Hokusai racconta, in un celebre scritto di suo pugno, di aver iniziato a disegnare all’età di cinque anni. La sua carriera “ufficiale” da pittore inizia però a diciannove
anni quando entra nella bottega di Katsukawa Shunshō, uno dei massimi pittori dell’ukiyōe attivo nella seconda metà del Settecento. Qui Hokusai, che nella realtà si chiamava Tokitarō, riceve il suo primo nome da pittore direttamente dal suo maestro. Da questo momento in poi si chiamerà e firmerà le sue opere con il nome di Shunrō.
Nel corso della sua lunga vita di uomo e di artista, il maestro più conosciuto della pittura giapponese cambierà il nome moltissime altre volte, alcuni gli riconoscono almeno una trentina di nomi diversi, ma cinque di essi segnano i passaggi fondamentali, momenti di trasformazione profonda dell’arte, trasformazione che non riguarderà solo le modalità pittoriche vere e proprie, a esempio la maturità e la sicurezza proprio nel segno grafico o l’uso del colore, ma riguarderà la maniera del maestro di guardare alla realtà che lo circonda e le modalità con cui rappresentarla.
La mostra che l’Ara Pacis dedica al grande maestro della pittura giapponese prende in considerazione soprattutto il periodo che va dalla fine del Settecento alla morte del pittore avvenuta nel 1840, periodo durante il quale egli firmerà le sue opere principalmente con i nomi di Hokusai, Taito, Iitsu e Manji.
Quando Hokusai sceglie per se questo nome inizia la sua fase di maturità artistica che si traduce da un lato in un sempre più profondo studio psicologico della figura umana e animale, a dispetto di quanto la pittura tradizionale giapponese aveva fatto fino a quel momento, e dall’altro nell’uso sempre più consapevole della prospettiva occidentale nella composizione delle immagini di paesaggio. Un’altra caratteristica di questo periodo è lo stretto rapporto che Hokusai tesse con i circoli letterari che trapela attraverso la ricca produzione di surimono, ovvero piccole xilografie commissionate da privati in occasioni particolari, ad esempio in occasione di concorsi di poesia o d’inizio del nuovo anno, dall’elevatissima qualità di stampa, e all’illustrazione di libri.
Questo interesse per il mondo letterario determinerà una svolta tematica nell’arte di Hokusai: egli infatti smetterà quasi del tutto di dedicarsi alla ritrattistica, che era uno dei filoni tipici dell’ukiyōe, per dedicarsi alla produzione di immagini per libri di letteratura.
Questa scelta indica quanto l’uomo semplice, che nella sua lunga vita avrà ripetutamente problemi economici, si troverà spesso in ristrettezze e vivrà gran parte della sua vita insieme alla gente più semplice di Edo, convivesse con l’artista estremamente raffinato e colto.
Della sua abilità tecnica, così come della sua cultura e della sua raffinatezza d’altra parte Hokusai era estremamente consapevole, tanto da scrivere sulla porta del suo studio, con grande ironia: “Hachiemon non dipinge ventagli e non disegna modelli per gli allievi”. Dove Hachiemon è un altro dei suoi tanti soprannomi.
L’ironia è poi l’altra grande caratteristica dell’uomo Hokusai che fluisce, attraverso l’artista, nella sua opera. Guardare nel dettaglio una xilografia o un dipinto di Hokusai permette non solo di vedere narrati tanti momenti della vita dei Giapponesi nel passaggio tra Settecento e Ottocento, così come alcune delle loro tradizioni, come la pesca dei molluschi da parte delle ama o le abluzioni rituali nelle cascate, ma anche di vedere spuntare a tratti proprio l’ironia di Hokusai che, da profondo conoscitore della condizione di vita dei più umili, descrive e sottolinea la drammaticità e l’ineluttabilità di questa proprio attraverso lo strumento della leggerezza.
Nella xilografia ispirata a una delle poesie di Sangi Takamura, Hokusai racconta l’attività delle ama con un sentimento che si potrebbe definire contemporaneamente di amore e rispetto, ma che nel medesimo tempo ci strappa un sorriso. Al piccolo gruppo di donne in attesa di tuffarsi sulle rocce in primo piano, il grande maestro giapponese contrappone quelle che sono in piena attività: di una, tra le onde, spunta una mano piena già dell’ostrica appena pescata, di un’altra, che si sta or ora immergendo, spuntano i piedi, di un’altra ancora la testa, con i capelli racconti in una morbida acconciatura che richiama le onde del mare. Queste immagini delle ama, una volta arrivate in occidente, contribuirono a creare l’immagine delle ama come donne bellissime e sensuali che venne poi esaltata a esempio dal lavoro fotografico di Fosco Maraini.
