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  1. Santa Prassede. Il Giardino del Paradiso.

    Parallela a via Merulana, corre, prossima a Santa Maria Maggiore, via di Santa Prassede. Sulla destra, un muro e una porta anonima costituiscono l’ingresso alla chiesa di Santa Prassede, che conduce direttamente alla navata destra di un luogo di indicibile bellezza.

    Santa Prassede – Interno.

    Questa straordinaria testimonianza dell’ecclesia romana dell’Alto Medioevo si annuncia con un protiro a due colonne e timpano nella stretta e buia via di San Martino ai Monti, che è una parte dell’antica via Suburra. Vicina alla chiesa è pure l’alta casa – ogni secolo l’aggiunta di un piano – dove visse il secentesco pittore bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino.
    Pur rimaneggiata, la chiesa conserva il suo splendore di linee e colori: mosaici del secolo IX, pitture del XVI, cassettoni policromi del soffitto, bellissimo pavimento rifatto alla maniera dei Cosmati.
    E’ vero che si entra da un ingresso laterale, ma conviene portarsi subito al fondo della chiesa dove si apre un quadrato cortile che fece parte della navata principale della basilica paleocristiana e che divenne atrio nel rifacimento generale dell’edificio curato da papa Pasquale I nel secolo IX. La semplice facciata in mattoni è proprio quella che disegnò il papa Pasquale I e qui si trovano le colonne superstiti che probabilmente facevano parte della basilica sorta nel V secolo dopo Cristo e vi si apre uno scuro voltone che corrisponde all’ingresso principale.
    La tradizione vuole che proprio qui, dove oggi sorge la chiesa, la martire Prassede raccogliesse il sangue dei martiri caduti per la fede, in un pozzo. Il luogo è oggi indicato da una rota, un grosso disco, di porfido rosso, incastonato nel pavimento in stile cosmatesco. Questo pozzo cadeva nella estesa proprietà della famiglia di Prassede, e oggi gli studiosi tendono a collocare la casa di famiglia vera e propria in corrispondenza della vicina chiesa dedicata a Santa Pudenziana.

    Santa Pudenziana raccoglie il sangue dei martiri.

    La chiesa dedicata a santa Prassede ha origini molto antiche. E’ attestato che attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore sorsero molte chiese, tra cui, come riportato da una lapide del 491, un titulus Pudentis, temine con cui si indica il fatto che la casa del senatore cristiano Pudente, che si convertì tra i primi al cristianesimo grazie a San Pietro, fosse stata, in tutto o in parte, trasformata in luogo di culto cristiano. Sempre la tradizione vuole che, proprio qui trovasse ospitalità San Pietro, e che fu proprio quest’ultimo a somministrare il battesimo alle due figlie di Pudente: Prudenziana e Prassede.
    Pudente subì il martirio sotto Nerone, e, in seguito a ciò, Prassede e Pudenziana, con il consenso di Papa Pio I, fecero costruire, 142 – 145, un battistero per i nuovi cristiani all’interno della loro proprietà di famiglia. Le due sorelle, Pudenziana e Prassede, operarono, quindi, durante la persecuzione di Antonino Pio, e fu proprio questa loro attività a causare il loro martirio. Alla morte di Pudenziana, Prassede utilizzò il patrimonio della sua famiglia per costruire una chiesa sub titulo Praxedis. Nascose molti cristiani perseguitati, quando questi, furono scoperti e martirizzati, raccolse i corpi per seppellirli nel cimitero di Priscilla, sulla Via Salaria, dove anche lei trovò sepoltura insieme alla sorella e al padre. Il Liber pontificalis ci informa che papa Adriano I verso il 780 rinnovò completamente ciò che restava del titulus Praxedis.

    Il pavimento in stile cosmatesco della chiesa di Santa Pudenziana.

