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  1. Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, custodia della cristianità

    Sulla sinistra di Porta Tiburtina, il piccolo Parco Tiburtino e Villa Mercede sono i modesti avanzi della distesa di vigne e di ville preesistenti.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Oggi.

    Poco lontano dalle mura alle quali, in epoca medievale, essa era collegata da un portico, sorge la basilica di San Lorenzo fuori le Mura, uno dei trenta edifici sacri intitolati a Roma al diacono Lorenzo. Di origine spagnola, fu martirizzato il 10 agosto dell’anno 258. Il martirio avvenne, secondo tradizione, sopra una graticola ardente, custodita nella basilica di San Lorenzo in Lucina, nel luogo dove oggi sorge la chiesa di San Lorenzo in Panisperna. Il corpo venne poi sepolto nell’antico ager Veranus, che si estendeva lungo la via Tiburtina.
    L’imperatore Valeriano era a conoscenza del fatto che Lorenzo, tra i sette diaconi di Roma, fosse il depositario dei beni della Chiesa di Roma, privata di papa Sisto II e dei vescovi già messi a morte. Alla richiesta del prefetto dell’imperatore di consegnargli tale “tesoro”, Lorenzo fu costretto a mostrarglielo. Allora Lorenzo si presentò al suo cospetto con una folla di

    San Lorenzo Fuori Le Mura – 1852 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    poveri. «Ecco! Questo è il tesoro della Chiesa» disse. Un gesto, quello, che gli sarebbe costato la prigionia e poi il martirio.
    Il luogo di sepoltura nell’Agro Vaticano, nel cimitero della matrona Ciriaca, divenne un luogo di culto. E “di Ciriaca” sono chiamate le catacombe che si sviluppano sotto la chiesa e sotto il cimitero monumentale del Verano.
    Nel centro del piazzale antistante la basilica si alza una colonna collocata nel 1865, in sostituzione di un’altra precedente più piccola come monumento commemorativo della conclusione dei grandi lavori voluti da Pio IX, sepolto proprio in San Lorenzo fuori le Mura, per il generale restauro della basilica e per la sistemazione del piazzale stesso, in coincidenza della costruzione del cimitero. Essa sorregge una statua bronzea del diacono Lorenzo, opera di Stefano Galletti.
    In un’aiuola laterale è stata invece sistemata la statua bronzea dedicata al papa Pio XII, realizzata grazie a una sottoscrizione, in ricordo della visita al quartiere ancora fumigante per il bombardamento dell’ultima guerra.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Dopo il bombardamento del 13 luglio 1943.

    Il 19 luglio 1943 un pesante bombardamento americano sulla zona degli impianti ferroviari di Roma pose fine all’illusione della intoccabilità dell’Urbe, provocando migliaia di vittime e ingenti danni. Unico monumento della città ridotto in cenere fu proprio San Lorenzo. Anche i successivi bombardamenti che si ebbero sulla città fino al giugno del 1944, risparmiarono il patrimonio monumentale di Roma.
    La basilica appartiene al novero delle sette chiese – basiliche giubilari, meta dei pellegrinaggi penitenziali degli anni santi e di tutti coloro che vogliono visitare una delle più importanti memorie cristiane.
    Allo stato attuale delle scoperte archeologiche, sembra di poter affermare che l’imperatore Costantino creò un sacello sulla tomba del martire che si trovava sotto la collina del Pincetto. La collina era allora assai più avanzata e solamente in seguito venne tagliata. Contemporaneamente l’imperatore costruì una grande basilica di quasi 100 metri di lunghezza e 36 di larghezza, la stessa cosa fece a Sant’Agnese fuori le Mura, dove rimangono in parte i resti perimetrali della basilica.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Dopo il bombardamento del 13 luglio 1943.

    Mentre tale basilica detta “maior” – che si trovava sul posto dell’attuale cimitero – è andata distrutta con il passare del tempo, secondo una sorte che è toccata a un insieme di oratori, di mausolei, di ospizi e di altri edifici che avevano finito per costituire una sorta di sacro sobborgo, sopra il sacello posto sulla tomba di San Lorenzo si sviluppò una chiesa che trovò pieno assetto con papa Pelagio II, 579-590.
    Quella chiesa corrisponde al presbiterio dell’attuale basilica ed era orientata nel senso opposto. Successivamente Onorio III, 1216-1227, ne fece demolire l’abside e raccordare l’edificio a un’altra costruzione più grande costituita dalle tre navate della basilica di oggi.
    Il complesso di San Lorenzo si avvale di un grandissimo fascino, a cominciare dall’esterno, la cui facciata con tre grandi finestre a centina è stata completamente ricostruita dopo il bombardamento e ha naturalmente perduto le decorazioni pittoriche ottocentesche. Il portico-nartece, anch’esso ricostruito, appartiene ai lavori di Onorio III. È retto da sei colonne che reggono un architrave sul quale corre un raffinato fregio