Nella xilografia “Il Pino a Cuscino a Aoyama”, dove è raffigurato il famoso pino del giardino Ryuganji, il tempio zen edificato a Harajuku, in primo piano davanti al pino a cuscino, così chiamato per la sua forma tondeggiante, alcuni uomini parlano tra loro mentre fanno un pic nic. Un altro uomo indica a un bambino, che tiene per mano, il monte Fuji lontano, mentre insieme percorrono la strada che li condurrà sulla cima della collinetta. A ben guardare sulla sinistra, sotto la densa chioma del pino spuntano la gamba e la ramazza del giardiniere.
Sebbene Hokusai appaia agli occhi del mondo occidentale un pittore classico giapponese egli, nella realtà, condivide ben poco di questa classicità tanto da essere considerato ben presto un kijin, ovvero un artista eccentrico.
Questa definizione gli fu cucita addosso quando, una volta assunto il nome di Hokusai, il grande maestro della pittura giapponese prese l’abitudine di realizzare performance artistiche. Tra le performance artistiche quella più frequentemente riportata, nella vasta letteratura che lo riguarda, è quella che egli realizzò il 13° giorno del 4° mese del 1804: su un rotolo di carta di circa trecentocinquanta metri quadrati, l’artista prese a tracciare segni con una scopa di canne che inzuppava in un mastello colmo d’inchiostro. Montato il dipinto su un’impalcatura, apparve, tra lo stupore del pubblico, un gigantesco busto di Daruma, il patriarca dello zen.
Con queste performance Hokusai anticipava di molti anni le performance artistiche di Pollock e di altri, ma con un senso completamente diverso: Hokusai per certi versi si sente un tramite, un mezzo attraverso cui l’arte fluisce per mettere in contatto la dimensione sacra/sovranaturale con la componente umana e la realtà naturale. In fondo tutta l’opera, anche quella più nota di Hokusai intitolata Le Trentasei Vedute del Monte Fuji, ha proprio questo significato: mostrare l’imperturbabilità del sacro, rappresentato dal Monte Fuji, in rapporto alla fatica dell’uomo che è in armonia con la natura.
Ma quale kijin le performance non erano le uniche “stranezze” di Hokusai. Come si è visto, anche dalla scritta che aveva apposto alla porta della sua bottega, Hokusai non si curava di vivere in maniera convenzionale, di compiacere. Tutta la sua arte è arte che in qualche modo, nello scorrere del tempo e nel passare da una fase all’altra, da un nome all’altro, si libera dalle convenzioni, non solo pittoriche irreggimentate dalle scuole come quella dell’ukiyōe. E’ continua ricerca dell’artista e dell’uomo che lentamente modifica la sua visione del mondo e tende a coglierne sempre più l’essenzialità. E’ forse anche per questo che nel tempo Hokusai sposterà sempre più la sua attenzione sulla natura e sugli animali che lentamente tendono ad assumere una fisionomia quasi umana.
Inoltre Hokusai non dipingerà mai per il governo, ma la sua vasta produzione di xilografie e d’illustrazioni per libri indica proprio la precisa scelta di vivere dei proventi della propria arte, liberi, per quanto più possibile, da forme di protettorato o di mecenatismo.
Intorno al 1810 Hokusai lascia il suo nome a uno dei suoi allievi e continuerà il suo percorso, la sua evoluzione artistica con il nome di Taito. Con questo nome Hokusai firmerà la maggior parte dei manuali di pittura e i famosi Manga, illustrazioni a stampa realizzate per offrire a pittori, dilettanti e artigiani una guida dettagliata dei soggetti più disparati, nonché trasmettere il proprio stile agli allievi. L’opera è così monumentale che è impossibile ascriverla a una sola categoria. Vengono disegnate in bianco e nero e colorate in una leggera sfumatura di rosso indifferentemente figure umane di lottatori o guerrieri, personaggi grotteschi o comici, fiori o animali, schizzi di paesaggio, disegni tecnici, elementi architettonici oggetti di uso quotidiano o comuni.
