La lingua più parlata al mondo? Il latino. “Non solo quel che resta del latino ecclesiastico né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari” ha scritto l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis.
“Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di parlanti latino”.
A questa lingua bellissima sono stati dedicati molti libri non specialistici. Ad esempio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini, professore di letteratura italiana all’Università di Oxford. Secondo lo studioso, il latino è, molto semplicemente, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo. In latino, un pensatore rigoroso e tragicamente lucido come Lucrezio ha analizzato la materia del mondo; il poeta Properzio ha raccontato l’amore e il sentimento con una vertiginosa varietà di registri; Cesare ha affermato la capacità dell’uomo di modificare la realtà con la disciplina della ragione; in latino è stata composta un’opera come l’Eneide di Virgilio, senza la quale guarderemmo al mondo e alla nostra storia di uomini in modo diverso. Gardini incoraggia il lettore a dialogare con una civiltà che non è mai terminata perché giunge fino a noi, e della quale siamo parte anche quando non lo sappiamo. Una lingua, quella latina, tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità con la forza che solo le cose “inutili” sanno meravigliosamente esprimere.
Il latino ha rappresentato durante gli ultimi tremila anni la più autentica espressione della nostra civiltà. È stata non solo la lingua dei nostri antenati Romani, come Plauto e Terenzio, Cicerone o Virgilio, Seneca e Plinio, oppure ancora di Stazio e Quintiliano, Marziale o Tacito, Svetonio e Gellio, o più tardi di Ausonio e Claudiano, Ammiano Marcellino, Ambrogio o Agostino, ma con autori come Boezio e Cassiodoro, Gregorio di Tours ed Isidoro di Siviglia, il latino riuscì a sopravvivere alla caduta dell’Impero Romano, e poté rimanere in uso durante tutto il Medioevo, come lingua del diritto, della filosofia e della teologia, avendo il suo apice espressivo in Tommaso d’Aquino.
Il latino risorse con una nuova forza nel Rinascimento, nella straordinaria fioritura delle arti e delle scienze, come mezzo eterno di comunicazione tra tutte le nazioni, con accenti e suoni tanto diversi come nell’olandese Erasmo, il polacco Copernico, il francese Cartesio, l’inglese Newton, il tedesco Leibniz o lo svedese Linneo, tutti uniti nella comune lingua, il latino.
A dispetto della ricchezza della nostra cultura millenaria, molti sono stati portati a credere che il latino sia morto con l’ultimo dei Romani. Non è esattamente così, poiché essa è “una lingua che ancora ci parla”, per dirla con le parole di Eva Cantarella, storica dell’antichità e del diritto antico.
Il Museo Nazionale Romano, di cui le Terme di Diocleziano fanno parte, raccoglie un patrimonio unico al mondo con circa 10.000 iscrizioni, che accompagnano il lungo cammino della civiltà romana dalla nascita della città di Roma fino alla fine dell’impero e rappresentano oggi un potente mezzo per illustrare gli aspetti sociali, politico-amministrativi, economici e religiosi del mondo antico. La raccolta, formata da collezioni storiche, come quelle del Museo Kircheriano, e dai reperti provenienti dai grandi interventi per la costruzione di Roma Capitale, si arricchisce ancora oggi dei materiali rinvenuti nel territorio dell’area comunale romana.
Le iscrizioni sono della natura più varia. Accanto a quelle legate al mondo funerario, come quella per Gaio Pompeio Procolo, terzo figlio di Gaio, che apparteneva dalla XVIII Legio dell’esercito romano dove ricopriva, come ci informa l’epigrafe, il ruolo di praefectus fabrum, il cui compito era di comandare e coordinare il genio militare, possiamo ricordare quella molto particolare che è l’orazione funebre per la liberta Allia Potestas. La lastra fu rinvenuta in più parti durante gli scavi per un parcheggio in un’area presso Via Pinciana alla fine dell’Ottocento, un’area che appariva occupata da un vasto sepolcreto che si estendeva a raggiungere gli Horti Sallustiani.
La datazione del testo è controversa ma da una serie di considerazioni, non ultima il fatto che nel testo stesso si dice Allia Potstas fu cremata, l’ipotesi più accreditata suggerisce una datazione non successiva alla fine del II secolo o all’inizio del III secolo dopo Cristo. L’autore del testo, generalmente riferito come Allio, dimostra una certa abilità compositiva, dimostra di avere una certa abilità nell’uso dell’esamero e del pentamero, e di conoscere Ovidio, della cui influenza è pervaso tutto il poema.
Nel testo si descrivono innanzitutto le virtù di Allia che era “forte, morigerata, parsimoniosa, irreprensibile, custode fidatissima, curata in casa, fuori casa curata quanto basta, ben nota a tutti, era la sola che potesse badare a tutte le faccende; faceva parlare poco di sé, era sempre immune da critiche.