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Interno.

    mosaicale, attribuibile alla scuola marmoraria del Vassalletto e simile a quello del chiostro lateranense. Nell’interno del portico sono collocati alcuni pregevoli sarcofaghi antichi, la stele commemorativa della visita di Pio XII alle rovine della basilica, il giorno stesso della sua distruzione, e la tomba di Alcide De Gasperi, il presidente della ricostruzione italiana dopo la guerra. L’opera di singolare efficacia è di Giacomo Manzù. Sempre nel portico si trovano alcuni affreschi della fine del secolo XIII.
    L’interno della chiesa mostra subito il divario di forma architettonica fra le sue due parti. Le tre navate sono divise da colonne ioniche, sorreggenti un architrave, sono di spoglio, diverse fra loro, forse in parte provengono dalla precedente basilica costantiniana. Il pavimento cosmatesco di epoca onoriana, datato agli inizi del XIII secolo, è stato accuratamente ricomposto, salvo qualche parte perduta al centro. Il tetto è stato lasciato a capriate, sopprimendo i cassettoni quattrocenteschi. Sono andati perduti per la

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Interno.

    massima parte i dipinti di Cesare Fracassini che erano stati eseguiti in occasione del restauro di metà ottocento sulle pareti della navata principale. Restano quelli dell’arcone trionfale e un grande pannello è stato collocato sopra la porta.
    Nella navata centrale sono due magnifici amboni del trecento, fine opera dei marmorari. Accanto a quello di destra, si trova un candelabro pasquale tortile e decorato a mosaico.
    Al termine della navata, dove un gradino bianco circolare segna l’andamento dell’abside della chiesa di papa Pelagio, un sistema di scale porta alla “confessione”, alla cripta e al presbiterio. La cripta corrisponde al livello originario della chiesa di papa Pelagio che era munita anche di un portico interno. All’epoca della sua trasformazione essa era stata colmata di materiale di riempimento che Virginio Vespignani, autore del restauro ottocentesco – il quale, fra l’altro, isolò la chiesa dalla collina che la avvolgeva su due lati, danneggiandola con l’umidità – eliminò, provvedendo a sorreggere il presbiterio con pilastri e colonnine. La zona

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Mosaico dell’arcone.

    della confessione corrisponde al sepolcro di Lorenzo e di santo Stefano protomartire.
    Sul retro, l’intero portico antico di ingresso è stato trasformato nella Tomba di Pio IX. Questa per volontà del papa che aveva presieduto ai restauri della chiesa avrebbe dovuto essere molto semplice. Assunse invece il ricchissimo aspetto attuale per un moto spontaneo di riparazione del mondo cattolico contro le offese recate alla memoria del papa. La sistemazione è opera dell’architetto Raffaele Cattaneo che concepì una decorazione neo-bizantina. I pannelli musivi sono del tedesco Ludovico Seitz.
    Il presbiterio è artisticamente il punto di maggiore interesse della chiesa. Lo si raggiunge con due scalette ai lati della confessione. Quel che più colpisce sono le grandi colonne che emergono dal livello inferiore e che con bellissimi capitelli ionici sostengono una trabeazione costituita da un complesso di marmi decorati ad intaglio provenienti da diversi monumenti. Al di sopra si snodano gli archetti dell’antico matroneo, con belle colonnine, fra loro diverse. Ai lati del presbiterio, rettangolare, ci sono lunghi sedili marmorei e, in fondo, una sedia episcopale con un dossale in cui sono inseriti dischi di porfido e di serpentino; ai lati essa ha due meravigliosi plutei con riquadri anch’essi di serpentino e porfido e con colonnine tortili mosaicate. Si ritiene che tutto questo materiale, così sistemato nel 1254, provenga da una più antica schola cantorum, realizzata dai marmorari romani. A questi ultimi si deve anche il pavimento cosmatesco e il ciborio, composto di quattro colonnine di porfido che reggono una trabeazione sorreggente un secondo ordine ortogonale di colonnine, sovrastato a sua volta da una cuspide pure a colonnine. Si tratta del tipo di ciborio a gabbia che si ritrova in varie chiese romane e che qui è stato ricostruito dal restauro ottocentesco al posto di una cupoletta cinquecentesca. L’opera è firmata dai fratelli Pietro, Angelo e Sasso, marmorari figli di Paolo e datata

    Sarcofago antico utilizzato quale tomba del cardinale Fieschi.

