Il brano che presentiamo è tratto da Il bazar di un poeta, pubblicato da Hans Christian Andersen nel 1842. Il bazar di un poeta raccoglie le impressioni e gli appunti di viaggio che lo scrittore di fiabe svolse per 9 mesi
tra Germania, Italia, Grecia e Oriente, tra il 1833 e il 1834. L’opera è divisa in 6 capitoli e di questi uno è interamente dedicato all’Italia. Vi si trovano, descrizioni, appunti e schizzi su Roma, Napoli, Bologna, la Sicilia e anche descrizioni dell’attraversamento degli Appennini.
Per quanto possa essere brutto, l’inverno romano ci porta anche giornate assai belle, belle come i più bei giorni di primavera su al Nord; allora vien voglia di uscire, di camminare nel verde che qui non è difficile da trovare! Le rose sono in fiore, le siepi di alloro emanano il loro profumo – sono tanti i luoghi dove si può passeggiare. Oggi visiteremo le rovine del castello dell’imperatore, che si trovano sopra un vero e proprio altipiano, nel bel mezzo della città; tra vigneti, giardini, rovine e catapecchie, puoi trovare fertili campi coltivati e spazi brulli dove l’asino trova il suo cardo da rosicchiare e dove le capre cercano un’erba che somiglia al muschio.
Verso il foro si ergono frammenti di mura ancora ben salde. Enormi
cespugli di rose di macchia e varie piante rampicanti si rovesciano sulle scarpate come acque di una cascata; alti cipressi svettano sul paesaggio; percorriamo la larga strada carrozzabile e ci troviamo davanti una villa che sorge nel bel mezzo di un giardino così verde e odoroso da non poter credere che siamo in inverno, nel mese di gennaio. Reseda odorosa, rose e garofani esalano tutt’intorno i loro profumi; in mezzo al fogliame scuro degli alberi fiammeggiano arance e limoni! Per un lungo viale di alberi si alloro si giunge a una terrazza naturale creata da una rovina e da cui l’occhio spazia sulla campagna; sotto di noi scorgiamo solitari monumenti sepolcrali, poi l’ansa del Tevere giallo e, lontano, all’orizzonte, una striscia trasparente: è il Mediterraneo.
Nel giardino in cui ci aggiriamo, scorgiamo nel terreno due aperture abbastanza grandi; sono perfettamente rotonde e dall’orlo superiore guardando verso il fondo, fin dove l’occhio arriva, le pareti appaiono tutte rivestite di pervinche; bello immaginarli come due crateri che invece di ceneri e lave, gettano rami e fiori di cui tutta l’estesa plaga di rovine finirebbe con l’essere ricoperta.
Sotto queste aperture si trovano grandi volte, profonde tanto che la luce del giorno mai ne raggiunge la base. E laggiù, dove un tempo c’era forse una vasca di marmo in cui donne graziose immergevano le loro belle membra alla luce di migliaia di lampade, tra vapori odorosi d’incenso, tra allegre canzoni e musiche di strumenti a corda, salta ora un viscido ranocchio sotto le cui spoglie chissà che non si celi una potente imperatrice, condannata a trascinare le sue pesanti, umide membra per aver covato laggiù, sotto quelle volte ora tenebrose, malvagi complotti omicidi!
Resta pure laggiù, nella notte nera, o infelice! Quassù fioriscono le rose! Il caldo sole bacia le foglie verdi dell’alloro e lo straniero s’impregna della bellezza del sud, che resterà impressa per sempre nella sua memoria.
Abbandoniamo queste verdi voragini lussureggianti e seguiamo un sentiero che si snoda tra i cespugli in fiore e termina davanti a scoscese pareti di muro; una scala di legno ci conduce in basso, in un’altra parte del palazzo imperiale, in un orto di cavoli. Il mosaico del pavimento è scomparso, il
lombrico sprizza dalla terra umida dove in tempi antichi gli imperatori romani circondati dalla loro corte si sdraiavano intorno alla tavola suntuosa. E che sapori, che odori emanavano le vivande prelibate: lingue di fenicotteri, latte di murene, cervelli di pavone….qui, durante i pasti, questi grandi della terra cambiavano i loro ricchi ornamenti, ostentavano i loro riccioli falsi, facce e sopracciglia dipinte, polvere d’oro tra i capelli e calzature dalle suole impregnate di unguenti odorosi. Il povero schiavo gallonato di stringhe dorate stava immobile e dritto come questo torso di cavolo; se putacaso tossiva o starnutiva, veniva gettato ipso facto nello stagno, ad ingrassare i pesci destinati alla tavola dell’imperatore
Quanti ricordi sono legati a questi luoghi, dove regnarono Caligola, Commodo e Tiberio. Il poeta scaglia con sdegno sul mondo il nome di questi folli imperatori; fino al giorno del giudizio si addenseranno imprecazioni sulle loro teste! Persino lo scolaretto del più piccolo villaggio del Nord stringe il pungo e si rifiuta di pregare Dio per quegli uomini malvagi.
Gli spiriti di quegli uomini corrotti vagano ancora sulle rovine del palazzo dell’imperatore; alla velocità del pensiero essi volano intorno alla terra e si arrestano solo al risuonare di una maledizione contro la loro vita e le loro azioni! Continuate pure a volare sui mari e sulle terre! Per voi ormai non ci sono più giustificazioni, né legami di parentela, né amicizie politiche! Siete rimasti soli! Gli uomini vi giudicano! Solo Dio potrà perdonare!
Dove la dissipazione rovesciava la sua cornucopia cresce ora una semplice pianta di cavolo; i muri che racchiudevano i vizi della bestialità, danno vita, ora, alle larghe foglie del fico, simbolo di modestia; cresce l’olivo dove scorreva il sangue! Noi ricorderemo Tito, ricorderemo i nobili uomini saggi le cui vite ammantano di splendore i ricordi, guarderemo le belle rose odorose e dimenticheremo, nell’eterna magnificenza della natura, la crollata grandezza.
Roma, 19 agosto 2019
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