinerante, per i continui spostamenti della famiglia tra California e Arizona ai tempi della Grande Depressione, quando il padre di Pollock era costretto a cercare lavoro dove capitava. Il giovane Jackson ha un carattere ribelle, ingestibile sia per la famiglia che per la scuola, poco incline al rispetto delle regole e afflitto sin dall’adolescenza da ripetuti problemi di alcolismo: eppure, quando dipinge, è evidente a tutti il suo strepitoso e prematuro talento.
Alla metà degli anni Trenta incontra e si innamora di Lenore Krasner – anche lei artista – che sposerà solo nel 1945. Quindi la coppia si trasferisce a Springs, Long Island, e la Krasner si dedica alla carriera del marito, diventando la sua principale promoter. Ed è qui, in un nuovo studio ampio come un capannone industriale, che Pollock potrà scoprire il “dripping”, lo sgocciolamento, e farne la sua propria modalità espressiva. Dai filmati e dalle foto a disposizione di questi atti creativi Pollock appare completamente immerso nell’atto stesso, senza soluzione di continuità tra l’uomo, l’artista, il sentire e l’espressione. L’artista si muove al ritmo della musica jazz e la creazione dell’opera entra a far parte dell’opera stessa.
L’ultimo periodo della vita del pittore del Wyoming fu il più difficile. L’esistenza complessa, fin dall’infanzia, turbata da problemi psichiatrici e di alcol continuava. Tra 1948 e 1950, periodo d’intensa attività, anche la rivista “Life” si domandò, retoricamente, se fosse lui l’artista americano più famoso, accostandolo ai grandi maestri europei quali Picasso, Miró, Rouault, Matisse.

Jackson Pollock – Hans Namuth.

Di fatto è proprio la sua vita sregolata e assurda a interrompere prematuramente una sfolgorante carriera: l’11 agosto 1956, dopo l’ennesima notte brava, Pollock si schianta al volante della propria auto. Con lui muore una giovane donna, un’altra resta gravemente ferita.
Sono passati oltre sessant’anni dalla sua morte, eppure il mito di Pollock resta inscalfibile e sempre attuale: a lui e alla sua arte è dedicata tutta la prima sezione della mostra romana.
Ma la mostra non è solo Pollock. Nella seconda sezione – Verso la Scuola di New York – ci si sofferma sulla generazione di pittori in America che si allontana dal realismo e dalla figurazione, vedendo nell’astratto il segno di un tempo nuovo come Arshile Gorky, William Baziotes, Robert Motherwell, tra i fondatori della “Scuola di New York”, Clyfford Still, Mark Tobey, Richard Pousette-Dart e tanti altri come Bradley Walker Tomlin tra i precursori, fin dai primi anni Quaranta, del nascente “Espressionismo astratto”.
La Terza sezione si concentra su Kline. I suoi dipinti di grandi dimensioni modulati prevalentemente sul bianco e nero, più raramente di altri colori. Kline, insieme a Pollock, Rothko e de Kooning è considerato tra i massimi interpreti della “Scuola di New York”.

Pollock e la Scuola Americana – Una foto della mostra.

Nella Quarta sezione – “Dall’Espressionismo astratto ai Color Field”, la pittura si dirige rapidamente verso la smaterializzazione. Nella Quinta sezione, dedicata a Willem de Kooning, l’artista sempre vicino all’Action Painting, ma mai completamente espressionista astratto, pur abbracciandone i principi teorici non abbandona la figurazione. Resta famoso soprattutto per la serie Woman I, ciclo dedicato alla figura femminile. Mentre nella sesta e ultima sezione dal titolo “Mark Rothko” il focus è sul pittore dall’approccio lirico e mistico. Nei suoi quadri ci sono pennellate estese di colore che tracciano soprattutto rettangoli luminosi e vibranti.

Roma, 9 dicembre 2018

 


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