Philip Khuri Hitti, cristiano maronita nato in Libano nel 1886 e morto nel 1978 negli Stati Uniti, è considerato uno dei più grandi orientalisti di tutti i tempi.
Ha insegnato alla Columbia University e a Princeton, dove è stato anche presidente del dipartimento di lingue orientali.
La casa editrice bolognese Odoya ha recentemente mandato alle stampe, in ottava edizione “Storia degli Arabi. Dall’antichità al Novecento”, la sua opera più nota. Si tratta di un imponente volume di oltre ottocento pagine, pubblicato per la prima volta nel 1937, frutto di dieci anni di lavoro, che ripercorre in maniera completa e documentata la storia degli arabi dalla fase nomade dell’era pre-islamica fino ai primi decenni del Novecento, caratterizzati dalla caduta dell’impero Ottomano.
Culla dell’intera famiglia semitica, la penisola araba nutrì tutti quei popoli che man mano migrarono nella Mezzaluna fertile: i babilonesi, gli assiri, i fenici, gli ebrei. Popoli che, scrive Hitti «gettarono le basi del nostro patrimonio culturale… nel Medioevo nessun popolo contribuì al progresso umano quanto gli Arabi e i popoli di lingua araba».
Nel suo libro Hitti ripercorre le vicende di numerose figure bibliche quali Mosè e Giobbe, facendo emergere particolari sconosciuti ai più, come tante notizie sulla grandezza delle popolazioni arabe, soffermandosi anche sulla nascita della religione islamica.
Nel narrare tale storia, Hitti evidenzia la potenza distruttiva causata dall’aggiunta del cosiddetto Sesto Pilastro agli originari cinque prescritti da Maometto: all’unicità di Allah, alla preghiera, al digiuno, all’elemosina, al pellegrinaggio, la setta dei Kharigiti aggiunse infatti la jihad, la guerra santa.
A tal proposito, Hitti scrive che la jihad consiste «nell’obbligo del califfo di allontanare la barriera geografica che divide il dar al islam (il territorio dell’islam) dal dar al harb (territorio di guerra). All’introduzione di questo Sesto Pilastro, l’islamismo deve la sua ineguagliata espansione come potenza mondiale».
Il libro non giunge, per ovvi motivi, fino ai giorni nostri ma fornisce inevitabilmente le chiavi storiche e culturali per comprendere le dinamiche attuali. Sfogliando le sue pagine, pertanto, si incontrerà la storia di Palmira, città siriana oggi sottoposta all’attenzione internazionale. E si scoprirà che essa da sempre rappresenta un punto di equilibrio fondamentale nell’incontro tra civiltà occidentale e araba, e che a ridurla quasi totalmente in macerie fu, nel 273, l’Occidente, per mano dell’imperatore romano Aureliano.
Grazie al prezioso volume si potranno approfondire, per esempio, le vicende che portarono alla nascita e all’ascesa politico-spirituale dell’islam. E proprio queste pagine svelano un episodio importante nella vita di Maometto: infiammato dal compito che si sentiva chiamato ad adempiere come messaggero di Allah, Maometto scese fra il suo popolo, e cioè la tribù dei Quraysh alla Mecca, a insegnare, a pregare e a diffondere la profezia di un Dio unico, creatore dell’universo.
Eppure all’inizio della sua predicazione, Maometto trovò ben pochi seguaci: sua moglie Khadigia e un paio di cugini. Al contrario, un altro suo parente, Abu Sufyan, che rappresentava il ramo omayyade, l’aristocrazia dei Quraysh, si mostrò assai ostile alla nuova religione. Per lui e per tutta la tribù, quella professata da Maometto era una pericolosa dottrina che avrebbe ostacolato gli interessi economici della tribù in quanto custode della Ka‘ba, pantheon di una moltitudine di divinità che attirava pellegrini provenienti da ogni parte d’Arabia.
