Pubblichiamo con piacere il Prologo del libro pubblicato per le Edizioni di Pagina, da Paolo Biondi dal titolo “I Misteri dell’Ara Pacis”, ringraziando Paolo Biondi per la sua gentilezza.
Galleria di personaggi e di fantasmi
C’era un generale spagnolo presuntuoso. Voleva distogliere Augusto dal suo destino. E il destino aveva assegnato un compito al principe di ritorno da Gallia e Spagna: far costruire un altare e dedicarlo alla dea Pace, dando così il via a una serie incredibilmente lunga di fatti e di vicende, di curiosità e di misteri legati a quell’Ara. Malgrado la sua ostinazione e il potere dei suoi soldi quel generale non riuscì a fermare la storia. Lui non sapeva che una dea, una dea potente, aspettava che qualcuno rendesse luogo sacro più di ogni altro la terra dove lei aveva fatto zampillare una fonte, fonte di acqua che sgorga per proteggere e custodire la vita di ogni partoriente, nella parte settentrionale del campo Marzio. E non poteva sapere che un matematico egiziano aveva già calcolato, con scientifica certezza, ogni minima variazione dell’ombra del sole per costruire un nuovo orologio. E che l’ombra di un obelisco egizio dedicato al dio Sole, meridiana di quell’orologio, sarebbe caduta a fecondare la terra alle porte di quell’Ara ogni anno al tramonto del 23 settembre, giorno di nascita del principe Augusto, portatore di prosperità e di pace nel mondo.
Non sapeva nemmeno, quel generale spagnolo, che una lucertola e una ranocchia avevano già battezzato un campo, alla periferia nord di Roma, eleggendolo a giardino dei giardini. E che uno stuolo di poeti aveva già cantato il destino di quelle zolle di terra dedicandole alla dea Pace.
Una miriade di vicende già si intrecciavano e rincorrevano, col destino comune di costruire un’unica storia.
Mentre un pittore stava già preparando i disegni da fissare sul marmo, quasi fossero l’immagine cristallizzata nel tempo e consegnata all’eternità della famiglia predestinata più di tutte le altre famiglie a governare e a fare grande Roma, la famiglia di Augusto. Non poteva sapere, lo spagnolo, che un sacerdote era stato incaricato dagli dei di essere pronto a raccogliere i frammenti di quella immagine per trasmetterla a ogni generazione e farla conoscere a tutti gli uomini nei secoli dei secoli. La sorella di Augusto aveva poi già recitato una parte del suo ruolo in quella sacra vicenda: aveva pianto la morte di quella stirpe divina, nella morte del figlio. Pezzi di quella famiglia predestinata se ne andavano prima del tempo e già scrivevano i loro nomi sul libro dei potenti ascesi al cielo. Ma sulla terra hanno lasciato un segno, monumento indelebile di pace e prosperità.
Tante storie già si affastellavano ed erano raccontate nel libro del tempo attorno a quell’altare, dedicato alla dea Pace. Storie disseminate in un percorso lungo oltre venti secoli che un ingegnere avrebbe cercato di recuperare e di rimettere insieme, scavando nelle viscere della terra. In quelle stesse viscere nelle quali un contadino, fra i mille indizi seminati per non farci perdere il filo della vicenda, stava più di 2.000 anni fa già coltivando una vigna per ricordarci che mille tralci possono donare grappoli succosi se si mantengono uniti al tronco, unico garante di linfa vitale per tutta la vite. Tanti personaggi di una storia già scritta sul libro del destino di ciascuno e di tutti. Una storia fatta di mille storie e di mille misteri. No, non poteva quel generale fermare il destino di tanti che già si erano messi al posto che era stato loro assegnato sul palcoscenico della vita. Il destino di tutti coloro che aspettavano pazienti dietro le quinte il momento opportuno per entrare in scena e recitare la loro parte in questo nostro racconto.
Una lunga serie di personaggi che non abbiamo faticato a cercare, ma che ci sono venuti incontro per permetterci di riannodare alcuni fili di questa nostra piccola, grande storia, una storia che possiamo oggi raccontare incollando mille frammenti, ridisegnare per lunghi tratti, compresi tanti suoi misteri irrisolti e intriganti.
È impossibile incollarli tutti i pezzi della storia come fossero, nel loro insieme, la fotografia di un momento statico e immutabile. Meglio lasciar raccontare ad ogni protagonista la sua avventura, il suo particolare lasciandolo vivere e incastrarsi di volta in volta con gli altri pezzi in quadri sempre nuovi. Salivo i gradini della scatola di pietra e luce creata da Meier e costruita fra mille polemiche, e pensavo a questa semplice verità. Mi sono fermato alla biglietteria dell’Ara Pacis dopo aver spinto la pesante porta di vetro; intanto guardavo il cono d’ombra all’ingresso del monumento. È un’opera giocata sui chiaroscuri, chiaroscuri che ora però è impossibile riconoscere nel loro significato originario e interpretare.
