Ligabue. Visioni e tormenti dell’esilio.

L’emozionante mostra in atto al Vittoriano (sala Barsini) e dedicata ad Antonio Ligabue mette da subito al centro uno degli aspetti che caratterizzerà non solo la vita ma anche l’attività artistica di Antonio Ligabue: l’esilio.

Ritratto con pianoforte - Antonio Ligabue

Ritratto con pianoforte – Antonio Ligabue

Antonio Ligabue nato a Zurigo nel 1899, dopo un’infanzia sin dall’inizio tormentata e vissuta per buona parte in povertà, una povertà che lascerà segni fisici sul suo corpo traducendosi in un rachitismo e in un’evidente malformazione cranica, nel 1919 viene allontanato dalla Svizzera e inviato a Gualtieri, in Italia, il paese di origine dell’uomo che dopo la nascita gli diede il cognome di Laccabue, da Antonio poi modificato in Ligabue per sottolineare probabilmente tutta la distanza da quel padre adottivo con cui aveva avuto limitatissimi rapporti.
L’allontanamento da quella Svizzera che era stata la sua terra per i suoi primi venti anni di vita è la prima forma di esilio che Antonio Ligabue vivrà. Ma non sarà l’unica.

L’allontanamento dal cantone di San Gallo e dalla Svizzera corrisponderà anche all’allontanamento senza rimedio dalla sua madre adottiva con la quale, sebbene oscillando tra amore e odio, Ligabue era riuscito a costruire un rapporto umano dal quale traeva calore e forse anche una certa forma di sicurezza.
A Gualtieri Antonio arriverà senza sapere una parola d’italiano, incapace di capire la lingua degli altri ma anche impossibilitato a rapportarsi con il mondo degli uomini per una sua fragilità interiore e per un suo profondo disagio, si esilierà volontariamente dal paese vivendo, fin quasi alla morte, ai margini non solo del consesso umano, ma anche del nucleo abitativo. Forma di esilio resa reciproca dagli abitanti che al più riusciranno a tollerarlo, in qualche misura, nel momento in cui potranno inserirlo nella casella “matto del paese”.

Combattimento tra galli - Antonio Ligabue

Combattimento tra galli – Antonio Ligabue

Le paure che si rapprenderanno in lui all’atto di questo forzato distacco rimarranno per sempre nella sua persona trasformandosi a tratti in ossessioni ed a tratti nel bisogno di elaborare rituali. Rituali per trovare calore umano ed accettazione lì dove poco riusciva ad averne dai suoi simili, e rituali apotropaici tesi a tener lontani fantasmi che si originavano nella solitudine e nel buio.
Delle diverse forme di esilio vissute da Ligabue ci parla la mostra dedicata all’artista di Gualtieri. Anche di quelle che i tanti studiosi a vari livelli della sua arte non sono riusciti ancora a scoprire.
Già perché Ligabue che da vivo fece una grande fatica ad essere considerato non solo quale artista ma soprattutto quale essere umano, è stato, dopo la morte, oggetto di studi ed interpretazioni. Si è cercato insomma di capire l’uomo attraverso la sua arte, perdendo l’occasione, almeno in parte, di conoscere l’uomo da vivo mentre dava vita alle sue opere. L’incontro con uomini quali Marino Mazzacurati, che forse più che insegnargli a dipingere gli fornì i mezzi e gli indicò la strada che gli permisero di acquisire la tecnica e la consapevolezza di sé, Cesare Zavattini che di e su di lui scrisse un poema – racconto per cercare tra le altre cose di sfumare quella sorta di perbenismo che aveva caratterizzato in parte i rapporti che da un certo momento in poi avevano circondato Ligabue, Romolo Valli, il famoso attore, che tra i primi acquistò le sue opere, hanno in qualche maniera e forse involontariamente creato una specie di fenomeno da baraccone, un uomo dalle grandi capacità artistiche rinchiuse nel corpo di un essere strambo.
La mostra del Vittoriano in qualche misura fa giustizia restituendo, attraverso l’esposizione delle opere, tutti i discorsi che nel corso della vita Antonio Ligabue ha cercato di fare con chi volesse ascoltarlo. I suoi dipinti coloratissimi e materici, le sue piccole dettagliatissime sculture, i disegni fitti fitti di tratti spessi e neri ed un pugno di acqueforti ci mostrano finalmente l’uomo e l’artista quasi senza alcuna intermediazione.

