“Sono stato sei volte a Roma; non è certo un gran merito, ma ricordo questo piccolo particolare perché così il lettore avrà forse più fiducia in me.” Stendhal sceglie queste parole come incipit dell’Avvertenza che apre la sua “guida” a Roma.
Nuvoloni neri annunciavano un temporale, e allora, invece di correre nella campagna romana, siamo tornati all’arco di Giano Quadrifronte.
Questa massiccia costruzione ha quattro facciate e poggia su quattro grossi piloni. Nell’antica Roma c’erano parecchi di questi archi chiamati Giano, che avevano lo scopo di offrire un riparo contro i raggi infuocati del sole, che spesso qui è molto pericoloso. Si conoscono i nomi e i luoghi di cinque o sei vasti portici che servivano allo stesso scopo. Il più bello secondo me era al noviziato dei Gesuiti, a Montecavallo. D’inverno ci si radunava intorno a questi ripari, per prendere il sole e parlare di politica. In molte città italiane nei giorni di sole, si vedono ancora gli abitanti ravvolti nei loro mantelli, e al riparo di un muro, cercare i piaceri della conversazione. Abbiamo notato quest’usanza perfino a Verona, città già molto al nord.
L’arco di Giano Quadrifronte è composto di grossi blocchi di marmo; i suoi quattro piloni poggiano su un basamento;
le due facciate esterne di ogni pilone sono ornate ciascuna di nicchie, che sono di pessimo gusto. Soltanto all’epoca di Settimio Severo (195) l’architettura poté giungere a questo punto di decadenza. Questa specie di ornamenti meschini erano di moda sotto Diocleziano, nel 284. La moda, che vive di cambiamenti, cominciava ad introdursi in un’arte i cui risultati durano quindici o venti secoli, e la ragione pubblica s’era infiacchita, rara fortuna per i tiranni pazzi o stupidi che regnavano su Roma.
Quei buchi che si notano nell’arco di Giano Quadrifronte sono attribuiti alla pazienza dei soldati barbari che cercavano i ramponi di ferro usati per unire i blocchi di marmo. Stern ci ha fatto osservare che parecchi di questi blocchi erano già serviti per altre costruzioni.
Qualunque fosse, nei particolari, la decadenza dell’arte all’epoca di Settimio Severo, sembra che i novatori mancassero di adire, perché il disegno generale di questo arco fa ancora piacere a vedersi. La proporzione tra pieno e vuoto è buona, come quella fra altezza e larghezza. Le barbare fortificazioni che coronano l’edificio furono costruite dalla famiglia Frangipani, che fece di questo monumento il suo fortilizio. Pochi anni fa soltanto furono rimossi i dodici o quindici piedi di terra che toglievano a questa costruzione massiccia ogni fisionomia.
Quest’arco fu costruito nel Forum Boarium (mercato dei buoi); e furono i mercanti di buoi e i banchieri del Forum Boarium che costruirono l’arco di Settimio Severo che è qui vicino, e che ha il fornice di forma quadrata. Vi si notano un’iscrizione e bassorilievi mediocri e molto danneggiati dal tempo, exad rerum.
Uno dei bassorilievi mostra Settimio Severo che sacrifica agli Dei, con la moglie Giulia. Un altro bassorilievo rappresenta Caracalla che compie un sacrificio, e si vede il posto in cui era la figura di Geta, scalpellata dopo la sua morte violenta. Ma che importa la descrizione d’un monumento mediocre, eretto a gloria di spregevoli despoti? E’ meglio parlare die veri grandi uomini.
Quell’essere misterioso, per il quale noi siamo i posteri più lontani, e di cui, sotto il nome di Ercole, ci resta un’idea molto approssimativa, aveva costruito qui vicino l’Area Maxima, altare eretto a se stesso dopo aver ucciso Caco. Questo furfante dopo aver rubato ad Ercole alcuni buoi, li aveva nascosti dentro l’Aventino, ma i loro muggiti avevano rivelato il furto.
Abbiamo riletto sul posto, con il più vivo piacere, ciò che dice Tito Livio di questa storia. Queste avventure erano per i Romani ciò che oggi sono per noi le tradizioni dei miracoli dei santi del medioevo, ancora così diffuse nelle nostre campagne. L’esempio della croce di Migné ci mostra come si facessero i miracoli nel sesto secolo. Ma non è altrettanto facile scoprire l’origine delle imprese grandi e semplici attribuite ad Ercole che, secondo la sublime idea di Don Chisciotte, sembra aver corso il mondo per punire gli oppressori e soccorrere i deboli.
La grande statua di Ercole, di bronzo dorato, ora al Campidoglio, è stata scoperta vicino al luogo in cui ci troviamo.
E proprio qui vicino, nella parte inferiore del Palatino, Romolo tracciò il famoso solco che indicava la cinta della sua nuova città; l’aratro era tirato da un toro e da una vacca, come prescriveva la religione che, fin da quell’epoca lontana, esercitava già un immenso potere sull’immaginazione degli Italiani. Questo dipende dal carattere degli uomini o dai terremoti e dai temporali, che d’estate incutono davvero spavento? Fanno paura anche a noi; forse a causa dell’effetto elettrico che scuote i nostri nervi; allora afferriamo una grossa sbarra di ferro che fa diminuire la nostra ansia.
Il centro del potere dei preti era in quella Etruria oggi così vuota di passioni: Vi svolgevano la funzione che i gesuiti vorrebbero attribuirsi oggi: designavano i piccoli re del paese, che non potevano afe nulla senza il loro assenso. Non posso fare a meno di vedere il primo passo dello spirito umano in questo trionfo dell’intelligenza sulla forza bruta.
La città di Romolo non fu distrutta dai vicini, com’era accaduto a cento altre, fondate egualmente come questa da un brigante coraggioso: perciò il popolo superstizioso che egli aveva messo insieme pose un bue di bronzo nel luogo in cui aveva iniziato a tracciare il solco. I bassorilievi e le statue erano le iscrizioni di quelle antiche popolazioni che non sapevano leggere. Questo bue di bronzo confermò e diede al luogo il nome di Forum Boarium.
Questo lungo racconto aveva commosso le nostre compagne; ne ho approfittato per mettere un po’ d’ordine nelle nostre visite, suggerite finora dal piacere del momento. Le signore provavano oggi una specie di passione per i tempi antichi, e abbiamo deciso di rivedere, prima di rientrare a casa, i dieci archi che, conservati più o meno bene, esistono ancora oggi a Roma.
Brano tratto da Stendhal, “Passeggiate Romane” pag. 360 – 363, edizione Garzanti 2004
Nessun commento
No comments yet.
RSS feed for comments on this post. TrackBack URL
Sorry, the comment form is closed at this time.