L’Isola Tiberina, un territorio di modeste proporzioni 300 metri di lunghezza per 80 di larghezza, è tuttavia trasfigurata dalla leggenda: essa sarebbe nata sui depositi di grano dei Tarquini gettati nel Tevere dai Romani in rivolta perché volevano la loro
cacciata, o, per la sua forma, da una nave incagliata, prescelta dal serpente di Esculapio, trasformazione animale di Esculapio stesso, per arrivare esattamente in quel punto del Tevere, e far costruire proprio lì ai Romani un tempio dedicato al dio guaritore più importante della cultura greca.
Sollecitati proprio da questo racconto misterico l’isola, in realtà originatasi dall’azione erosiva esercitata dal Tevere e da due o tre suoi affluenti sulle propaggini più estreme del colle Capitolino, fu foggiata in antico a forma di trireme – se ne vedono alcuni ruderi della poppa sul fianco settentrionale, retrostante alla chiesa di San Bartolomeo – e rimase consacrata al dio della medicina Esculapio, il cui culto fu introdotto a Roma nel 291 avanti Cristo, e a cui fu dedicato un tempio costruito effettivamente proprio sull’isola.
Il tempio fungeva da vero e proprio ospedale, come testimoniano numerose iscrizioni che parlano di guarigioni miracolose avvenute presso il tempio, i numerosi ex voto e le dediche alla divinità. Gli ammalati venivano curati soprattutto con l’acqua.
Il tempio di Esculapio non era però l’unico che era stato costruito sull’Isola Tiberina, poiché sono stati identificati i resti del tempio di Veiove, di Fauno e il tempio Tiberino dedicato al dio Tevere.
Il carattere sacro e quello legato alla cura degli infermi sono due aspetti dell’Isola Tiberina che permangono nel corso del passare del tempo. Così, sul tempio di Esculapio, in epoca cristiana, fu edificato, sin dall’anno Mille, un santuario – ricovero per prestare aiuto e cure ai poveri.
Nella seconda metà del Cinquecento, la struttura fu trasformata in “fabbrica della salute” ovvero in un’organizzazione basata sull’opera non più meramente assistenziale ma in cui operavano medici e infermieri. Nel 1585, fra Pietro Soriano grazie all’intervento di papa Gregorio XIII, vi fondò una confraternita di soccorso ai malati secondo la regola di San Giovanni di Dio, chiamati popolarmente Fatebenefratelli, che introdusse innovazioni sanitarie particolarmente rivoluzionarie al tempo, come ad esempio l’allettamento di ciascun paziente in un singolo letto a lui riservato e la suddivisione dei malati in relativi reparti specializzati a seconda della loro patologia. La struttura fu già molto importante durante l’epidemia a Roma della peste del 1558, ma lo fu in particolare durante l’epidemia di colera, nel 1832, per l’efficacia delle cure prestate alla popolazione. Nonostante l’ospedale avesse mantenuto la sua autonomia anche sotto la dominazione francese, a seguito degli eventi dopo la breccia di Porta Pia, nel 1878 fu sottratto all’ordine religioso dei Fatebenefratelli, per tornarvi nel 1892. Alla fine dell’Ottocento l’ospedale fu rinforzato contro le piene del Tevere con una serie di muraglioni di contenimento. Ma è soprattutto dopo gli ammodernamenti e gli ampliamenti del 1992 che l’ospedale acquisì le caratteristiche di una moderna struttura sanitaria. Il nome “San Giovanni Calibita Fatebenefratelli” è stato assegnato all’ospedale nel 1972.
La vocazione medica dell’Isola è confermata anche dalla presenza dell’Ospedale Israelitico, proprio accanto alla chiesa di San Bartolomeo. Le origini di questo secondo ospedale risalgono al 1600 e il suo scopo fu di provvedere un minimo di assistenza sanitaria agli ebrei di Roma, privati, dalle norme sulla reclusione nel ghetto, dell’accesso agli ospedali di allora. Dopo il 1884 l’amministrazione comunale decise di dare in concessione alla comunità ebraica per un ospedale, il vecchio convento vicino alla chiesa di San Bartolomeo.
Nel 1834 durante l’epidemia di colera le autorità del tempo, temendo la diffusione del contagio, concessero solo temporaneamente l’istituzione di un lazzaretto per gli ebrei di Roma, sito nel Palazzo Cenci.
L’Isola Tiberina in antico era accompagnata da un’isola più piccola, più vicina al Ghetto Ebraico, ancora presente nella mappa di Rodolfo Lanciani tracciata nel 1893 poco prima della costruzione dei muraglioni che la faranno sparire.
