prima pagina

  1. Alla scoperta della Roma francese

    La devastante occupazione da parte dei regnanti francesi, che sin dalla metà del XVI secolo interessò i ducati limitrofi di lingua francofona,

    Trinità dei Monti – Claude Lorrain – 1632 ca.

    assieme alle conseguenze provocate dalla Guerra dei Trent’Anni, 1618-1648, conflitto durante il quale la Francia incrementò il suo controllo sui territori confinanti sino ad annetterli al proprio regno, spinsero una vasta compagine di artisti, artigiani, commercianti, a intraprendere il viaggio in direzione del Bel Paese, viaggio in cui la Città Eterna costituiva una tappa imprescindibile. Nel periodo a cavallo tra il Cinque e il Seicento, Roma manteneva il primato di Capitale europea dell’Arte, rappresentando non solo un museo a cielo aperto, ma anche il luogo d’incontro e commistione per eccellenza delle maggiori correnti artistiche allora in voga. Numerose comunità straniere, prime fra tutte quelle fiamminghe, francofone e spagnole, giungevano da ogni angolo d’Europa per insediarsi nell’Urbe e integrarsi con la comunità romana. I luoghi di culto, localizzati in differenti rioni, si configuravano all’epoca quali punti di raccolta, condivisione e preghiera dei membri delle rispettive minoranze e, al contempo, quali poli simbolici e identitari delle diverse comunità. Roma infatti, era anche e soprattutto la capitale papale, meta prediletta, sin dal Medioevo, dei pellegrini e dei fedeli provenienti da tutto il mondo. Già nel Quattrocento, in effetti, alcune “nazioni” avevano visto sorgere, grazie all’intervento pontificio, le loro specifiche “congregazioni”: negli anni

    La scalinata della Trinità dei Monti – Giovanni Paolo Panini – 1756-1758 ca.

    Settanta il privilegio spettò a quella francofona, formata, in particolare, da francesi, savoiardi, borgognoni e lorenesi, che di lì a poco avrebbe visto sorgere i primi edifici cattolici a essa riservati. A seguito della fondazione di San Luigi, e via via sino al Settecento, si sarebbero dunque interamente costituiti tutti i cosiddetti “Pii Stabilimenti della Francia a Roma”. L’itinerario alla scoperta delle chiese francofone dell’Urbe, tra i rioni Campo Marzio, Sant’Eustachio, Parione e Trevi, per questo motivo, abbraccia un vasto arco temporale compreso tra il Rinascimento e il tardo Ottocento. A partire dalla celebre Trinità dei Monti,1502-1585, coprendo uno spazio breve si raggiunge San Luigi dei Francesi, 1518-1589, e poi ancora San Nicola dei Lorenesi, 1588-1632, e Sant’Ivo dei Bretoni, la chiesa medioevale, concessa alla comunità bretone intorno alla metà del Quattrocento, andò distrutta e fu ricostruita nel Cinquecento, per essere a sua volta sostituita dall’attuale struttura ottocentesca. Il percorso alla ricerca della Roma Francese può ritenersi concluso con la chiesa dei Santi Andrea e Claudio dei Borgognoni, di matrice seicentesca, ma riedificata nel 1728-1731. Protagonisti del percorso, assieme ai capolavori primo-seicenteschi di Caravaggio e Domenichino, sono le opere manieriste di Daniele da

    San Luigi dei Francesi – Giovanni Battista Falda – 1667-1666.

    Volterra, Perin del Vaga, Taddeo e Federico Zuccari, gli affreschi di scuola romana tardo-barocca di Antonio Bicchierai, le prove classiciste di Placido Costanzi e le splendide commistioni barocco-rococò-neoclassiche di Corrado Giaquinto. Senza dimenticare alcune testimonianze pittoriche francesi, come quelle di Charles Mellin e François Nicolas de Bar del XVII secolo.