Ma nel periodo Taito altri aspetti della pittura del grande maestro subiscono delle trasformazioni. Tra questi, ad esempio, la rappresentazione della donna, per lo più oiran, ovvero cortigiane, cambia drasticamente. La figura diviene insieme monumentale e sensuale e questa nuova visione del femminile diventerà il mezzo attraverso il quale Hokusai approda alle stampe erotiche, shunga, tra cui la famosissima immagine “Il sogno della sposa del pescatore”, forse la più nota immagine erotica giapponese che sconvolse il mondo occidentale agli inizi dell’Ottocento.
Il sessantesimo anno di vita è nella tradizione giapponese un momento molto importante poiché si compie un ciclo completo dei segni zodiacali. In corrispondenza di questo momento Hokusai prende il nome di Iitsu. Nel periodo Iitsu si realizza il grande sviluppo del tema del paesaggio e della natura, mentre lo studio della psicologia dell’uomo resta un tema secondario e forse legato più al mondo animale. Con il nome di Iitsu, Hokusai firma la serie de Le Trentasei Vedute del Monte Fuji. Alcune di esse, quale il così detto Fuji rosso o la Grande onda, diventeranno famosissime in Occidente e influenzeranno l’arte impressionista. Tra i molti esempi d’influenza che Hokusai ha sull’arte occidentale del primo Ottocento si può ricordare che Monet interpreterà le due opere di Hokusai Le Trentasei Vedute del Monte Fuji e la successiva serie Le Cento Vedute del Monte Fuji quali diari quotidiani per immagini e s’ispirerà proprio a questa idea per realizzare il suo diario quotidiano fatto di ninfee. Quelle ninfee che crescevano nel giardino giapponese che non a caso si era fatto costruire nella sua casa di Giverny.
Inoltre mai la natura sarà così protagonista nell’arte giapponese come nella fase Taito della pittura di Hokusai. E’ una natura forte che spesso si oppone alle azioni degli uomini che nulla possono contro di essa: le tre imbarcazioni che lottano contro le onde nella xilografia della Grande Onda, il vento che fa volare i fogli dalle mani della donna in primo piano e la parte superiore del cappello di uno dei viandanti nella xilografia Ejiri Nella Provincia di Suruga.
Negli ultimi quindici anni della sua vita Hokusai chiamerà se stesso Manji, e con questo nome firmerà soprattutto opere di pittura vere e proprie. La xilografia sarà infatti una produzione limitatissima di questo periodo. Nel colofone del primo volume dell’opera intitolata Le Cento Vedute del Monte Fuji, il grande maestro spiega il senso di questo nuovo nome e soprattutto lascerà il suo testamento spirituale. “…Dall’età di cinque anni ho la mania di copiare la forma delle cose, e dai cinquant’anni pubblico spesso disegni, tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla di notevole. A settantatré ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Se posso esprimere un desiderio, prego quelli tra lor signori che godranno di lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato. Dichiarato da Manji il vecchio pazzo per la pittura”.
La mostra allestita all’Ara Pacis è però occasione per conoscere un altro artista contemporaneo di Hokusai, di cui la biografia ancora oggi risulta poco nota: Keisai Eisen. Anche lui nasce a Edo alla fine del Settecento, in una famiglia di samurai di basso rango. Sarà suo padre celebre e dotato calligrafo a introdurlo nel mondo dell’arte e della poesia. Diviene pittore anche lui come Hokusai intorno ai venti anni, costretto, dalla morte dei suoi genitori e della matrigna, avvenute in un arco di tempo piccolo, a occuparsi delle tre sorelle.
Seguirà la via tracciata da Hokusai dedicandosi al tema dei ritratti delle beltà femminili, bijinga, tema tipico dell’ukiyōe, ma staccandosi anch’egli dall’immagine classica della donna imposta dalla tradizione pittorica giapponese. La donna di Eisen non è mai una donna idealizzata, ma una figura dal fisico imponente e dalla corporatura robusta, concreta e vitale. Dagli abiti spuntano spesso dei piedi nudi muscolosi e concreti, fatti a posta per stare con “i piedi ben piantati per terra”.
Diviene in breve tempo il cantore delle oiran, delle cortigiane, del quartiere di Yoshiwara; ne descrive minuziosamente i tessuti dei kimono e dei soprakimono, le ricche ed imponenti acconciature, il trucco. D’altra parte avendo tre sorelle, avendo fatto per un breve periodo il venditore di cosmetici e soprattutto collaborando con il cognato alla gestione di una casa di piacere, Eisen aveva una conoscenza diretta e approfondita del mondo femminile in generale e di quello delle cortigiane in particolare.