L’Isola Tiberina ospitò le prime popolazioni italiche che si attestavano sui colli della Riva Sinistra del Tevere e ne condivise le sorti. Essa fu perciò da subito inclusa in questa parte della città, rimanendo ancora oggi esclusa dal Trans Tiberim, visto che anche amministrativamente essa appartiene al Rione Ripa che, all’altezza del Teatro di Marcello, prosegue lungo la sponda tiberina fino all’Aventino e ai limiti del Testaccio.
La forma di nave trireme fu accentuata ponendo un obelisco al centro dell’isola con funzione di albero maestro, successivamente sostituita da una colonna con la croce. Dell’obelisco sono conservati dei frammenti al Museo Nazionale di Napoli.
La colonna invece fu detta “infame” perché ad essa era affissa, il 27 agosto di ogni anno, una tabella nella quale venivano indicati i nomi di coloro che non partecipavano alla messa nel giorno di Pasqua.
L’uso perdurò fino al 1870 e tra i nomi illustri che finirono sulla colonna infame ci fu, nel 1834, quello del pittore di Trastevere Bartolomeo Pinelli. Questi si offese molto non tanto perché il suo nome era apparso nella lista dei miscredenti, quanto perché nella medesima lista egli era indicato quale “miniaturista” e non quale “incisore”.
Un po’ di tempo dopo un carro andò a sbattere contro la colonna che per questo si spezzò in più parti. Solo nel 1869, per volere di Pio IX, la colonna fu sostituita con quella attuale.
Per accedere all’Isola Tiberina, si attraversano due antichissimi ponti: il Fabricio e il Cestio. I due ponti sono i più antichi di Roma che giungono non modificati e ancora in uso fino a noi. Il Ponte Fabricio è il più antico ponte di Roma giunto fino a noi. L’attuale, costruito nel 62 avanti Cristo da Lucius Fabricius, curator viarum come è detto dalle due iscrizioni poste sulle due grandi arcate, sostituì uno in legno che lo precedette. Esso è detto anche “dei Quattro Capi”, grazie alle erme quadricipiti inserite nella balaustra, simulacri di Giano Quadrifronte, e che probabilmente
avevano il ruolo di sorreggere la balaustra in bronzo fatta rimuovere dal papa Innocenzo XI. Nel Medioevo il ponte Fabricio fu anche detto “Pons Judeorum” perché prossimo alla riva abitata dagli ebrei e sulla quale venne in seguito delimitato il Ghetto.
Il ponte Cestio che oggi può essere attraversato è invece stato costruito nel 370 dopo Cristo e ne sostituisce uno a due fornici che risaliva al 46 avanti Cristo. Nel Seicento il ponte Cestio era detto “ponte ferrato” a causa delle numerose catene di ferro che tenevano ancorato i molini presenti sul fiume.
Sulla sinistra de ponte Fabricio si leva la tozza torre che fu prima dei Pierleoni – quando vi stette Matilde di Canossa – per passare, in seguito, i Caetani che vi risiedettero fino al XV secolo.
In fondo ad una piazzetta tranquilla si innalza la chiesa di San Bartolomeo, eretta alla fine del X secolo dall’imperatore germanico Ottone III e rimodernata nel 1624, dopo la piena rovinosa del 1557. La facciata è notevole per la ricerca di movimento mediante la contrapposizione di una zona inferiore a una superiore con finestre sormontate da un timpano molto pronunciato. All’interno, va segnalata la Cappella dell’Università dei Mugnai: si riferisce all’attività dei mulini fluviali a ruota che, fino al 1870, si addensavano soprattutto nei pressi dell’Isola Tiberina. E, nella navata destra, la Cappellina di San Carlo decorata da Antonio Carracci. Il bel campanile del 1113 è uno dei più armoniosi campanili romanici di Roma.
Attraversato il Ponte Fabricio e un tratto del Lungotevere de’ Cenci, ci s’immette nel Ghetto ebraico, luogo di vicende dolorose degli ebrei romani.
A Roma, come altrove, gli ebrei avevano vissuto sempre in una comunità riunita in ambito ristretto: nell’antichità risiedevano a Trastevere e, successivamente, nel XIII e XIV secolo si erano raccolti al Rione Sant’Angelo, presso l’Isola Tiberina, ricca allora di attività mercantili.