    al 1148. Si tratta quindi di un lavoro precedente alla sistemazione di papa Onorio III e pertanto qui trasportato da precedente e diversa collocazione. Sotto il ciborio è custodito un altare ricomposto con antichi frammenti, fra cui una grande lastra di porfido.
    Dal presbiterio si gode altresì il mirabile mosaico della fronte interna dell’arcone; essa, un tempo, introduceva al fulgore dei mosaici del catino dell’abside distrutta. Questo mosaico raffigura “Cristo tra Santi” e con papa Pelagio II che offre il modello della sua chiesa; è opera di transizione tra lo stile romano e il bizantino e vi appare nitida la mano di tre artisti diversi, di differente formazione culturale.
    Il bombardamento ha spogliato la chiesa di molte sovrastrutture ornamentali, specie barocche. Restano alcuni sepolcri, fra i quali, importante, quello del cardinale Fieschi, morto nel 1256: riutilizza un bel sarcofago antico, riquadrato come un ciborio, che comprendeva anche un affresco oggi andato distrutto.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Particolare del pavimento.

    Alla fine della navata sinistra, un vano di due metri per due è decorato con affreschi dell’VIII secolo. Dal fondo della stessa navata, una scala, affiancata da due monumenti funebri di Pietro da Cortona con busti di Francesco Duquesnoy, porta alla sotterranea cappella di Santa Ciriaca che dà accesso alle catacombe. L’altare, sul quale avrebbe celebrato san Pietro, è arricchito da ex voto.
    In un piazzaletto a destra della chiesa si leva il campanile romanico, che risale probabilmente alla metà del secolo XII. Ha cinque ordini di archetti divisi da pilastri e un aspetto severo.

    Roma, 4 gennaio 2020

  2. Tempo di Natale: la Basilica di Santa Maria all’Ara Coeli e il Bambinello miracoloso

    «Santa Maria in Ara Coeli al Campidoglio, Chiesa regionale SENATUS

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Canaletto.

    POPULUSQUE ROMANUS»: la definizione dell’Annuario della Diocesi di Roma è tanto sintetica quanto densa di significati: se la Basilica di San Pietro in Vaticano e la Cattedrale di San Giovanni in Laterano legano l’Urbe all’apostolo Pietro e ai suoi successori, l’Ara Coeli è la chiesa del popolo romano e delle sue istituzioni civiche. E c’è più di una ragione a rendere questa chiesa unica: secondo un’antica tradizione, nel luogo dove essa sorge, l’imperatore Ottaviano Augusto avrebbe avuto la visione di una giovane donna con un bambino in braccio che gli preannunciava: «Haec est Ara Filii Dei», «questo è l’Altare del Figlio di Dio». Dopo quella visione, l’imperatore avrebbe deciso di innalzare un piccolo altare a quel Dio bambino che stava per arrivare.
    E proprio grazie alla presenza di un’effige di Gesù Bambino, la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli è carissima al cuore dei romani e dei fedeli di ogni parte del mondo: dalla fine del XIV secolo, infatti, la chiesa ospita una statuetta lignea che raffigura il Bambino Gesù – per i romani «er Pupo» o «er Bambinello» – dispensatore di miracoli e grande beniamino dei bambini, i quali, da tempi immemorabili, si recano dalla notte di Natale fino all’Epifania, al suo cospetto, a leggere pensierini, esprimere desideri e recitare preghiere.

    Il Bambinello – Basilica di Santa Maria in Ara Coeli

    La Chiesa dell’Ara Coeli, come si è soliti chiamarla familiarmente, è dunque una delle più venerabili fabbriche della città.  Già nel 574 la chiesa, denominata allora Santa Maria in Capitolio, era considerata molto antica. Secondo alcune fonti a volerla edificare fu sant’Elena, la madre di Costantino. Secondo altre, papa Gregorio Magno.
    Comunque, in quel VI secolo, annesso alla chiesa c’era anche un convento di monaci greci. Dopo i greci, erano arrivati i monaci benedettini a governare chiesa e convento, i quali, a loro volta, nel XIII secolo, lasciarono il posto ai francescani, l’ordine dei tempi nuovi.
    E mentre le vestigia di Roma antica erano ormai andate in rovina, qualcosa dell’antica gloria del Campidoglio era ancora viva entro le mura della chiesa e del convento: qui gli anziani della città si riunivano per discutere dei loro affari, alla maniera in cui il Senato era solito riunirsi ogni anno nel tempio di Giove, situato nei secoli della Roma antica, sull’altra sommità del colle capitolino.

    Scalinata della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Si ringrazia “RomaSparita”.