Delle donne Eisen riesce a cogliere la psicologia e ne rimanda, nelle sue xilografie così come nelle sue pitture, la sensualità e l’erotismo, introducendo un elemento di profonda rottura nel mondo dell’arte dell’ukiyōe. Nonostante la concretezza della figura femminile, il mondo delle oiran di cui Eisen parla, è un mondo che in qualche misura però non è reale poiché resta confinato in una dimensione, quella del lusso, che è comune a un numero molto ristretto di persone. Pochi infatti a Edo si potevano permettere di frequentare il quartiere di Yoshiwara e soprattutto di frequentare le oiran e le case del te, la maggior parte degli abitanti di Edo si limitava a fantasticare su queste bellezze conferendo a queste donne e alla loro vita un che di magico. Per questo motivo la pittura di Eisen si pone in antitesi con quanto, quasi in contemporanea fa Hokusai, che invece parla proprio e pressoché continuamente del mondo dei più semplici, dei contadini nelle piantagioni di riso o di te, dei pescatori, degli artigiani, ecc…, ovvero della concretezza della vita, che lascia poco spazio al sogno.
Anche Eisen influì sul mondo della pittura occidentale con le immagini delle sue beltà femminili, ma non solo. Una xilografia di Eisen, che mostrava una delle più note oiran di Yoshiwara, fu utilizzata come immagine femminile sulla copertina di “Paris Illustré. Le Japon” nel 1886 e ripresa più volte nel 1887 da Van Gogh, come soggetto singolo ma non solo. In particolare nel dipinto di Van Gogh Ritratto di père Tanguy sullo sfondo compare una collezione di xilografie giapponesi, nelle quali si distinguono chiaramente due oiran di Eisen, quella sulla destra è proprio quella utilizzata per la copertina di Paris Illustré e una veduta del Fuji che invece si richiama potentemente alle vedute di Hokusai. D’altra parte il fratello Theo era un collezionista di xilografie giapponesi e Van Gogh certamente ebbe quindi familiarità con esse.
Nella copertina di “Paris Illustré. Le Japon” l’abito è il vero protagonista così che essa può essere considerata la prima vera copertina della storia della moda.
Il continuo confronto con le immagini femminili di Eisen, e di altri pittori giapponesi, che fu possibile a Parigi, grazie all’Esposizione Universale che si tenne proprio in questa città nel 1878, che consentì l’incontro diretto tra la cultura occidentale e
quella orientale, e l’apertura del porto giapponese di Yokohama agli scambi con l’estero, nel 1854, grazie alla quale la seta aveva ritrovato la sua via “storica”, tornando a muoversi da oriente a occidente, indusse in occidente, ma soprattutto a Parigi il fenomeno del “giapponismo”.
Il giapponismo, ovvero l’influenza dell’arte e della cultura giapponese su quella occidentale, non riguardò però solo la pittura, ma interessò anche altri ambiti, quale il mondo dell’alta moda di Parigi, che nasce proprio in questi anni.
Sotto lo stimolo delle immagini delle donne di Eisen e degli abiti da loro indossati il mondo dell’alta moda francese introduce, per la realizzazione di abiti femminili di lusso, l’uso di nuovi colori come il porpora e il blu e anche di nuovi decori per le stoffe, come il fiore di ciliegio e il crisantemo, con un effetto decorativo completamente diverso, non solo perché questi colori e questi decori non si erano mai visti nella moda occidentale, ma anche perché mentre l’abito giapponese prevedeva l’uso di metri e metri di stoffa, l’abito occidentale utilizza ormai una manifattura più essenziale.
Le immagini create da Eisen inducono poi anche un altro fenomeno: diviene una moda indossare un kimono. Di nuovo questa è una moda costosa che pochi si possono permettere, non solo per i costi dell’abito in se, ma anche perché è impossibile indossare un kimono da soli. A seguire un altro fenomeno si attesta. Sulla scorta di questa moda del “vestire alla giapponese” le manifatture Iida Takashimaya e Mitsukoshi realizzano cappotti o abiti da casa che mantengono la linea giapponese ma si adattano al gusto europeo.
Da questo momento in poi, e siamo nella seconda metà dell’Ottocento, il Giappone, i suoi disegni e i suoi colori, entrano nelle creazioni moda occidentale e non se ne distaccheranno mai più, tanto che nel 1970 uno stilista giapponese, Kenzo Takada, si trasferirà da Tokyo a Parigi dove aprirà la sua prima boutique. Il successo starà proprio nel fascino della sua produzione che coniuga abilmente la cultura orientale con quella occidentale.
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