Autoritratto con mosche - Antonio Ligabue

Autoritratto con mosche – Antonio Ligabue

La natura rigogliosa delle giungle di cui aveva letto nei libri dell’infanzia o le cui immagini aveva visto frequentando le biblioteche sono, da Antonio Ligabue, trasportate in un luogo geografico che non è esattamente la Bassa Padana, ma non è neppure il cantone di San Gallo in cui egli aveva vissuto i primi venti anni della sua vita.
Questo luogo geografico ambivalente, o addirittura multivalente, è un luogo dell’anima, del pensiero e del cuore in cui tutto può accadere: che un contadino coltivi la terra, che degli animali da cortile razzolino placidi, che vi si svolgano feroci combattimenti tra animali mai risolti, dove l’apparente vincitore può diventare un vinto da un momento all’altro, dove animali della quotidianità contadina (cani, conigli, galli, cavalli) possano in qualche maniera convivere con leoni, tigri, serpenti ed insetti di ogni tipo, dove ci si possano trovare abitazioni tipiche dei panorami svizzeri, o che improvvisi vi siano trasportati castelli delle fiabe.
Questa stessa natura diviene frequentemente sfondo dei suoi autoritratti. Fiumi di parole sono stati spesi su questa volontà di Ligabue di autoritrarsi. Tante sono le interpretazioni che di questa attività sono state date, cercando a tratti di farne una particolarità di questo artista, dimenticando che molti (se non tutti) gli artisti nel corso della storia si sono ritratti.
E Ligabue non è perciò diverso quando lo fa. Lo fa perché è un esercizio pittorico che può condurre allo specchio e senza, un esercizio pittorico che mostra la sua costante ricerca, la sua ferrea volontà di migliorarsi quale artista in un contesto sociale e culturale in cui certamente mancavano possibilità di raffronto e confronto. Lo fa perché vuole mostrarci la consapevolezza di sé come pittore autorevole, e lo fa con il gusto di chi vuole travestirsi, come negli stessi anni andava facendo de Chirico che si autoritraeva con la corazza, con il vestito del seicento o con il vestito nero. Attraverso l’autoritratto ed il travestimento Ligabue si da la possibilità di vivere tante vite diverse come il fantino, il motociclista, il borghese, con la consapevolezza che lui sarebbe potuto essere tutto questo ma contemporaneamente con la consapevolezza che solo alcune di queste possibilità gli sono state davvero offerte dalla vita, mentre le altre gli sono state negate dalla sua storia, dalla sua maniera di essere, ma anche dall’impossibilità degli altri di pensarlo in grado di vivere come persona.

Capra - Scultura tradotta in bronzo da originale in argilla di Antonio Ligabue

Capra – Scultura tradotta in bronzo da originale in argilla di Antonio Ligabue

Ligabue l’artista a tutto tondo, pittore, scultore, disegnatore, incisore, che emerge con decisione dalle sale di questa mostra è stato artista profondamente consapevole di sé e delle proprie capacità. Non altrettanto consapevoli si sono mostrati i suoi contemporanei che hanno per lui voluto vedere una somiglianza con van Gogh ed ancor più con i pittori naif.
Certamente come i pittori naif Ligabue dipinge scene di vita quotidiana e scene che sembrano venire fuori da libri di favole o di racconti di grandi viaggi. Ma utilizzare questo piccolo frammento della sua grandissima produzione ed estenderlo al tutto è un’operazione quanto meno scorretta, poiché, se soprattutto nelle opere dove appaiono castelli e diligenze, si può riconoscere un cliché iconografico dal sapore popolare, negli altri temi emerge con forza una ricerca ed un linguaggio assolutamente innovativo e tipico di Ligabue, che ne fanno un artista non inscrivibile in una definizione univoca.


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