Il 12 luglio del 1555 il papa Paolo IV Carafa, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani e ordinò l’istituzione del ghetto, chiamato anche “serraglio degli ebrei”: Identificò a questo scopo una regione sempre nel rione Sant’Angelo, accanto al Teatro Marcello. Nella bolla papale oltre a specificare che gli ebrei dovevano risiedere nel ghetto e che nel ghetto non ci potesse essere più di una sinagoga, veniva anche deciso che essi dovessero portare un distintivo di “colore glauco” che li rendesse facilmente riconoscibili. Per gli uomini questo segno di riconoscimento fu un cappello giallo, per le donne una pezza di stoffa da portare sopra gli abiti. Molte delle restrizioni fissate dalla bolla di Paolo IV saranno poi riprese dalle leggi razziali emanate in Italia durante il Governo Fascista nel 1938. Inoltre l’obbligo a risiedere dentro il quartiere che, fino al 1848, possedeva delle vere e proprie mura con porte che erano aperte al mattino e richiuse la sera, fece sì che gli edifici nel tempo divenissero sempre più alti, collegati tra loro da ponti che facilitavano la fuga in occasione delle “incursioni” dei gentili, come ad esempio quelle che avvenivano durante il Carnevale romano. Il ghetto aveva quindi per lati maggiori il Tevere e il Portico d’Ottavia, mentre uno dei lati minori attraversava la piazza Giudea e l’altro raggiungeva dal fiume la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria.
Dall’emissione della bolla papale l’atteggiamento dei papi fu altalenante; alcuni papi cercarono di alleviare le condizioni di vita degli ebrei romani, altri papi inasprirono l’atteggiamento nei confronti della comunità. Gregorio XIII, che fu papa alla fine del Cinquecento, ebbe un atteggiamento ambivalente: se da un lato cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica dall’altro la vessò istituendo le “prediche coatte”. Queste si svolgevano di sabato e avevano l’obiettivo di indurre gli Ebrei di Roma alla conversione. Le prediche coatte si tennero su di un arco molto lungo, erano tenute in luoghi diversi tra i quali la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, la chiesa di San Gregorio al Ponte Quattro Capi e nel Tempietto del Carmelo.
Sisto V, Felice Peretti, fu un papa che cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica permettendo anche un ampliamento del ghetto, che arrivò a occupare una superficie di tre ettari. Un simile atteggiamento di maggiore disponibilità fu assunto anche da Paolo V Borghese, papa nella prima metà del 1600, il quale per sancire in qualche maniera il rispetto che la chiesa di Roma avrebbe portato alla comunità ebraica fece collocare nella piazza delle Scole una fontana nella quale il motivo araldico del drago alato dei Borghese si univa al candelabro con i sette bracci. Altri papi come Pio V e Clemente VIII furono decisamente più intransigenti.
Uno spiraglio alle condizioni di estrema povertà della comunità ebraica si aprì una prima volta a seguito dell’occupazione francese di Roma del 1798 e la conseguente proclamazione della Prima Repubblica Romana, quando le porte del ghetto furono finalmente aperte e gli ebrei poterono uscire. In piazza delle Cinque Scole per sancire questo momento fu eretto un “albero della libertà”, ma la libertà durò veramente poco visto che meno di due anni dopo, con la cacciata delle truppe francesi, le condizioni di vita tornarono ad essere quelle di sempre. Di nuovo nel 1848 sembrò che le cose per la comunità ebraica potessero cambiare. Infatti Pio IX
per un certo periodo del suo pontificato sembrò ispirarsi alle idee repubblicane, e questo per gli ebrei si tradusse nel fatto che le mura del ghetto vennero abbattute. La libertà sembrò diventare ancora più concreta durante la Repubblica Romana del 1849, ma il ritorno del papa dopo la sconfitta della Repubblica spense di nuovo le speranze. Pio IX inasprito da quanto era accaduto, considerando la comunità ebraica in parte responsabile dell’esperienza della Repubblica, emanò leggi repressive nei confronti della comunità che riguardarono anche la libertà con cui gli ebrei potevano muoversi all’interno della città, sebbene le mura del ghetto non esistessero più. Si dovrà attendere l’unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale per avere un’equiparazione reale tra gli ebrei e gli altri romani. Ma anche questa sarà una parentesi che dal 1871 durerà in buona sostanza fino al 1938, quando Mussolini sceglierà di seguire Hitler sulla scelta discriminatoria nei confronti degli ebrei. L’episodio certamente più grave della storia della comunità ebraica a Roma sarà quello che si compirà il 16 ottobre del 1943 durante l’occupazione nazista della città. In questa data i Tedeschi, al comando di Kappler, in poche ore alle prime luci del mattino rastrellarono e deportarono ad Aschwitz milleduecentocinquantanove Ebrei di tutte le età. Di questi ritornarono a Roma in sedici di cui quindici uomini e una sola donna Settimia Spizzichino, che da subito scelse di testimoniare l’orrore che aveva vissuto.