  2. Articolo

    GIOIA E RIVOLUZIONE – LA CORAZZATA KOTIOMKIN E’ UNA CAGATA PAZZESCA!

    di Paolo Ricciardi

    Con piacere riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Paolo Ricciardi che analizza una delle scene più note della cinematografia italiana degli anni Settanta del Novecento. Quella in cui Fantozzi lancia il suo urlo liberatorio: “La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!”

    Provate a chiedere a qualcuno quali sono le scene memorabili del Cinema Italiano.

    Fantozzi:“La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!”

    L’uccisione di Anna Magnani in Roma Città Aperta di Roberto Rossellini, Anita Ekberg che si bagna nella Fontana di Trevi nella Dolce Vita di Fellini, lo spogliarello di Sofia Loren in Ieri, Oggi e Domani di Vittorio De Sica…ma quasi tutti citeranno la scena in cui il Ragionier Ugo Fantozzi, dopo essere stato sottoposto, insieme ai suoi colleghi, all’ennesima visione del film La Corazzata Kotiomkin, libera il proprio urlo di ribellione: “La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!” al quale fanno seguito…NOVANTADUE MINUTI DI APPLAUSI!!!
    A ben vedere però, come sicuramente era negli intenti del geniale Luciano Salce, regista del Secondo Tragico Fantozzi, l’urlo del nostro ragioniere rappresenta il migliore omaggio che si poteva fare al geniale regista russo Sergei Ejzenstein.

    continua…

  3. Le antiche confraternite romane: ortolani, “fruttaroli” e “pollaroli” a Santa Maria dell’Orto

    Se dovessimo prendere cento persone, e chiedere a ognuna di queste una lista di dieci luoghi da visitare a Roma, potremmo scommettere, con ottime probabilità di vittoria, che nessuna (o forse una o due)

    Santa Maria dell’Orto – Interno.

    indicherebbe la chiesa di Santa Maria dell’Orto. Ecco perché, tra l’altro, siamo contrari agli articoli in stile “dieci cose da fare a”: sono necessariamente escludenti. E molto difficilmente Santa Maria dell’Orto verrebbe inclusa in una lista: il punto, infatti, è che questo edificio religioso, che si trova nel cuore di Trastevere, è tagliato fuori da tutti gli itinerari di massa. La sua ubicazione, lontana dalle vie dello struscio e del turismo, probabilmente non gioca a suo vantaggio: se questo è un bene o un male, sta alla sensibilità del lettore giudicare. Non hanno giovato neppure i lunghi restauri che la costruzione ha dovuto più volte subire negli ultimi anni: minacciata dagli ampliamenti sconsiderati degli edifici circostanti, la chiesa ha dovuto essere sottoposta a interventi di consolidamento, durati in una prima fase dal 1984 al 1995, e poi ancora dal 2011 al 2013. Oggi, finalmente, la chiesa può presentarsi ai romani (e non solo a loro) in tutta la sua magnificenza, risultato di secoli di contributi offerti… dal popolo!
    Sì, perché Santa Maria dell’Orto non è una chiesa nata per volontà di un papa o di un principe, né titolari delle sue cappelle sono membri di famiglie della nobiltà romana. Niente di tutto ciò: Santa Maria dell’Orto è la chiesa dei Trasteverini, del popolo, dei lavoratori. E popolari sono le sue origini: si narra che queste ultime si debbano a un fatto ritenuto miracoloso. Nel Quattrocento, la zona sulla quale oggi sorge l’edificio, era colma di campi, terreni e orti (da cui il nome della chiesa): la tradizione vuole che, attorno al 1488, un contadino gravemente ammalato si fosse fermato dinnanzi a un’immagine della Madonna che si trovava sul muro di un orto. Il contadino avrebbe fatto un voto alla Madonna, e sarebbe miracolosamente guarito: gli abitanti della zona decisero dunque di

    Santa Maria dell’Orto – Interno.