Per comprenderli ci siamo lasciati guidare dal genio di Fausto Delle Chiaie, un pittore, un artista che ogni giorno dipana il suo atelier d’arte lungo la strada che separa l’Ara dal mausoleo d’Augusto e osserva noi curiosi dall’esterno di questa teca. Intanto il suo Manifesto infrazionista dell’arte, pur ideato negli anni Ottanta in tutt’altro clima culturale da quello dei nostri giorni, non perde colpi nella sua sempre attuale capacità di descrivere la realtà, anche questa realtà. In base a quella filosofia dell’arte e della vita, l’artista ancora oggi raccoglie quotidianamente i frammenti della vita, frutto ciascuno del suo particolare punto di vista su di essa, e li mette in fila su un muretto. È un muretto quanto mai precario perché è quello della recinzione agli eterni lavori di manutenzione del mausoleo. Precario come le sequenze occasionali create da Delle Chiaie con le sue piccole opere: ogni giorno il suo racconto d’arte e di storia si dipana fra l’Ara e il mausoleo in modo sempre nuovo, eppure con i soliti vecchi pezzi. Tessere che si incastrano quotidianamente e perfettamente nella sua azione d’arte sempre nuova. Metafora di quell’Ara di fianco alla quale lavora. Fa delle sue opere punti disseminati quali sassolini a formare un sentiero che ci accompagna nella vita. La storia da sola no, non riesce a incollare tutti i cocci del passato e a riordinarli. Ciò malgrado da quei frammenti di passato ogni giorno ci si palesa un quadro nuovo, nasce e rinasce una nuova Ara Pacis, ci viene offerta una rappresentazione, sempre nuova e con sempre nuovi misteri e suggestioni, proprio come l’atelier di Delle Chiaie.
Passo la biglietteria e spingo la seconda pesante porta di vetro che conduce all’interno, che introduce in presenza del monumento. Sono nel cono d’ombra e guardo lontano cercando i colori, lo sfavillante caleidoscopio di colori che l’altare della Pace promanava quando venne costruito, duemila e passa anni fa.
Perché allora marmi e bassorilievi erano colorati come quadri sgargianti. Vengo invece abbagliato dal bianco dei suoi marmi puri di Carrara. I colori non ci sono più e ci beiamo oggi della falsità di quel candore. È impossibile incollare le impressioni su quello che era. Non ci resta che accontentarci di quello che è e da lì partire, non ci resta che indagare, cercare compagni di viaggio che ci prendano per mano e ci raccontino la storia, ciascuno la sua parte della storia di questo monumento. Solo così potremo raccogliere i frammenti che si sono appesi disordinati sulle pareti della nostra immaginazione e potremo cercare di ricostruire e ricomporre noi una nuova immagine, una nuova opera.
È un susseguirsi di emozioni, sparse nel tempo, molte ancora nel futuro, come un mare che rincorre le sue onde all’infinito sulla battigia, quello che sgorga da qui. Come l’emozione che provai quando lessi su un libro la data di inaugurazione dell’Ara Pacis: 30 gennaio del 9 avanti Cristo. Ebbi un sussulto e pensai perché quella data mi appariva così familiare. Mi ci volle poco per ricordare che si trattava del giorno del cinquantesimo compleanno di Livia Drusilla, la moglie di Augusto. Mia vicina di casa al nono miglio sulla Flaminia con la sua villa di campagna, è la donna che mi ha accompagnato tante volte prendendomi per mano e mi ha portato a visitare luoghi e storie, palazzi e strade, affreschi e monumenti, ad ascoltare colloqui e ad indagare nei segreti dei cuori, a immaginare personaggi e fatti della Roma augustea e del secolo a cavallo dell’anno 0, duemila e passa anni fa.
È un anno chiave della nostra civiltà e della storia di Roma. Eppure non esiste nella storia dell’urbe, semplicemente perché i romani non conoscevano lo 0 né l’avevano nelle loro numerazioni. Non c’è nessun anno 0 nella storia di Roma, esiste solo nella protervia delle nostre ricostruzioni. Eppure è un anno chiave, spartiacque della storia e della civiltà.