    La chiesa attuale venne completamente ricostruita nell’822 da papa Pasquale I, in occasione della traslazione dei resti di duemila martiri dalle catacombe, ormai definitivamente esposte alle impunite incursioni saracene nella campagna romana.
    Una scalinata portava all’atrio; qui si alzava la semplice facciata romanica quale ci appare oggi, salvo l’aggiunta dell’equilibrato portale collocato nel 1560 da san Carlo Borromeo, titolare della basilica.
    L’interno conserva sostanzialmente la foggia della chiesa del secolo IX, con le tre navate basilicali divise da antiche colonne di granito che reggono un architrave di spoglio, con l’arcone trionfale e l’abside luccicante di mosaici. Coppie di pilastri intercalati alle colonne sorreggono tre grandi archi trasversali aggiunti per rinforzo nel secolo XII e irrobustiti nel XVI, mentre sulle pareti della navata mediana grandi pannelli manieristici dal festoso colore raccontano le storie della Passione.
    Interessante è il pavimento in stile cosmatesco, realizzato nel corso di restauri condotti da Antonio Muñoz nel 1917. La fredda levigatezza del marmo segato a macchina e l’estrema precisione dei bordi delle pietruzze denunciano l’opera moderna, che è comunque di ottimo gusto per quanto attiene al disegno e alla scelta dei colori.

    Arcone dell’abside di Santa Praseede.

    Nel Settecento, il cardinale Ludovico Pico della Mirandola fece trasformare e ampliare il presbiterio occupando lo spazio del transetto e portando avanti l’ingresso della “confessione”. Questa ha nel fondo un antico affresco della Madonna Regina fra le Sante Prassede e Pudenziana, e un paliotto cosmatesco; un corridoio d’accesso è affiancato da quattro bellissimi sarcofagi strigilati e sovrapposti a coppie, contenenti reliquie di martiri, uno è dedicato alle spoglie delle due sorelle martiri. Una scritta racconta come qui Giovan Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, avvertì l’ispirazione a dedicarsi al recupero dei cimiteri sotterranei.
    Dai due lati della confessione si sale al livello del presbiterio mediante ampie scale con gradini in splendido marmo rosso antico, tanto apprezzato che, al tempo del Dipartimento del Tevere, si era progettato di asportarlo per utilizzarlo a Parigi nel trono di Napoleone.
    Nel presbiterio si notano le due transenne laterali che reggono le cantorie, costruite da tre colonne ciascuna, il cui fusto è suddiviso in rocchi da corone d’acanto. Tutta la sistemazione del presbiterio è settecentesca, come lo è il mosso baldacchino di Carlo Fontana, che riutilizzò le quattro colonne di porfido di quello originario.
    Nell’abside, gli apostoli Pietro e Paolo presentano le due sorelle al Cristo dominante al centro, mentre Pasquale I offre il modellino della chiesa. L’intera composizione è ispirata da quella dell’abside dei Santi Cosma e Damiano.

    Giulio Bargellini in Santa Prassede.

    In basso, con il motivo del fiume Giordano, c’è una teoria di pecorelle. Nell’arco absidale una serie di “seniori” dell’Apocalisse tendono all’Agnello mistico le loro corone di gloria. Nell’arco trionfale torme di eletti sullo sfondo dei cieli sono accolti dagli angeli nella Città celeste.
    Tuttavia le più alte emozioni sono riservate dalla Cappella di San Zenone detta anche Giardino del Paradiso che Pasquale I eresse a metà della navata destra come mausoleo della madre Teodora: si tratta della più significativa testimonianza della cultura artistica bizantina che sia rimasta a Roma, come documento della lunga fase di predominio politico e culturale dell’Oriente.
    Introduce alla cappella un arco con decorazione musiva cui si sovrappongono due colonne di granito nero sorreggenti un meraviglioso architrave. Su di esso poggia una grande e pregevole urna funeraria.

    Cappella di San Zenone – Soffitto.