    In un’epoca non precisata, la chiesa, ad un certo punto, cambiò nome: da Santa Maria in Capitolio in Santa Maria in Ara Coeli. Qualche notizia sul motivo del cambiamento si rintraccia nei Mirabilia Urbis Romae, le antiche guide della città famosissime dall’alto medioevo fino al tardo rinascimento.
    Vi si afferma che la chiesa era stata costruita sul sito dove sorgeva il tempio di Giunone Moneta, dove si trovava la zecca romana, donde prese origine la parola moneta ai tempi di Augusto imperatore, che aveva proprio nei pressi del tempio di Giunone uno dei suoi palazzi. Ed era stato proprio in quel palazzo che l’imperatore, «sbigottito che il Senato volesse tributargli gli onori riservati agli dei», aveva interpellato la Sibilla Tiburtina. E la Sibilla così si era espressa: «vi sono indizi che presto dal sole scenderà il Re dei secoli venturi e la vera giustizia sarà fatta». Mentre la Sibilla parlava, l’imperatore vide aprirsi i cieli e scorse una giovane donna che teneva in braccio un bambino ammantato di luce; due voci gridarono dal cielo: «Questa è la Vergine che porterà nel suo grembo il Salvatore del mondo. Questo è l’altare del Figlio di Dio». Allora Augusto eresse un altare nel luogo stesso della visione – l’Ara Filii Dei o Ara Coeli – .
    Parecchi cronisti del Medioevo menzionano questo altare. Un’ulteriore conferma della tradizione si volle vedere in un’antica colonna sulla quale si leggevano le parole a cubicolo Augustorum, ovvero «dalla stanza degli imperatori»: la colonna è la terza nella navata sinistra della chiesa.

    La così detta Colonna di Augusto. Si ringrazia Alvaro de Alvariis.

    Che la tradizione si riferisca al Campidoglio e a Ottaviano Augusto può essere anche dovuto al fatto che nel secolo XI esisteva nella zona dell’Ara Coeli un edificio di mole considerevole noto come camera o palatium Octaviani, nel quale, tra l’altro, fu ospitato un emissario dell’imperatore Enrico III, Rex romanorum dal 1039 al 1056, e dal 1046 imperatore del Sacro Romano Impero.
    Nel transetto sinistro dell’Ara Coeli, entro un tempietto con otto colonne, un’urna di porfido che si dice contenesse le spoglie mortali di sant’Elena, madre di Costantino, poggia su un altare incassato nel pavimento ritenuto proprio l’Ara Coeli fatto costruire da Augusto. Nell’abside un affresco ritrae Augusto e la Sibilla Tiburtina tra i santi e gli angeli, cosa davvero inusitata per un imperatore pagano. In verità questa profezia fu talmente cara ai fedeli romani che le Sibille compaiono tra gli elementi decorativi delle chiese cristiane. Agli albori del XII secolo la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli assume, definitivamente, il ruolo di chiesa del popolo romano: è il 1143 quando a Roma ebbe luogo la cosiddetta renovatio Senatus, ossia il rinnovamento dell’antica istituzione in opposizione al potere del sovrano Pontefice, allora era papa Innocenzo II. Un anno dopo fu istituito il Comune di Roma con a capo il potente Giordano Pierleoni, il quale scelse il Campidoglio e quindi l’Ara Coeli come sede dell’istituzione cittadina. E proprio nella chiesa ebbero luogo, per anni, le assemblee dei rappresentanti del popolo. Nel 1250, papa Innocenzo IV decise di affidare chiesa e

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Interno.

    monastero ai francescani, i quali ristrutturarono gli edifici che continuarono ad essere oltre che luogo di culto, anche il centro della vita politica del libero comune. I francescani ne cambiarono anche l’orientamento: prima verso i Fori, ora verso la basilica di San Pietro in Vaticano. Una strana commistione tra religione e politica, che però, nonostante tutto, manteneva distinte l’una dall’altra. Nel 1348 si procedette alla costruzione della bellissima scalinata con 122 scalini che ammiriamo ancora oggi, commissionata dal comune come voto alla Madonna affinché ponesse fine alla peste che imperversava in tutta Europa. Ad inaugurare la scalinata fu Cola di Rienzo, tribuno del popolo e grande studioso di antichità romane. Benché non fosse mai stato anticlericale, ma anzi avesse sempre accuratamente coltivato il sostegno papale alle proprie imprese, la figura di Cola di Rienzo fu assai cara all’immaginario risorgimentale e massone, che ne fece l’eroe antesignano di un risorgimento di Roma rimasto incompiuto. Ma tornando alla nostra chiesa, va ricordato che proprio entro le sue mura Francesco Petrarca fu laureato poeta nel 1341. E che, nel 1571, vi fu celebrato il trionfo di Marcantonio Colonna, comandante della Lega cattolica contro i Turchi a