Non c’era dubbio: il monumento della Pace era stato voluto dal Senato 13 anni prima di quell’inesistente zero per celebrare i successi di tre anni di campagne di Augusto fra Germania, Francia e Spagna, e per sancire l’inizio del secolo aureo della pace cantato da Orazio. Niente a che fare con Livia e la sua data di nascita, dunque. Ma Augusto aveva poi voluto che quell’Ara fosse inaugurata, dopo oltre tre anni di lavori, proprio nel giorno del cinquantesimo compleanno della moglie, per celebrare e ricordare nei secoli dei secoli la figura di Livia, per farne memoria e metterla su quel piedistallo che la storia le aveva riservato. E noi l’abbiamo dimenticato e cancellato, quel piedistallo. Non lo ricordiamo oggi perché lo dimenticarono presto anche i Cesari che raccolsero – e inquinarono – il principato dopo Augusto. A iniziare da Tiberio che cercò di far dimenticare madre e patrigno. E perché fu la terra, ancora prima della memoria, a inghiottire e ricoprire quel monumento. Fu la terra a fare scomparire l’Ara inghiottendola nelle sue viscere, con l’aiuto del Tevere, il ceruleo Tevere che ricopriva con le sue acque limacciose il campo Marzio ad ogni piena, ad ogni inondazione e stendeva uno strato di limo su quei prati; così il livello della terra saliva piena dopo piena, inondazione dopo inondazione; e così scendeva e sprofondava sempre più giù, fino a scomparire, quell’opera magniloquente del principato augusteo.
Una seconda emozione mi fece sobbalzare quando rimirai il modellino della sistemazione del campo Marzio voluta da Augusto, modellino costruito da pochi anni e posato ora a fini didattici all’ingresso del museo che racchiude il monumento ricostruito a qualche centinaio di metri da dove è stato dissepolto. Mostra, quel modellino, il campo Marzio settentrionale così come l’aveva pensato Augusto con i suoi monumenti principali, con il mausoleo e la sua porta orientata proprio in linea con l’ingresso del Pantheon a fare delle due costruzioni un’opera unica. Dialogo unico e intenso fra gli ingressi di Pantheon e mausoleo e dialogo anche fra gli dei che li abitano, divinità celesti nel primo caso e divinità terrene nel secondo, divinità che si rimirano e si uniscono in un unico sguardo a distanza fra loro. Gli dei del passato, a iniziare dal dio Romolo che da lì dov’è il Pantheon ascese al cielo, tendono la mano agli dei dell’età di Augusto, a iniziare dal principe, che nel mausoleo hanno visto deposte le loro ceneri a riposare. C’è poi un altro dialogo fra due monumenti reso evidente dal modellino. La ricostruzione mostra che l’obelisco-meridiana eretto allora per raccontare le ore, i giorni, le feste e gli anni dell’età del principato è in asse con l’altare, un’ara elevata nel punto esatto nel quale lo gnomone della meridiana proiettava la sua ombra la sera del 23 settembre, compleanno d’Augusto. Il 23 di ogni settembre l’ombra di Augusto si proiettava sul cuore dell’altare della Pace, dell’altare di Livia.
Ma dove calava quel giorno il sole nell’altra direzione della retta che univa altare e obelisco? Tornai a casa e cominciai a sfogliare le carte con la ricostruzione della Roma di quegli anni per tracciare percorsi celesti del sole e sue proiezioni terrene: quella retta indica che il sole va a tramontare proprio dietro il monte Vaticano ogni 23 di settembre, esattamente dove appressandosi lo scadere del secolo aureo venne levata la croce con Pietro ad agonizzare e a morire a testa in giù e dove ora si trova la cupola michelangiolesca sulla tomba di quel santo e primo papa, pontefice massimo, come pontefice massimo di altri dei era stato Augusto. Pochi anni dopo l’inizio di quel secolo aureo, Augusto innalzò l’obelisco del tempo e l’altare della Pace su quella terra; pochi anni prima della fine di quel secolo Pietro la fecondò, quella terra, finendo a capo in giù su una croce, il tutto a poche centinaia di metri di distanza. Suggestioni e contaminazioni.
Fu il Senato a decidere l’elevazione di un altare alla dea Pace. A raccontarcelo è lo stesso Augusto nelle Res gestae, l’autobiografia che il principe dettò l’anno prima di morire e nella quale inserì ogni atto della sua vita che lui ritenne degno di nota e obliò le altre azioni, sconvenienti o inconsistenti che fossero, perché nulla di quella storia restasse inquinato. Nel testo, scritto per essere inciso su lastre di bronzo da mettere all’ingresso del suo mausoleo romano a tumulazione avvenuta, si legge: «Quando tornai a Roma dalla Spagna e dalla Gallia, sotto il consolato di Tiberio Nerone e di Publio Quintilio, compiute felicemente delle imprese in quelle province, il Senato decretò che si dovesse consacrare per il mio ritorno l’Ara della Pace Augusta, prossima al campo Marzio, e dispose che in essa i magistrati e i sacerdoti e le vergini vestali ogni anno celebrassero un sacrificio».