    edificare, sul finire del Quattrocento, una piccola cappella per celebrare l’accaduto. Per meglio organizzare il culto della Madonna dell’Orto, si decise di riunire una Confraternita, che avrebbe promosso la devozione verso la Vergine e avrebbe seguito l’edificazione della chiesa, all’interno della quale, sull’altare maggiore, si può ancora vedere l’immagine che avrebbe dato il via alla storia dell’edificio. La confraternita fu riconosciuta ufficialmente nel 1492 da papa Alessandro VI, e la sua attività continua ancora oggi: la Venerabile Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orto (l’elevazione ad “arciconfraternita” risale al 1588) è il sodalizio che seguita a curare la chiesa di Santa Maria dell’Orto.
    La confraternita, nel corso dei secoli, poté inoltre giovarsi di un aiuto molto speciale: quello delle Università delle Arti e dei Mestieri, ovvero delle corporazioni dei lavoratori (quelle che, per intenderci, oggi chiameremmo “associazioni di categoria”). Non dobbiamo dimenticare che, in questa zona di Roma, si trovava anticamente il porto di Ripa Grande, il porto fluviale della città: possiamo dunque immaginare come il quartiere fosse molto movimentato, dato che era un importante snodo per i commerci, e che fosse densamente popolato, da persone per lo più di bassa estrazione sociale. Al porto di Ripa Grande sbarcavano tutte le merci destinate alla città: si trattava soprattutto di generi alimentari che rifornivano le botteghe di tutta Roma. La zona era pertanto meta abituale di ortolani, mugnai, venditori di carne e di pollame e commercianti vari,

    Santa Maria dell’Orto – Università dei Fruttaroli.

    che cominciarono dunque a pensare di trovare una chiesa di riferimento. La scelta non poté che cadere su Santa Maria dell’Orto: così, le corporazioni affiancarono la confraternita nel proprio lavoro. La tradizione identifica dodici università che diedero lustro all’edificio facendosi carico delle spese per gli stucchi, i dipinti, le decorazioni: gli ortolani, i pizzicaroli (cioè i salumieri), i fruttaroli, i mercanti, i sensali (ovvero i mediatori nei commerci di prodotti agricoli), i molinari (i mugnai), i vermicellari (ovvero i produttori di pasta: i vermicelli, com’è noto, sono un tipo di pasta), i pollaroli (i venditori di pollame), gli scarpinelli (i calzolai), i mosciarellari (i venditori di castagne: la “mosciarella” è una castagna secca tipica di Roma e dintorni), i vignaroli e i barilari. Alle università che riunivano i “padroni”, ovvero i proprietari delle attività, si aggiungevano talvolta le università dei “garzoni”: accadeva per i molinari, i pizzicaroli, gli ortolani e i vermicellari. Ogni dipinto, ogni stucco, ogni decorazione, insomma ogni angolo della chiesa può essere facilmente ricondotto all’università che lo ha… “sponsorizzato”: sono infatti presenti ovunque iscrizioni che rimandano alla corporazione che finanziò un intervento. Quelle più vistose sono, probabilmente, le iscrizioni che decorano il pavimento. Con il nome dell’università spesso affiancato da un simbolo, così che anche chi non fosse in grado di leggere riuscisse a capire chi si era assunto gli oneri delle imprese. Il premio per la decorazione pavimentale più vistosa va però ai fruttaroli, con la loro tarsia marmorea del 1747 colma d’ogni tipo di frutta, che fa mostra di sé proprio di fronte all’altare maggiore.

    Santa Maria dell’Orto – Interno.