    Una Processione a Santa Maria in Ara Coeli – Oswald Achenbach.

    seguito della sua vittoria nella battaglia di Lepanto: lo straordinario soffitto dell’Ara Coeli ne ricorda la celebre vittoria. Sempre qui, dal XIV al XIX secolo, si celebrava il Te Deum di ringraziamento del popolo romano alla presenza del Papa. Nonostante il carico di storia e di tradizioni che questa chiesa vanta, il vero motivo per cui è famosa in tutto il mondo è la presenza del Bambinello, una scultura di Gesù Bambino intagliata nel XIV secolo da un frate francescano nel legno d’ulivo proveniente dal Getsemani. Tranne che nel periodo delle feste natalizie, durante le quali viene trasferita nel presepe allestito in una cappella della navata sinistra, la sacra effige viene conservata in una custodia di vetro posta sull’altare di una piccola cappella accanto alla sacrestia. Purtroppo, la statuetta fu rubata nel febbraio del 1994 e mai più ritrovata. Al suo posto fu posta una copia che ha continuato a elargire tante e tante grazie: nella cappellina due grandi contenitori di vetro pieni zeppi di lettere spedite da bambini e da fedeli di tutto il mondo contenenti le richieste di miracoli. Spesso sono indirizzate semplicemente «Al Bambino, Roma». I foglietti, poi, vengono bruciati senza che siano stati aperti dai padri francescani, i quali non si intromettono in quello stupendo dialogo tra Gesù e i suoi piccoli. Molte volte, prima di quel 1994, si è tentato

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Giovan Battista Piranesi.

    di rubare il Bambinello: nel febbraio del 1794, una donna se lo portò a casa e lo sostituì con una copia perfetta. Ma a mezzanotte dello stesso giorno, le campane dell’Ara Coeli si misero a suonare e alle porte del convento i francescani ritrovarono il Santo Bambino che fu subito rimesso al suo posto, mentre la copia andava in mille pezzi. E poco prima di quel febbraio del 1994, giorno del furto definitivo, qualcuno si portò via gli ori e i gioielli che ricoprivano la statuetta. Dopo alcuni mesi, i fedeli di ogni parte del mondo ne donarono altrettanti. Molti sono i malati che, ancora oggi, chiedono ai padri francescani di poter vedere e toccare il Bambinello: e allora ecco che la statuetta lascia la sua cappellina per andare in visita a chi ne ha bisogno. Oggi i trasferimenti avvengono il più delle volte in taxi. Ma per secoli si è utilizzata una bellissima carrozza e successivamente un’automobile cardinalizia. A tal proposito a Roma rimane famoso l’episodio di quando alcuni soldati fermarono un’automobile cardinalizia che tentava di attraversare Piazza Venezia mentre Benito Mussolini teneva un discorso. Appena si accorsero che trasportava il Santo Bambino al capezzale di un malato, la lasciarono proseguire immediatamente. Si spera sempre che la statuetta rubata possa tornare prima o poi al suo posto. Anche se pare che il Signore non sembra curarsi troppo del dettaglio, continuando a elargire con larghezza la sua grazia attraverso la semplice copia.

    Roma, 13 dicembre 2019

  3. Le tombe di via Latina, gioiello dell’arte funeraria

    Nel mezzo della periferia romana, tra le moderne via Appia e via

    Sarcofago per due in marmo greco – Tomba dei Pancrazi – Parco Archeologico della Via Latina.

    Tuscolana, si incastona ancora perfettamente conservato un tratto del III miglio dell’antica via Latina. Risparmiato dall’invadenza del cemento, questo frammento di campagna romana conserva intatto il fascino arcadico della sua dimensione originaria di strada antica fiancheggiata da alberi e sepolcri. Tra il corteo di sempreverdi e l’allineamento delle tombe, qui è possibile ritrovare il gusto e la passione per il passato, come in un’ottocentesca promenade. La strada con i suoi basoli conduce verso una realtà solitaria e agreste, lontana dai rumori assordanti del traffico. Essa ha origini remote: la rotta naturale, già seguita in età preistorica, venne utilizzata dagli Etruschi per colonizzare la Campania nel tra l’VIII e il VI secolo avanti Cristo. Tracciata definitivamente dai Romani intorno tra il IV e il III secolo avanti Cristo, congiunse Roma a Capua attraversando i monti Lepini, Ausoni, Aurunci e le valli dei fiumi Sacco e Liri mantenendo la sua importanza per tutta l’antichità.

    Tomba dei Valeri – Particolare del soffitto a stucco bianco – Parco Archeologico della Via Latina.