    L’interno è degno del nome “Paradiso” che si dà alla cappella. Idealmente poggiando su quattro colonne collocate negli angoli del piccolo vano quadrato, quattro angeli in mosaico con le braccia alzate reggono al centro della volta tutta d’oro un tondo col volto di Cristo. Altri mosaici sono nelle lunette e sull’altare dove è collocata l’antica immagine di Santa Maria liberaci dalle pene dell’inferno. Molto interessante è il pavimento, coevo alla costruzione della cappella e quindi esempio di transizione tra l’antico opus sectile marmoreum e i lavori che i marmorari romani cominciarono ad eseguire nel secolo XI.
    In una attigua piccola cappella, viene conservata la colonna detta della Flagellazione, un piccolo tronco di diaspro sanguigno che il cardinale Giovanni Colonna portò da Gerusalemme nel 1223. In un’altra cappella, pure vicina a quella di San Zenone, si trova una bella tomba quattrocentesca della scuola di Andrea Bregno; in un pilastro di fronte è il primo monumento funebre realizzato dal giovanissimo Gian Lorenzo Bernini.
    Interessanti sono le Cappelle Borromeo e Olgiati che si aprono nella navata di sinistra. In fondo alla navata destra, tombe e marmi della chiesa preesistente. In sagrestia, belle tele di cui una Flagellazione già attribuita a Giulio Romano e una impressionante Deposizione di Giordano De Vecchi.

    Roma, 2 febbario 2019

  2. La chiesa di San Saba e i monaci di Gerusalemme

    Il Rione San Saba, detto comunemente “Piccolo Aventino”, costituisce, sin dall’antichità, una sorta di appendice del destino urbanistico del Grande Aventino.

    Piazza Gian Lorenzo Bernini e i giardini pubblici. Si ringrazia Romasparita.

    L’Aventino è il colle più meridionale della città e il più vicino al Tevere, con pendici molto scoscese e una sella profonda che da sempre divide le due sommità dette Piccolo e Grande Aventino. Popolatosi in ritardo nella Roma antica, ebbe prima un carattere popolare, poi – a seguito dell’allontanamento del porto, trasferito ai nuovi impianti imperiali oltre Ostia – e servito da un ramo dell’acquedotto, fu ricercato per residenze di lusso. Completamente abbandonato nel Medioevo, restò del tutto ai margini della città, coltivato a vigne, ma senza splendore di ville. Sul Piccolo Aventino l’unico presidio furono i complessi conventuali, cinti da mura come fortilizi: San Saba e Santa Balbina.
    Ancora all’inizio del Novecento la chiesa e il monastero di San Saba erano ancora in aperta campagna, ma con il primo piano regolatore approvato dalla giunta Nathan nel 1909 la zona diviene una sorta di quartiere operaio satellite di Testaccio e vi viene edificata, tra il 1907 e il 1914, una città – giardino. Il progetto è di Quadrio Pirani e prevede la realizzazione su dieci lotti di villini bifamiliari con e palazzine alte quattro piani. Il giovane architetto scelse di coprire le facciate esterne dei villini e delle palazzine con piccoli mattoni rossi per poter armonizzare le nuove architetture con quelle del monastero e delle mura. Ancora oggi il quartiere è immerso del verde e in questo verde risultano ancora incastonati il monastero e la chiesa di San Saba.
    Probabilmente è proprio l’isolamento anche fisico di cui ha goduto nei secoli il colle che ha favorito l’isolamento conventuale che ancora oggi caratterizza l’atmosfera della piccola chiesa di San Saba e le ha consentito di arrivare ai nostri giorni sostanzialmente ben conservata e ricca di testimonianze.

    La chiesa di San Saba – Ettore Roesler Franz. Si ringrazia Romasparita.