Siamo dunque nell’anno 13 avanti Cristo. L’altare viene fatto erigere nel campo Marzio, nell’area nella quale Augusto ha già elevato il suo mausoleo e progettato di costruire il nuovo orologio che detterà il tempo della nuova era. Quell’orologio viene originariamente pensato il 23 settembre del 13 avanti Cristo, giorno del cinquantesimo compleanno di Augusto. Cesare Ottaviano stabilisce che l’Ara vada posizionata esattamente dove al tramonto di quel giorno anniversario della sua nascita si dirige l’ombra della meridiana. Siamo a pochi passi dalla via Lata, la strada che collega il foro alla via Flaminia uscendo dalla città verso nord e che accompagna e delimita – sull’altro lato ci pensa il Tevere a segnare il confine – tutto il campo Marzio.
Inizialmente l’altare, innalzato da terra, è circondato e protetto da una semplice staccionata in legno, ma ben presto viene deciso di sostituire quel povero recinto precario con uno più consono e duraturo, in marmo riccamente e perennemente adornato e colorato. Ma non ci sarà nulla di più precario – e nel racconto di questa precarietà sta buona parte della nostra storia – di quella apparente perennità. La parte laterale superiore del nuovo recinto ospiterà su entrambi i lati esterni la raffigurazione della processione per il primo dei sacrifici celebrati su quell’Ara, la prima processione, svoltasi poche settimane dopo la deliberazione del Senato. Una processione che si incammina pochi mesi prima di quando Augusto sarà insignito anche della carica sacerdotale di pontefice massimo.
La processione rappresenta i magistrati, i sacerdoti e le vestali, come aveva stabilito lo stesso Senato, ma nel suo lento incedere diviene una sacra e solenne sfilata della famiglia del principe, immortalata così come era già grande e numerosa sul finire del 13 avanti Cristo. Il tempo sul marmo è fermato a quella data, anche se i lavori di edificazione della complessa opera, per quanto non di grandi dimensioni – appena 11 metri per 12 circa, cioè 40 piedi romani di fronte per 36 piedi di profondità –, richiederanno ancora oltre un triennio per essere completati.
Ma quali sono i volti e le gerarchie della famiglia in quell’anno? Le fotografie sono fatte per consegnarci a distanza l’immagine cristallizzata in un’ora definita del tempo. Quell’immagine è stata però manomessa nei secoli, alcune volte volontariamente o per sfregio, spesso involontariamente, altre volte l’hanno manomessa nella sua struttura originaria proprio nel tentativo opposto di preservarla. Così quello che doveva essere immobile e scolpito nel marmo è divenuto improvvisamente mobile e fragile, come dune che si spostano nella notte e col favor delle tenebre nel deserto; talvolta celando misteri, talaltra svelando segreti, ma con l’impalpabilità di fuochi fatui, lampi che scompaiono nella notte. Troppe domande rimangono sospese. Altre sembrano avere risposte evidenti, che svaniscono e ricompaiono sempre diverse, con il cangiare dei colori, proiettati dall’esterno, del giorno e della notte.
Già nella sua concezione originaria il monumento è celebrativo della famiglia del principe che si era in quegli anni strutturata e che, evidentemente, secondo Augusto, era pronta per essere rappresentata in maniera definitiva e per essere affidata per sempre alla storia e stesa come un’ombra sul futuro.
Un’ombra, come quelle di Facondo Novio, il matematico egiziano che studiava le ombre del sole e l’asse della terra per fare diventare meridiane i suoi obelischi. Una famiglia già solidamente in grado di garantire al capo stesso una successione prospera e duratura, e vita eterna all’impero. Una fecondità protetta da Giunone Lucina, dea delle nascite e delle partorienti, già celebrata nelle traversie di Enea raccontate da Virgilio o nell’annuncio del secolo d’oro fatto da Orazio. Una celebrazione, quella della Pace augustea, la cui potente ritualità è andata svanendo nel tempo, scomparsa nelle viscere della terra poi riaffiorata alla luce del sole e riapparsa ai nostri occhi grazie agli intrighi mercenari di un cardinale rinascimentale di Santa Romana Chiesa. E grazie ai racconti di scavi alla ricerca di altre tracce di quella processione fatti alle soglie del Novecento da un ingegnere e archeologo curioso e sapiente, su incarico del ministero dell’Istruzione, governo del Regno d’Italia. Una storia densa di misteri, affollata di tanti racconti come quello che narra l’agitarsi di lucertole e ranocchie sulla pietra dei monumenti o quell’altro sull’eterno germogliare di nuovi frutti grazie all’opera di contadini sapienti. Storie che hanno per protagonisti tanti piccoli e grandi personaggi pronti a prenderci per mano attraversando secoli e continenti e a raccontarci una storia.
La storia di quei misteri, i misteri dell’Ara Pacis.
Roma, 19 luglio 2017
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