La prima a scendere dal letto, per ultima vi andava a dormire dopo aver posto in ordine ogni cosa; mai senza ragione la lana si allontanò dalle mani, nessuna le fu superiore nel rispetto e nei sani costumi”. Quindi segue una descrizione della donna: carnagione chiara, occhi belli, capelli dorati, seni piccoli e gambe tanto belle che al confronto Atlanta avrebbe dovuto nascondere le sue. E poi i versi che hanno forse maggiormente attratto la critica perché Allia Potestas “mentre era in vita mantenne l’affetto tra due giovani amanti, cosicché divennero simili all’esempio di Pilade e di Oreste: una sola casa li accoglieva, avevano un’unica anima. Dopo la sua morte ora quegli stessi invecchiano separati l’uno dall’altro; ciò che una tale donna costruì, ora parole offensive danneggiano”.
L’autore del testo è triste ed amareggiato per la morte di Allia. Spera che questi versi possano essere un dono gradito alla defunta “egli, che vive senza di te, è come se vedesse da vivo i propri funerali. Al braccio porta di continuo il tuo nome, unico modo per trattenerti con sé, unita all’oro, POTESTAS ….. In luogo tuo, per mia consolazione, tengo un’immagine, che venero religiosamente e molte ghirlande le sono offerte, quando verrò da te, (la tua statua) mi seguirà, compagna (nel sepolcro)”.
C’è un’iscrizione proveniente dall’edicola dei suonatori degli strumenti in bronzo che si trovava nell’area del santuario, attribuito alle Curiae Vetres, del Palatino dopo la sua sistemazione in età augustea. In questa fase il santuario viene corredato da una platea di accesso e da un’ampia gradinata in travertino che saliva verso il Palatino. In questi spazi i suonatori di strumenti in bronzo, impiegati nelle principali cerimonie pubbliche, cominciano ad innalzare statue ai principi, da Augusto a Tiberio, a Claudio a Nerone e a sua madre Agrippina.
Per ospitare queste statue verrà costruita un’edicola, con fronte colonnato, addossata alla parete del temenos del santuario, da cui proviene l’iscrizione conservata.
Tra i reperti più interessanti, un frammento di mappa catastale della città di Roma, risalente alla prima metà del II secolo dopo Cristo, rinvenuto a Trastevere, nei pressi della via Anicia. Insieme alla Forma Urbis Severiana, la celebre grande pianta dell’età di Settimio Severo, questo frammento è uno dei pochi e preziosi esemplari di planimetrie antiche. In scala 1:240, riproduce la zona del Campo Flaminio, lungo il Tevere, nei pressi dell’attuale Piazza delle Cinque Scole: sono riconoscibili, grazie all’iscrizione, il Tempio dei Dioscuri e una fila di tabernae su cui è iscritto il nome dei proprietari: Cornelia e i suoi soci.
Alcune iscrizioni forniscono poi altre informazioni sulla vita quotidiana della Roma antica. Ad esempio una delle più singolari è riportata alla base del ritratto a figura intera di un soldato dal corpo tozzo e massiccio, posto all’interno di una nicchia delimitata da una colonna.
L’abbigliamento del soldato è piuttosto semplice, privo di elmo e di corazza, e può essere considerato come la tenuta di riposo del pretoriano: una semplice tunica lunga fino al ginocchio, stretta subito sotto la vita da una cinta, il cingulum, con grande fibbia e il mantello, sagum, fissato sulla spalla destra. Una corta spada pende dal balteus, la speciale cintura militare romana qui portata a tracolla, mentre nella mano destra è stretto il pilum, una sorta di giavellotto che costituiva l’armamento tipico del pretoriano e che, in questo caso è raffigurato come una lunga asta a spirale. L’iscrizione riporta il nome del pretoriano, il numero della coorte pretoria in cui egli aveva militato, la IX, e il nome del suo centurione.
Un’altra testimonianza particolare è rappresentata dai collari che spesso cingevano il collo degli schiavi, in modo da evitare la marchiatura a fuoco dell’uomo.
Quella conservata nel Museo Epigrafico, di provenienza sconosciuta, ma databile tra il IV e il VI secolo dopo Cristo, comprende anche una medaglietta che riporta: “Fugi, tene me, cum revocuveris me domino meo Zonino, accipis solidum”.
Ovvero: Sono fuggito, quando mi riporterai dal mio padrone Zonino, riceverai un solido.
La somma di un solido rappresenta la ricompensa, modesta, prevista dalla legge èer la restituzione di uno schiavo fuggitivo.
Roma, 22 gennaio 2017
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