    Anche in età medievale, infatti, fu preferita come viabilità per Napoli per la migliore conservazione rispetto all’Appia e la presenza di una serie di edifici di culto cristiani lungo il tracciato. Entrando nel Parco archeologico delle Tombe della Via Latina è oggi possibile percorrere un tratto del selciato originale della strada. Con una gradevole passeggiata a piedi si possono ammirare le ricche tombe risalenti ad un periodo compreso tra il I e il II secolo dopo Cristo che si affacciavano sul percorso, che presentano ancora perfettamente conservate le decorazioni policrome sulle facciate e all’interno: volte rivestite d’intonaco dipinto e stucco, pareti affrescate con scene di carattere funerario e ricchi pavimenti in mosaico si conservano ancora sostanzialmente intatti nel loro contesto originario. Dalla strada è inoltre possibile raggiungere la Basilica di Santo Stefano, raro esempio di impianto paleocristiano eretto sotto il pontificato di Leone Magno intorno alla metà del V secolo. Il Parco archeologico delle Tombe della Via Latina è stato istituito nel 1879 a seguito dell’acquisizione da parte dello Stato di una vasta area in cui erano stati portati alla luce notevoli resti di età romana. Grazie ai recenti lavori di restauro è oggi possibile accedere all’interno di alcuni dei sepolcri più spettacolari in piccoli gruppi per non comprometterne lo stato di conservazione: il cosiddetto Sepolcro Barberini, o dei Corneli. Il monumento funerario, databile al II secolo dopo Cristo, è costituito da due piani sopraterra e da uno ipogeo in eccellente stato di conservazione. Il piano superiore è coperto da una volta a crociera interamente rivestita di intonaco affrescato a sfondo rosso ed elementi in stucco. Si riconoscono gruppi di personaggi, vittorie alate su bighe, amorini, uccelli, animali marini, soggetti mitologici e sfondi architettonici. La Tomba dei Valeri. Se ne conservano gli ambienti ipogei riccamente decorati, databili alla metà del II secolo dopo Cristo, mentre l’elevato è una ricostruzione ipotetica realizzata nella metà dell’Ottocento. Un elaborato rivestimento in stucco bianco, articolato in 35 medaglioni e riquadri, orna le lunette e la volta a botte dell’ambiente sotterraneo.

    Tomba dei Valeri – Uno scorcio del soffitto decorato in stucco bianco – Parco Archeologico della Via Latina.

    Soggetti dionisiaci, figure femminili e animali marini sono rappresentati nei medaglioni, mentre nel tondo centrale si trova una delicata figura velata a dorso di un grifone, che rappresenta la defunta portata nell’aldilà. La Tomba dei Pancrazi. Gran parte della struttura visibile è una costruzione moderna che protegge il monumento sottostante impostandosi sui muri originali databili tra il I e il II secolo dopo Cristo che si conservano per circa un metro di altezza. Entrando nel sepolcro si possono ammirare gli ambienti sotterranei splendidamente decorati con mosaici sui pavimenti e volte e pareti affrescate con colori brillanti e stucchi in eccellente stato di conservazione. Vi sono raffigurate scene mitologiche, paesaggi naturali e architettonici, immagini femminili e di animali. Al centro di una delle camere ipogee campeggia un grande sarcofago per due deposizioni in marmo greco.

    Roma, 11 dicembre 2019

  4. Le “Madonnelle stradaiole”, la religiosità popolare romana

    Chi di noi non si è imbattuto passeggiando per i vicoli o le strade meno trafficate di Roma nella vista improvvisa su un muro o agli angoli di un palazzo storico di una Madonna dipinta sotto un baldacchino? Le “madonnelle stradarole”, così vengono chiamate a Roma le edicole sacre, sono il simbolo e, al tempo stesso, la testimonianza di una religiosità popolare, di strada e di quartiere, e più in generale di un modo di vivere la città.
    A volte hanno avuto un’importanza così alta al punto da essere trasferite all’interno delle basiliche per essere onorate in modo ufficiale e da tutta la città, come la Madonna di Strada Cupa, un’edicola che stava ai piedi del Gianicolo, trasferita nel 1625 nella basilica di Santa Maria in Trastevere in una cappella costruita appositamente a riconoscimento dei molti miracoli che aveva compiuto.
    Le edicole romane rappresentano un’immagine sacra, prima fra tutte Maria, principale protettrice dei cristiani e mediatrice presso suo figlio Gesù, ritratto come il Salvatore. Proprio nella più antica edicola rimasta nel cuore di Roma, in via dei Cappellari, risalente al secolo XIV, è raffigurata una Crocefissione e la figura del Salvatore è presente anche in altre, mentre il soggetto più diffuso è quello della Madonna della Pietà o la Madonna Addolorata o le Madonne con il bambino. Le immagini sono contenute in una forma che può essere un semplice medaglione con cornici a stucco, decorato al massimo con qualche nastro, alle forme più complesse dove sono presenti pilastri, cherubini e putti, ecc., che insieme – in epoca barocca – davano vita a composizioni spettacolari e scenografiche. Altro elemento che caratterizza le edicole sacre romane è il baldacchino, realizzato quasi sempre in metallo a forma di tenda e a spicchi, arricchito da un orlo a frange e fiocchi.