    La chiesa oggi ci risulta così sontuosa, spesso fino all’eccesso, perché le dodici università, di fatto, gareggiarono per dotare la chiesa degli apparati decorativi più belli e lussuosi, con i fondi di cui potevano disporre grazie ai contributi degli associati: tutto quello che vediamo nella chiesa è, in sostanza, frutto del lavoro di salumieri, ortolani, fruttivendoli, calzolai, e via dicendo. Ecco perché Santa Maria dell’Orto è considerata la chiesa del popolo: qui, la nobiltà non è mai intervenuta. Ma sbaglierebbe chi pensasse che le classi più umili della popolazione non fossero dotate di gusto: basta pensare che il progetto della facciata fu affidato a uno degli architetti più aggiornati ed eleganti del suo tempo, Jacopo Barozzi, detto il Vignola (Vignola, 1507 – Roma, 1573), che realizzò il prospetto a partire dal 1566. La facciata è quindi una summa di elementi tipici dello stile vignolesco: presenta un primo livello in cui raffinate paraste coronate da capitelli ionici dividono, alternativamente, le nicchie esterne dalle porte d’ingresso all’edificio. Le due porte laterali sono sormontate da timpani triangolari, mentre il portale principale è fiancheggiato da due colonne, anch’esse in stile ionico, che sorreggono un timpano curvo fortemente aggettante. La trabeazione con l’iscrizione che ci racconta in poche parole la storia dell’edificio divide l’ordine inferiore da quello superiore, costituito da un frontone (con finestrone sormontato da orologio, e suddiviso da lesene corinzie) raccordato al piano inferiore da due volute, tipiche del repertorio di Jacopo Barozzi. Completano l’insieme i piccoli obelischi in travertino, anch’essi tipici del lessico del Vignola: ne abbiamo sei (tre per lato) che fiancheggiano il frontone in corrispondenza delle paraste, e cinque che lo sormontano.

    Santa Maria dell’Orto – Interno.

    L’interno, come anticipato, è meticolosamente corredato di iscrizioni che attestano a quale università si debba un gruppo di dipinti, una decorazione, un portale. Entrando, sulla destra, la prima cappella che troviamo è condivisa da due università, quella dei sensali e quella dei mercanti, ed è dedicata all’Annunciazione. Sull’altare, al centro tra un san Gabriele di Virginio Monti del 1875 e un san Giuseppe di Giovanni Capresi del 1878, possiamo osservare un dipinto di Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1539 – Ancona, 1609), risalente all’estate del 1561 (ma restaurato nel 1998), che rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele reca l’annuncio alla Madonna. È un’opera giovanile: l’artista, all’epoca, aveva appena ventidue anni, e realizzò un dipinto semplice, essenziale ma elegante, in linea con lo stile classicista che risentiva ancora della lezione di Raffaello, scomparso quarantuno anni prima. Sempre a Federico Zuccari, in collaborazione col fratello Taddeo (Sant’Angelo in Vado, 1529 – Roma, 1566), si devono gli affreschi che decorano il catino absidale, con Storie della Vergine: furono finanziati dall’Università dei Fruttaroli (ce lo ricordano la tarsia marmorea sul pavimento davanti all’altare maggiore e il simbolo dell’Ave Maria, costituito da festoni di frutta, che campeggia al centro del finestrone dell’abside) e risalgono allo stesso periodo. Sulla sinistra, vediamo in alto lo Sposalizio della Vergine e in basso la Natività, mentre a destra troviamo la Visitazione e la Fuga in Egitto. Sarebbero riconducibili alla mano di Federico le scene dello Sposalizio e della Visitazione. Come ebbe a scrivere lo storico dell’arte Claudio Strinati, queste pitture di Federico Zuccari sono “sobrie, condotte con l’evidente intenzione di rispettare i canoni della simmetria, dell’ordine della composizione, dell’equilibrio”, e la mano del giovane artista è “felice ma ferma, il disegno tornito, sicuro”, anche se “gracile nell’esito finale”. Ne consegue comunque un altissimo “senso della dignitas” di “quanto viene rappresentato”: in altre parole, l’elevatezza dei soggetti rappresentati è pienamente sottolineata dallo stile fluido, ma al contempo classico e rigoroso, del pittore marchigiano.

    Santa Maria dell’Orto – Volta della Navata Centrale.