A mano a mano che nuove reclute, soprattutto schiavi e membri delle classi inferiori, andavano ad aumentare i fedeli di Allah, il ridicolo e il sarcasmo furono le armi che i Quraysh misero in campo contro Maometto e i suoi seguaci. Quando ci si rese conto della loro inefficacia, si passò alla persecuzione attiva. I provvedimenti persecutori causarono l’emigrazione in Abissinia di undici famiglie della Mecca, seguite nel 615 da altre ottantatré famiglie circa.
È in questo momento che s’inserisce l’episodio che determinerà la sopravvivenza di Maometto e della nuova fede: gli emigranti trovarono asilo presso il negus cristiano, che fu irremovibile nel suo rifiuto di consegnarli nelle mani dei loro nemici.
La lettera di Maometto.
All’episodio descritto da Hitti riguardo la magnanimità del negus cristiano nei confronti di Maometto e dei suoi seguaci, fa eco un’antica tradizione araba secondo la quale esisterebbe una lettera scritta dal profeta di Allah conservata e custodita per molto tempo come una cosa sacra nell’antichissimo eremo di Santa Caterina nel Sinai d’Egitto, edificato nel IV secolo da sant’Elena, madre di Costantino. In tale documento Maometto avrebbe difeso il culto cristiano e i suoi fedeli.
Nel corso del VII secolo, il monastero era divenuto un luogo di culto anche per l’Islam proprio in virtù della presenza di quella lettera. All’interno delle sue mura i monaci fecero costruire persino una moschea per garantire ai musulmani che lo visitavano un luogo ove pregare. Una moschea che però non fu mai aperta al culto perché, per errore, non era stata orientata verso la Mecca. La conservazione di questo manoscritto sarebbe stata determinante per la sopravvivenza dell’eremo durante la dominazione musulmana.
Sempre secondo la tradizione, però, la lettera di Maometto oggi non si troverebbe più lì: durante la conquista ottomana dell’Egitto, nel 1517, il documento originale sarebbe stato trafugato dai soldati ottomani e trasferito al palazzo del sultano Selim I a Istanbul e ora sarebbe conservata nel museo Topkapi, sempre a Istanbul.
Il documento è conosciuto come Achtiname di Muhammad, noto anche come il Patto o Santo Testamento del profeta Maometto.
La lettera è un ahdname (atto o accordo dal valore giuridico in uso all’epoca) e sarebbe stato scritto dal profeta quale concessione della sua protezione e di altri privilegi a favore dei monaci del monastero di Santa Caterina sul Sinai e di tutti i cristiani del mondo. Il documento si chiuderebbe con un’impronta che rappresenta la mano di Maometto.
Vi sono diverse traduzioni della lettera. Quella curata nel 1902 da Anton F. Haddad, intitolata “Il giuramento del Profeta Maometto ai seguaci del Nazareno”, è ritenuta la migliore, tanto da essere stata riproposta nel 2004 in uno scritto pubblicato dall’associazione internazionale H-Bahai, un ente di studio scientifico che favorisce la discussione accademica della cultura e della storia delle tradizioni religiose millenarie. Ad occuparsi del documento anche due importanti studiosi indiani di religione islamica, autori di una voluminosa biografia di Maometto, A. Zahoor e Z. Haq, nel loro saggio “Prophet Muhammad’s charter of privileges to chistians letter to the monk of St. Catherine Monastery”.
Lettera di Maometto in difesa dei cristiani.
«Questa è una lettera che è stata rilasciata da Mohammed, Ibn Abdullah, il Messaggero, il Profeta, il fedele, che viene inviata a tutte le persone come una parola da parte di Allah per tutte le sue creature.
In verità Dio è l’Eccelso, il Saggio. Questa lettera è indirizzata agli ambasciatori dell’Islam, come alleanza data ai seguaci del Nazareno in Oriente e Occidente, a quelli vicini e lontani, agli arabi e agli stranieri, al noto e all’ignoto. Questa lettera contiene il giuramento dato loro (e chi disobbedisce a ciò che vi è scritto, sarà considerato un disobbediente e un trasgressore di quella Fede alla quale egli è comandato. Egli sarà considerato come uno che ha corrotto il giuramento di Dio, o il Suo testamento, che ha respinto la Sua Autorità, disprezzato la Sua religione, e si è fatto meritevole della Sua maledizione, sia fosse un sultano o qualsiasi altro credente dell’Islam)».
