È certamente la più curiosa delle alture di Roma. Ai Sette Colli originari, l’espansione edilizia degli ultimi due secoli ha aggiunto molte altre colline;
e a tutte queste vanno aggiunti quelli che si possono definire i «monti archeologici»: modesti dislivelli provocati dall’accumulo di residui di antichi edifici quali il Monte Giordano, Monte Savello, Monte Citorio e Monte Cenci. Tuttavia Monte Testaccio, che è anch’esso un’altura artificiale, ha ben differente origine.
Infatti, con la sua altezza di 54 metri sul piano circostante e con il suo perimetro di circa un chilometro, il Monte dei Cocci altro non è che un accumulo di anfore abbandonate e sistematicamente ammucchiate in un ben definito luogo di scarico. Dalla fine dell’età repubblicana a quella imperiale, il naturale approdo sul Tevere venne trasformato in un vero e proprio porto mercantile detto Emporium, grazie all’azione di due edili nel 193 avanti Cristo, Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo. Il porto fu dotato di horrea, ovvero di un esteso sistema di magazzini, di cui faceva parte anche la Porticus Aemilia i cui resti oggi possono essere visti tra gli edifici del quartiere Testaccio.
Le operazioni di smistamento avvenivano nei pressi del porto. Le merci che potevano essere conservate venivano inviate ai magazzini, altre raggiungevano le botteghe della città dopo essere state spostate in anfore di dimensioni ridotte che potevano essere caricate sui carri, rispetto a quelle che venivano utilizzate sulle imbarcazioni provenienti dalle diverse aree di produzione.
In particolare subivano questo trattamento le merci come l’olio, il vino e il pesce. Le anfore contenenti vino potevano essere riutilizzate in città, ad esempio per la raccolta delle urine necessarie per il funzionamento delle fulloniche, ma quelle contenenti olio e pesce no, e per questo le testae, anfore in latino, di risulta dovevano venivano accantonate con una particolare tecnica che prevedeva un regolare accatastamento dei cocci, frapponendo ai vari strati di materiale abbandonato degli strati di terreno e soprattutto calce che dessero consistenza alla costruzione, ed eliminassero il cattivo odore che si sarebbe generato dalla decomposizione dei residui organici.
Un accumulo di tale entità e altezza fu reso possibile dalla presenza di una strada principale e di due stradelle che potevano essere percorse da carri trainati da muli ricolmi di cocci e di anfore frammentate. Funzionari chiamati curatores supervisionavano la rottura delle anfore e il loro trasporto fino alla cima della collina.
Ma questa, che è a tutti gli effetti una enorme discarica, conserva al suo interno moltissime informazioni archeologiche, che investono diversi ambiti della ricerca storica. Ad esempio, attraverso i tituli picti, note scritte a pennello o a calamo con il nome dell’esportatore, indicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti durante il viaggio, la data consolare, e che si ritrovano sulle anse, è stato possibile ricostruire non solo le vie dei commerci, ma anche la struttura stessa della catena commerciale e le relative regole. Le informazioni contenute nei tituli picti hanno, quindi, contribuito a scrivere la storia del commercio nell’antica Roma.
Altre informazioni ricavate dagli studi, ancora in corso, sui cocci riguardano i cultivar di olivo che venivano utilizzati in epoca romana e la provenienza dell’olio, con una predominanza dell’olio spagnolo, soprattutto dalla regione della Betica, e dell’olio di origine africana.
Ogni anfora conteneva circa 70 litri di olio importato dalla Spagna meridionale o dall’Africa del Nord e si è stimato che con le anfore accumulate a formare il Monte Testaccio siano stati trasportati a Roma circa 1,75 miliardi di litri di olio d’oliva, che veniva poi distribuito gratuitamente ai cittadini romani come parte del sussidio alimentare.
E’ stato calcolato che il consumo di olio di oliva fosse di circa 50 litri pro capite all’anno, e bisogna immaginare che in ogni villaggio, città o accampamento dell’impero esistesse una montagnola di cocci di anfore d’olio simile a quella del Monte dei Cocci.
I Romani furono i primi che fecero dell’olio un prodotto agricolo destinato alla vendita internazionale e alcun autori latini, come Catone e Columella, scrissero dell’olivo e della sua coltura, arrivando a identificare 20 cultivar diverse e a distinguerne i livelli di qualità: così l’oleum viride,
l’olio verde preparato da olive acerbe era il migliore, seguiva poi l’oleum maturum, ovvero quello ricavato da olive mature, e infine c’era l’oleum cibarium preparato a partire da olive ormai guaste e che corrisponde al nostro olio lampante.
Vasti oliveti vennero piantati dai Romani nell’Africa del Nord e accanto a questi sorsero enormi frantoi in grado di trattare enormi quantità di olive.
Furono istituite borse merci in ciascun porto per fissare il prezzo dell’olio e si formare delle corporazioni per la sua commercializzazione. Si distinguevano: gli olearii, che erano dei venditori al dettaglio, i diffusores e i mercatores che invece operavano su scala più vasta.
Un prodotto di tale importanza venne utilizzato come merce di scambio. Ad esempio Giulio Cesare volendo punire la città fenicia nell’attuale Libia Leptis Magna per aver preso parte alla resistenza contro l’invasione romana, le inflisse di versare a Roma una quantità di olio di oliva pari a 1.067.800 litri.