    Tornando alla prima cappella e procedendo innanzi, incontriamo la cappella dell’Università dei Vermicellari, dedicata a santa Caterina d’Alessandria e decorata da Filippo Zucchetti (Rieti, 1648 – 1712), che dipinse per l’altare un Matrimonio mistico di santa Caterina, affiancato da un san Paolo e da un san Pietro di un anonimo settecentesco.
    È invece interamente opera di Giovanni Baglione (Roma, 1573 circa – 1643) l’apparato decorativo della cappella dell’Università dei Vignaroli, dedicata ai santi Giacomo, Bartolomeo e Vittoria. L’artista romano, grande rivale di Caravaggio, aveva già lavorato nella chiesa, tra il 1598 e il 1599, occupandosi della realizzazione di alcune scene della Vita di Maria sulle pareti dell’abside (precedono gli affreschi degli Zuccari di cui s’è fatto cenno sopra) e sarebbe tornato a lavorare qui anche negli anni successivi. Chi volesse dunque conoscere gli sviluppi dell’arte di Giovanni Baglione, qui potrebbe farsi un’idea piuttosto completa: abbiamo infatti opere giovanili (quelle dell’abside, probabilmente le prime che conosciamo dell’artista), opere della piena maturità e opere dell’ultimissima fase della sua carriera (nelle cappelle). Quelle ritenute più interessanti sono le tele che troviamo nella cappella dell’Università degli Ortolani, dedicata a san Sebastiano: qui, Giovanni Baglione realizzò, nel 1624, un San Sebastiano curato dagli angeli per l’altare, e due ulteriori santi (Antonio da Padova e Bonaventura) per le navate laterali. L’eclettismo che contraddistinse, per buona parte del suo percorso artistico, lo stile di Giovanni Baglione, si può desumere dagli elementi ravvisabili nei dipinti: un naturalismo pacato, dal sapore quasi classico, di derivazione carraccesca si somma a un luminismo di osservanza caravaggesca e a un colorismo che rimanda alla pittura veneta. Più stanche appaiono invece le realizzazioni della cappella dei vignaroli, ovvero una Madonna col Bambino e santi, il Martirio di un santo diacono e il Martirio di sant’Andrea (siamo nel 1630) e quelle della cappella dell’Università degli Scarpinelli, dedicata ai santi Carlo

    Santa Maria dell’Orto – Università dei Pizzicaroli.

    Borromeo, Ambrogio e Bernardino da Siena, nella quale troviamo una Madonna col Bambino e santi sull’altare e due storie dei santi Carlo Borromeo e Ambrogio sulle pareti laterali (rispettivamente, San Carlo Borromeo cura gli appestati e Sant’Ambrogio caccia gli ariani da Milano). Sono le ultime opere del pittore romano, realizzate nel 1641: il repertorio si è fatto ormai trito, privo di idee originali e anche qualitativamente piuttosto basso.
    Nella navata sinistra, tra le due cappelle decorate da Giovanni Baglione, troviamo quella della Compagnia dei Giovani Pizzicaroli, i garzoni dei salumieri: l’altare è decorato con una tela di Corrado Giaquinto (Molfetta, 1703 – Napoli, 1766), del 1750, che ha per tema il Battesimo di Cristo, mentre le pareti laterali sono decorate con due tele del 1749 di Giuseppe Ranucci, che rappresentano la Predica e la Decollazione del Battista (la cappella è infatti dedicata a san Giovanni Battista). Prima di raggiungere il transetto possiamo tornare nella navata centrale e alzare lo sguardo verso il soffitto: la splendida volta reca un’opera del siciliano Giacinto Calandrucci (Palermo, 1646 – 1707), un’Assunzione di Maria del 1706 incorniciata da abbondanti stucchi dorati. Una leggenda narra che per la doratura sia stato impiegato oro giunto a Roma di ritorno dalla spedizione in America di Cristoforo Colombo: non esiste tuttavia alcuna evidenza storica al riguardo.
    Raggiunto il transetto, ci imbattiamo in due cappelle (a sinistra, quella dei molinari, dedicata a san Francesco, e a destra quella dei pollaroli, dedicata al santissimo Crocifisso) interamente decorate con affreschi di un interessante esponente del tardo manierismo a Roma, Niccolò Martinelli detto il Trometta (Pesaro, 1535 circa – Roma, 1611). Martinelli, che si formò nel solco della pittura zuccaresca, decorò le due cappelle rispettivamente con le Storie di san Francesco e con le Storie della Passione, eseguite tra il 1591 e il 1595. Si tratta, anche in questo caso, di pitture pacate e sobrie, che risentono dell’influsso del classicismo che costituiva il gusto predominante del tempo, declinato in questi cicli anche con un certo senso della monumentalità.