«Ogni volta che monaci, fedeli e pellegrini si riuniscono, sia in una montagna o valle, o tana, o luogo frequentato o semplice, o la chiesa, o in luoghi di culto, in verità Dio è su di loro e li protegge, e protegge le loro proprietà e la loro morale, anche da me stesso, dai miei amici e dai miei assistenti, perché sono dei soggetti sotto la mia protezione. Io li esento da atti che li possano turbare; degli oneri che sono pagati da altri come un giuramento di fedeltà».
«Essi non devono dare nulla del loro reddito, ma ciò che piace loro, non devono essere offesi, o disturbati, o costretti o obbligati. I loro giudici non devono essere modificati o impedito loro di realizzare i propri uffici, né i monaci disturbati nell’esercizio del loro ordine religioso, o la gente di clausura essere arrestata dalla dimora nelle loro celle. A nessuno è permesso di saccheggiare i pellegrini, o distruggere o rovinare una delle loro chiese, o case di culto, o di prendere una qualsiasi delle cose contenute all’interno di queste case e portarlo alle case dell’Islam. Colui che toglie da essa, sarà uno che ha corrotto il giuramento di Dio, e, in verità, disobbedisce al Suo Messaggero».
«Le tasse non dovranno essere messe sui loro giudici, sui monaci, e quelli la cui occupazione è il culto di Dio; né qualsiasi altra cosa potrà essere presa da loro, che si tratti di un bene, una tassa o un diritto ingiusto. In verità devono conservare la loro compattezza, ovunque si trovino, in mare o sulla terra, in Oriente o Occidente, da nord o da sud, perché sono sotto la mia protezione e il mio testamento dà loro la mia sicurezza contro tutte le cose che vanno aborrite. Nessuna tassa o decime devono essere ricevute da coloro che si dedicano al culto di Dio in montagna, o da chi coltiva la Terra Santa».
«Nessuno ha il diritto di interferire con i loro affari, o portare qualsiasi azione contro di loro. In verità questo è per altri e non per loro; piuttosto, nelle stagioni delle colture, dovrebbe essere data una Kadah per ogni Ardab di grano (circa cinque quintali e mezzo) come fondo per loro, e nessuno ha il diritto di dire loro che questo è troppo, o chiedere loro di pagare alcuna imposta. Per quanto riguarda chi possiede proprietà, i ricchi e i commercianti, le tasse che possono essere prese da loro non devono superare i dodici Dirham a testa all’anno».
«Non può essere imposto a chiunque di intraprendere un viaggio, o di essere costretto ad andare in guerra o usare armi per i musulmani, chiunque deve combattere per la sua ragione, non per quella di altri. Il seguace dell’islam non deve fare nessuna disputa o discutere con loro, ma accordarsi secondo il verso registrato nel Corano. Essi non devono essere costretti a portare armi o pietre; ma i musulmani devono proteggerli e difenderli contro gli altri».
«Qualora una donna cristiana è sposata con un musulmano, tale matrimonio non deve avvenire se non dopo il suo consenso, e a lei non deve essere impedito di andare nella sua chiesa per la preghiera. Le loro chiese devono essere onorate e non devono esserci impedimenti nella costruzione di luoghi di preghiera o per la riparazione dei loro conventi. Spetta a ognuno della nazione dell’Islam non contraddire e rispettare questo giuramento fino al Giorno della Resurrezione e della fine del mondo».
Abbiamo pubblicato tale documento non per ricondurre gli storici, e troppo spesso contraddittori, rapporti tra islam e cristianesimo a un vacuo irenismo. E però, si tratta di dar conto di come i rapporti tra le due religioni siano più articolati e complessi di quella semplicistica, quanto perversa, contrapposizione creata, da una parte e dall’altra, dalle forze oscure stanno alimentando l’attuale scontro di civiltà.
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