    San Francesco a Ripa.

    «Credo che prima ancora del sentimento religioso», scrive Giuseppe De Fiori nel volume “Le vie di Roma – Le edicole sacre”, Bonsignori Editore, «sia stata la necessità di illuminare gli angoli bui di una Roma rinascimentale violenta, popolata di agguati ed assassinii, a porre sui cantoni dei palazzi, ai crocevia delle strade strette e malsicure, un lume, che forse proprio perché destinato alla Madonna, veniva rispettato più di un semplice lampione». Questo perché l’edicola si pone al centro di uno spazio che non è solo sacro, ma anche profano all’interno del quale assume un valore proprio rispetto al rione, trasformando situazioni potenzialmente critiche, luoghi di passaggio o di “margine”, in uno spazio sicuro, svolgendo così una funzione di salvaguardia dell’ordine costituito. Non a caso le edicole si trovano ai confini tra rioni e agli incroci, luoghi che era necessario proteggere, quasi che l’uomo avesse bisogno di consacrare la città per difenderla dai pericoli interni ed esterni. Come scrive lo storico Francesco Pitocco in “Le vie di Roma – Le edicola sacre” «le edicole romane acquistano il loro valore proprio dal rapporto con il loro “bacino d’utenza” culturale, rione o quartiere che sia; rapporto vissuto privatamente dai singoli, ma anche gestito e organizzato collettivamente da confraternite o congregazioni varie, prima fra tutte quella di San Filippo Neri, che segnano nelle immagini votive il segni del possesso di un’area della città, al contributo da famiglie aristocratiche, al decoro urbano, attraverso la collocazione di una madonnella sul palazzo o sulla chiesa familiare».

    Santa Maria in Portico.

    Chi veniva in visita a Roma non poteva non rimanerne colpito. Il filosofo e scrittore francese Ernest Renan scriveva al suo amico Marcelin Barthelot in una lettera del 1849: «Dopo un quarto d’ora che camminate per Roma siete subito rapiti dalle tante immagini che si accumulano prodigiosamente: quadri, statue, chiese, monasteri, dovunque, ma non vi riscontrate mai niente di banale o di volgare: ovunque c’è invece la presenza dell’ideale». Le edicole sacre non sono solo una testimonianza religiosa, dunque, ma anche un prezioso documento di arredo urbano dalla fattura preziosa, avvolte da un alone di romanticismo che ci riporta al passato e all’identità romana anche se oggi, travolte da un caos che non apparteneva alle loro origini, spesso non si notano, rischiando di smarrire un’identità collettiva.
    La loro origine si fa risalire addirittura alla Roma di Servio Tullio, sesto re di Roma, tra il 578 avanti Cristo e il 539 avanti Cristo, nate con la funzione di proteggere le regioni e i quartieri in cui era stata suddivisa. Erano molte e “gestite” da corporazioni religiose che celebravano riti propiziatori e organizzavano feste, anche per gli schiavi, e giochi. Al tempo di Augusto erano 265 e sotto Costantino 423. «I compita Larum», così si chiamavano le edicole sacre dei romani antichi, – scrive Laura Cardilli ne “Le vie di Roma – Le edicole sacre” – «erano costituiti da piccoli recinti dapprima a cielo aperto con ingressi a seconda delle strade al cui intersecarsi si trovavano, con sedili per gli offerenti, che ospitavano presso l’ara l’immagine della divinità, i devoti vi appendevano per offerta vari oggetti che consentivano tra l’altro di effettuare il censimento della popolazione sia schiava che libera».

    Via Acerbi.