    Santa Maria dell’Orto – Organo in controfacciata.

    Ci si avvia dunque verso l’uscita. Tuttavia, prima di varcare la porta, che è sormontata da un grande organo ottocentesco donato dall’Università dei Molinari, ci siamo ricordati di un piccolo particolare che avevamo letto in una delle tante pagine web dedicate alla chiesa (infatti, fortunatamente, Santa Maria dell’Orto sta conoscendo una sorta di riscoperta da parte degli appassionati d’arte): il più bizzarro regalo donato alla chiesa dalle corporazioni non sarebbe una delle opere di cui abbiamo parlato finora. Sì, perché nel Seicento, l’Università dei Pollaroli avrebbe regalato alla confraternita un curioso tacchino di legno. Lo abbiamo cercato per tutta la chiesa, ma senza alcun risultato: considerate che abbiamo trascorso circa un’ora all’interno dell’edificio di culto. Incuriositi da questa insolita scultura, abbiamo chiesto a uno dei custodi: pare che il ligneo pennuto sia celato nei locali della sacrestia, e che si possa vedere solo con una visita prenotata su appuntamento. Il prossimo obiettivo da raggiungere, dunque, quando si tornerà nel magico e caratteristico quartiere di Trastevere, sarà quello di riuscire a vedere il leggendario tacchino gelosamente custodito in Santa Maria dell’Orto!

    da Finestre sull’Arte, 31/05/2016

    Roma, 2 marzo 2019

  4. Il primo luogo di culto cristiano nel cuore Foro Romano: la basilica dei Santi Cosma e Damiano

    A pochi passi dal Foro Romano, dal Palatino e dal Campidoglio, quasi defilata su un lato di via dei Fori Imperiali, ecco la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano.

    Santi Cosma e Damiano – Interno.

    La struttura architettonica appare oggi composita per le vicende legate alle pagine della sua storia. Durante il grande incendio di Roma del 64 dopo Cristo la maggior parte degli edifici pubblici del lato Nord del Foro Romano andò distrutta e, dopo la vittoria nella guerra giudaica, l’imperatore Vespasiano realizzò qui il Foro della Pace, un grande complesso con tempio, giardino, fontane e un’aula rettangolare, la Biblioteca Pacis. All’inizio del IV secolo, l’imperatore Massenzio innalzò, a fianco della Biblioteca, l’imponente Basilica, con aula rotonda e ingresso monumentale sul Foro Romano, ancora visibile anche dall’interno della chiesa, coperta con una delle più grandi cupole realizzate a Roma nell’antichità. L’antica porta di bronzo, aperta sulla Via Sacra, è tra i pochi esempi conservati da allora e mantiene anche oggi la sua funzione. Secondo la tradizione, la rotonda era anticamente chiamata Tempio di Romolo, in memoria del figlio di Massenzio, morto all’inizio del IV secolo. Con la caduta dell’Impero Romano, sia la biblioteca che la

    Porta di bronzo dell’aula rotonda dell’edificio costruito da Massenzio.