Dalla storia tragica degli Ebrei romani alla lieta nota del restauro di uno dei
monumenti più importanti che proprio al Ghetto fanno bella mostra di sé: il Portico di Ottavia, restituito da poco tempo all’ammirazione dei romani e dei visitatori. Si tratta del grandissimo portico quadrato che Augusto fece ricostruire, tra il 33 e il 23 avanti Cristo sul portico di Quinto Cecilio Metello Macedonico dedicandolo alla sorella Ottavia. All’interno del portico sorgevano due templi, quello di Giunone Regina e di Giove Statore, mentre facevano parte del portico stesso la biblioteca, che raccoglieva testi latini e greci, dedicata alla memoria di Marcello, figlio di Ottavia e la Curia Octaviae.
Nell’80 dopo Cristo il complesso subì danni in seguito ad un incendio e fu probabilmente restaurato da Domiziano. Ancora nel 203 dopo Cristo, il portico e i templi furono ricostruiti e nuovamente dedicati da Settimio Severo e Caracalla, dopo le distruzioni dovute a un altro incendio. A seguito del terremoto del 441 dopo Cristo le colonne del propileo d’ingresso vennero sostituite dall’arcata tuttora esistente. Intorno al 770, a partire dal propileo d’ingresso, fu edificata la chiesa di “San Paolo in summo circo”, detta poi Sant’Angelo in Pescheria.
La visita si conclude al Teatro di Marcello, i cui imponenti resti mostrano l’affascinante stratificazione di successive edificazioni nelle varie epoche. Il teatro, iniziato da Cesare, fu compiuto da Augusto tra il 13 e l’11 avanti Cristo e dedicato alla memoria dell’amatissimo Marco Claudio Marcello, suo nipote e genero prediletto, quest’ultimo era infatti figlio della sorella Ottavia e marito di sua figlia Giulia, morto non ancora ventenne nel 23 avanti Cristo e per il quale Virgilio scrisse i suoi famosi versi di rimpianto: «[…] Ohi, ragazzo degno di pianto: se mai rompessi i tuoi fati, tu resterai Marcello. Gettate gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e colmi l´anima del nipote almeno con questi doni e faccia un inutile regalo […]».
L’imponente e severo monumento, che non di rado fu preso a modello dagli artisti del Rinascimento, era costituito da due ordini di quarantuno arcate ciascuno, coronati da un attico; la cavea, che si apriva ove attualmente è il giardino di Palazzo Orsini, poteva contenere circa quindicimila spettatori.
Nell’era cristiana molti dei teatri romani caddero in disuso e questa sorte toccò anche al teatro Marcello, tanto che nel 370 parte del travertino della facciata che guardava verso il Tevere sembra che fu utilizzato per un restauro del ponte Cestio, mentre altro materiale di pertinenza della facciata si accumulava e veniva poi ricoperto dalle piene del Tevere stesso, dando origine a quello che oggi si chiama Monte Savello.
Nel Medioevo ciò che era ancora in piedi del teatro veniva trasformato in una fortezza che appartenne prima ai Pierleoni, poi ai Faffo e quindi ai Savelli che tra il 1523 e il 1527 vi fecero costruire da Baldassarre Peruzzi i due piani del palazzo, il quale acquistò così forma definitiva e nel 1712 passò agli Orsini.
Nell’area compresa tra il teatro di Marcello e il portico di Ottavia svettano le tre colonne angolari del tempio di Apollo Sosiano, eretto nel 433 avanti Cristo e rifatto nel 179 quando lo stesso dio viene indicato con l’appellativo di Apollo Medicus. Il nome Sosiano deriva invece dal nome del console Gaio Sosio che lo ricostruì, nel 34 avanti Cristo, forse a causa di un suo trionfo. I lavori furono interrotti a causa tra Ottaviano e Antonio, per riprendere l’anno dopo quando Augusto si riconciliò con Sosio.
Accanto a questo tempio infine sorgeva quello di Bellona, dea della guerra italica a cui fu dedicato il tempio nel 296 avanti Cristo. Il tempio si trovava fuori dal pomerium e in vicinanza delle mura, per questo motivo ospitò diverse riunioni del Senato quando a queste partecipavano personaggi stranieri, appartenenti ad ambascerie di altri popoli, o comandanti militari qualora essi fossero in armi ad esempio perchè dovevano partire per la guerra.
Roma, 26 marzo 2018
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