    Il trascorrere dei secoli non ha cancellato usi e riti che si consumavano ai piedi delle madonnelle, tutt’altro. Essi sono sopravvissuti in maniera persistente in epoche diverse e lontane tra loro. È il caso di molte edicole, soprattutto rinascimentali, realizzate secondo i canoni classici come l’“edicola di ponte” di Antonio di Sangallo il Giovane per l’edificio in via dei Coronari-angolo vicolo Domizio e affrescata con L’Incoronazione della vergine da Perin del Vaga o l’edicola nei pressi del crocevia della via Appia con il vicolo della Caffarella, fatta costruire a pianta circolare alla fine del Cinquecento dal cardinale inglese Reginald Pole, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma, che soggiornò in Italia – e a Roma – per molti anni.
    Nel Settecento la devozione verso le madonnelle si accentua ancor più con la nascita del fenomeno dei “miracoli mariani” del 1796 – 1797, verificatisi a ridosso della proclamazione in Campidoglio della Repubblica filo francese,15 febbraio 1798. A Roma il primo movimento degli occhi della Madonna si manifesta il 9 luglio del 1796 nella Madonna dell’Archetto, una piccola madonnella stradarola del rione Trevi, già dal secolo precedente oggetto di culto per i suoi miracoli. Il 1796 fu un anno dei molti prodigi. Gaetano Palma, procuratore generale della congregazione dei Pii Operai, così descrive quanto accadde all’immagine di Maria di vicolo delle Muratte nel luglio del 1796, come riporta Massimo Cattaneo nel libro “Le vie di Roma – Le edicole sacre”: «Se è lecito che io manifesti il giudizio da me formato sopra li suddetti diversi movimenti degli occhi di quell’Immagine, che da me fu esternato in tal occasione, e lo espressi ad alcune pie Persone, che me ne interrogarono, dirò di avere io creduto, che, la mossa perpendicolare degli occhi significasse, che la SS.ma Vergine portasse all’Eterno Padre le preghiere dei di lei divoti; Colla mossa poi orizzontale ci volesse dare ad intendere il suo amore verso i medesimi divoti, mostrando con quel giro d’occhi, che lei teneva a sé presenti tutte quelle Persone, che ivi si trattenevano a venerarla, ed indicando, che le teneva sotto la sua valevolissima protezione».
    Il biennio repubblicano è per le edicole sacre motivo di scontri tra le nuove istituzioni e coloro che – soprattutto nei rioni popolari romani – difendono la loro presenza. Famosa, e particolarmente sanguinosa, è la rivolta del 25 febbraio 1798 a Trastevere, dove trasteverini, monticiani, regolani e borghigiani si rifiutano più volte di levare le immagini sacre dalle strade, così come ordinato dal governo repubblicano. I romani continuano, al contrario, a radunarsi vicino alle madonnelle, rinnovando l’importanza che questi spazi esterni avevano anche sul piano dell’identità religiosa. I pochissimi irriducibili lanciano sulle immagini sacre di strada sterco e sassi, contestando così contro la politica moderata che nuovo governo aveva nei confronti anche del potere religioso.
    Anche nella prima metà dell’Ottocento le edicole tornano protagoniste della vita cittadina, questa volta nei confronti della rivoluzione industriale, documentando la resistenza verso ogni innovazione, persino verso i progetti dell’illuminazione della città. Accadde che il popolo mostra il suo grande attaccamento alle madonnelle anche quando le nuove autorità vogliono dotare Roma di un sistema di illuminazione pubblica, che segue quello già realizzato nelle grandi città europee. I romani considerano l’introduzione dei lampioni come un oltraggio alle immagini di Maria, dato che i lumini apposti accanto ad esse rappresentano l’unica fonte di luce nei bui angoli delle strade di Roma. A nulla servono gli editti delle autorità: il popolo preferisce sempre pagare delle multe piuttosto che asservirsi alle nuove disposizioni in materia di illuminazione pubblica, tanto che persino Stendhal, nelle “Passeggiate romane”, scritte tra il 1827e il 1828, parla della funzione delle madonnelle come elementi d’illuminazione della città.
    Ma la modernità fa il suo corso nonostante tutto. Le lampade vengono collocate davanti l’immagine votiva, divenendo elemento artistico: «i due fanali di ferro tutti intagliati con li ampioni» della madonnella della facciata su via del Plebiscito del palazzo Doria Pamphilj, come descritti nella “Nota della spesa fatta nella nuova immagine della SS.ma Vergine” ne sono un esempio.

    Quartiere Coppedè.

    E così passano i secoli, ma loro, le madonnelle stradaiole, sono sempre lì a guidare il corso della vita rionale romana. E ancora oggi «la devozione è tanta, nei vicoli di Trastevere alle prime luci dell’alba tornano a casa le professioniste della notte: sole o in coppia, si segnano devote davanti alla madonnella sull’angolo, e ora, sulla soglia di casa, sembrano aver perduto volgarità e spavalderia», come afferma Giuseppe De Fiori ne “Le vie di Roma – Le edicole sacre”. A testimonianza che le madonnelle non rappresentano solo la memoria in città, ma sono ancora oggetti fortemente vivi.

    Roma, 21 luglio 2019