    rotonda sono state abbandonate, seguendo la sorte di tutti gli edifici di culto pagano decretata dall’editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio II. Nel 526 papa Felice IV ottenne dal re Teodorico di poterne disporre e decise di unire i due edifici e di convertirli a uso religioso. Sorse così il primo luogo di culto cristiano nell’area del Foro Romano, da secoli dedicata alle funzioni civili e alla celebrazione del potere imperiale, vero simbolo della civiltà romana pagana. Il pontefice dedicò la chiesa ai Santi Cosma e Damiano, i due medici originari dell’Asia Minore che subirono il martirio nel 303 a Egea, e per questo motivo è conosciuta anche come “Basilica beati Felicis“. Le loro reliquie furono poi trasportate a Roma e disposte sotto l’altare inferiore della chiesa. Nel Medioevo la basilica dei Santi Cosma e Damiano era riconosciuta come uno dei principali centri di assistenza ai poveri e ai pellegrini a Roma. Una parte importante della vita spirituale della basilica fu la devozione mariana, iniziata nei tempi del papa Gregorio Magno, 590-604. L’edificio fu ampliato sotto Sergio I, 695, e Adriano I, 772, finché, nel 1512, venne affidato dal cardinale Alessandro Farnese ai Francescani del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, i quali effettuarono una serie di restauri e di ampliamenti. Ma fu nel 1632, sotto Urbano VIII, che la chiesa fu totalmente rinnovata su disegno dell’architetto camerale Luigi Arrigucci, il quale decise, a causa del carattere malsano e acquitrinoso in cui versava il Foro Romano, di rialzare il pavimento di ben 7 metri, creando così una chiesa inferiore e

    Soffitto a cassettoni della chiesa dei santi Cosma e Damiano.

    una superiore. I Francescani, nello stesso periodo, commissionarono a Orazio Torriani l’edificio conventuale che si sviluppa sulla destra della chiesa. Originariamente l’accesso, quindi, avveniva dalla Via Sacra, attraverso il bellissimo portale del Tempio di Romolo: una vetrata, situata all’interno della chiesa, permette tuttora di ammirare la rotonda, posta all’interno della porta bronzea, che aveva funzione di atrio. L’ingresso attuale, invece, è posto su un lato della chiesa su via dei Fori Imperiali, attraverso un atrio sul quale si affaccia un tratto della parete in blocchi in opus quadratum dell’antica Biblioteca Pacis. L’interno della chiesa, a schema basilicale classico di tipo costantiniano, è a navata unica e presenta ora, al posto dell’originario soffitto a capriate lignee, una copertura impreziosita da una serie di cassettoni dipinti e dorati con lo stemma di Urbano VIII Barberini, tre api dorate su fondo azzurro, e con la Gloria dei Santi titolari. L’altare del presbiterio è ornato con una Madonna con Bambino dipinta su tavola da un anonimo romano del XIII secolo, mentre l’abside e l’arco trionfale presentano un complesso musivo tra i più belli e più antichi di Roma, insieme a quelli di Santa Pudenziana, Santa Prassede, San Clemente e Santa Maria Maggiore. Nel catino absidale, Gesù si eleva al centro su un cielo blu solcato da nuvole variopinte, che ricordano quelle del mosaico del catino absidale di Santa Pudenziana, circondato dai Santi Pietro e Paolo, vestiti di bianco, che introducono Cosma e Damiano, in atto di offrire corone gemmate, e Felice IV che presenta il modello della chiesa. Il volto di Felice IV si deve però a un rifacimento seicentesco. Completano la scena musiva San Teodoro con una corona e un’iscrizione in caratteri dorati con il loro nome. Più in

    Particolare del mosaico dell’abside della chiesa dei Santi Cosma e Damiano.

    basso, nella fascia inferiore, le dodici pecore convergenti al centro verso l’agnello che rappresenta Cristo stesso e che poggia le zampe sul monte dal quale originano i quattro fiumi del Paradiso. Questa porzione del mosaico è su fondo oro. Il tema trattato e le scelte compositive e rappresentative sono caratteristiche dell’arte musiva dell’epoca bizantina, presente anche a Ravenna nella decorazione della Basilica di Sant’Apollinare in Classe.

    Roma, 23 febbraio 2019