L’olio divenne l’equivalente del petrolio di oggi. Settimio Severo, ad esempio, apparteneva ad una famiglia di Leptis Magna che si era arricchita proprio producendo e commercializzando olio, e poco dopo la sua ascesa al trono, chiese ai cittadini di Lepis Magna una donazione volontaria annua di un milione di libbre di olio di oliva, che poi egli distribuì gratuitamente al popolo della città di Roma.
Si ritiene che il monte abbia funzionato come discarica per un lungo periodo di tempo, almeno dal 140 dopo Cristo fino alla metà del III secolo. Poi, nel corso dei secoli successivi, il motivo dell’accumulo dei cocci fu dimenticato, tanto da far sorgere intorno al colle numerose leggende per giustificare la sua origine: chi sosteneva fossero i risultati degli errori di lavorazione delle vicine botteghe di vasai, chi asseriva fossero i resti delle urbe cinerarie traslate dai colombari della via Ostiense, mentre una leggenda raccontava che la collina fosse stata formata dei resti del grande incendio di Roma nel 64 dopo Cristo. Per secoli il monte fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché a causa del suo utilizzo come discarica non era ritenuto meritevole di particolare menzione. Il nome mons Testaceum appare per la prima volta in un’iscrizione databile al VII secolo circa, conservata nel portico della chiesa romana di Santa
Maria in Cosmedin mentre l’originario nome di epoca romana è ignoto.
Sfruttate per secoli sono state le proprietà isolanti dell’argilla di cui il monte risulta costituto. Così lungo le pendici del colle artificiale sono state scavate numerose grotte al cui interno la temperatura si attesta tutto l’anno intorno ai 10°C. I locali scavati tra i cocci vennero adibiti a cantine, dispense e stalle e successivamente, a partire dal Medioevo, furono sede di osterie. In epoca più moderna i grottini furono adibiti a ristoranti e locali notturni.
Probabilmente per la sua posizione decentrata rispetto alla città il Monte dei Cocci venne, sin dal Medioevo, utilizzato quale scenario per alcuni momenti del Carnevale Romano, costituiti da giochi crudeli e cruenti a carico di animali. Si allestivano qui infatti delle vere e proprie tauromachie, di cui la più popolare era la così detta “ruzzica de li porci”.
In questa occasione carretti di maiali vivi venivano lanciati giù dalla collina e quando si sfracellavano in basso il popolo dava la caccia ai frastornati animali. Dal XV secolo, trasferito il carnevale in via Lata per volontà di papa Paolo II, il monte divenne il punto di arrivo per la Via Crucis del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Golgota. Il corteo in questo caso partiva da una casa oggi scomparsa a Via Bocca della Verità, che ancora nell’Ottocento conservava il nome di “Locanda della Gaiffa”, quindi passava per la casa dei Crescenzi che diveniva la casa di Pilato, proseguiva per Santa Maria in Cosmedin, e attraversando l’arco di San Lazzaro, arrivava sulla cima del monte dove veniva simulata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni.
Più tardi sarà meta privilegiata delle “ottobrate romane”, le tipiche feste romane, che vedevano sfilare verso le osterie e le cantine del Testaccio i carretti addobbati a festa delle “mozzatore”, le donne che lavoravano
come raccoglitrici d’uva nel periodo della vendemmia: tra canti, balli, gare di poesia, giochi e chiacchiere, ci si rinfrancava dal lavoro e soprattutto si “innaffiava” il tutto con il vino dei Castelli Romani, conservato nelle cantine scavate alle pendici del monte. Un esplicito riferimento a monte Testaccio è contenuto nella novella El licenciado Vidriera dello scrittore Miguel de Cervantes raccolta nell’opera Novelle esemplari pubblicata nel 1613. «Cosa volete da me ragazzi, testardi come mosche, sporchi come cimici, coraggiosi come pulci? Sono forse io il Monte Testaccio a Roma che mi gettate contro cocci e tegole?»
Occorre tuttavia attendere fino al settecento perché al monte e ai reperti lì accatastati venga riconosciuto valore archeologico: l’abitudine dei romani di prelevare materiale dalle pendici del colle stava mettendo in pericolo l’abitabilità dei locali sottostanti tanto da muovere le autorità, nel 1742, a emettere un editto a tutela «…di un’antichità così celebre». A tale divieto, per le stesse motivazioni, si aggiunse due anni dopo la proibizione di pascolare armenti sul monte Testaccio.
Le prime organiche ricerche archeologiche sul monte furono condotte a partire dal 1873 da Heinrich Dressel cui si deve la valorizzazione storica del sito e un imponente lavoro di catalogazione dei cocci e di classificazione delle anfore, sulla base dei bolli e dei tituli picti rinvenuti su alcuni di essi.
Durante l’assedio di Roma del 1849, su monte dei cocci fu posizionata una batteria di artiglieria che da tale altezza prendeva agevolmente e insistentemente di mira i francesi accampati vicino alla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Similmente, durante la seconda guerra mondiale, sulla cima del colle fu installata una batteria antiaerea posizionata su basamenti di cemento, i cui resti sono ancora visibili.
Roma, 20 gennaio 2019
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