    La tradizione parla di un cenobio in cui sarebbe vissuta Silvia, madre di san Gregorio Magno, la quale avrebbe inviato giornalmente al proprio figlio, residente sul Celio, un magro pasto di verdure, anche se fragranti e da lei stessa raccolte negli orti vicini. La storia e l’archeologia ci accertano della venuta nel VII secolo, in questo posto, di monaci orientali desiderosi di rinnovarvi il loro convento di Gerusalemme, che era stato fondato da san Saba nel secolo V ed era stato distrutto dalla conquista araba. I monaci fondarono altri monasteri a Roma – ad esempio quello alle Tre Fontane – e costituirono qui un oratorio che, nel corso del X secolo, si trasformò nella chiesa attuale. Questa però fu opera dei benedettini che avevano, in quel periodo, sostituito gli orientali. E, nel XII, a rimpiazzare i benedettini arrivarono i cluniacensi. Costoro restaurarono a fondo l’edificio, quasi ricostruendolo, e lo fecero ornare dai marmorari romani. Un altro intervento si ebbe verso il 1463 a cura del cardinale Francesco Piccolomini che fece sopraelevare il portico e costruire la tipica ampia loggia che riveste la facciata. Alla chiesa, che è sul punto più alto del colle e che si annuncia con un protiro del Duecento, si arriva con una breve gradinata che porta a uno spiazzo erboso – certo l’antico atrio – chiuso da muri, dove, in un’atmosfera di grande pace, il tempo si ferma. Il portico a pilastri che precede la chiesa è ricchissimo di sarcofagi antichi e di altro materiale archeologico. Una scaletta in un angolo scende al livello della chiesa primitiva, assai più piccola dell’attuale. Un bel portale del 1205 è opera di Giacomo, padre di quel Cosma che dette nome alla dinastia dei marmorari-mosaicisti cosmateschi. Il campanile, sulla sinistra della facciata, è tozzo ed emerge di poco perché è quel che avanza dopo un crollo di epoca remota. L’interno, ripristinato a seguito degli scavi condotti nel 1909 e delle successive sistemazioni, è a tre navate, divise da quattordici colonne di spoglio assai variate e da archi. La navata centrale, sulla quale si distende un soffitto moderno a capriate in vista, è ricoperta, a modo di tappeto, da un bel lavoro cosmatesco.

    La carità di San Nicola – Chiesa di San Saba.

    Altro lavoro cosmatesco è una parte della schola cantorum ritrovata negli scavi del 1909 firmata dal “magister” Vassalletto, ricomposta sulla parete della navata destra: affascinante per le lucenti riquadrature a mosaico e per la pezzatura di marmi raffinati, quasi un campionario di pietre rare. Sulla sinistra, si trova una cosiddetta “quarta navata” che deve essere in realtà un locale conventuale aggiunto successivamente alla chiesa. Vi sono resti di affreschi del XIII secolo. Altri affreschi della chiesa primitiva si trovano lungo il corridoio che conduce alla sagrestia. L’abside centrale deve aver perduto una decorazione musiva e ha invece una modesta decorazione ad affresco del 1575, anche se conserva una drammatica Crocefissione di un trecentista. Un’Annunciazione del secolo XV si trova sull’arcone dell’abside. Il presbiterio conserva, poi, una cattedra marmorea con un magnifico tondo cosmatesco e un ciborio ricomposto con quattro belle colonne di marmo e una copertura ottagonale a colonnine. Al di sotto è la confessione. Accessibile dal portico esterno è l’antico oratorio con frammenti di pitture dei secoli IX e X.

    Roma, 13 ottobre 2018

  3. Alla scoperta di Borgo, il Rione ad limina Petri

    Nell’ager vaticanus, vale a dire nel vasto territorio compreso fra la riva del Tevere,

    Quartiere di Borgo dalle mura – Mappa di Roma del 1640.

    Castel Sant’Angelo e il Vaticano, si estendevano, in antico, i luoghi di delizia della corte imperiale. Qui sorsero le prime testimonianze del Cristianesimo in virtù della presenza della tomba dell’apostolo Pietro, martirizzato nel circo di Nerone nell’anno 64. Oltre il circo esisteva in quest’area un vasto sepolcreto dove, in una tomba terragna, fu deposto anche il primo papa. Il sito, divenne, da subito, meta di pellegrinaggi da parte della comunità cristiana di Roma.
    E’ interessante raccontare che la Roma cristiana si estese molto al di là delle mura Aureliane, perché, già a partire dall’inizio del VI secolo, si erano formati dei veri e propri suburbi intorno alle tre maggiori basiliche cristiane sorte nel IV secolo per volontà dell’imperatore Costantino, San Lorenzo sulla via Tiburtina, San Paolo sulla via Ostiense e San Pietro ai piedi del colle Vaticano. Questi suburbi erano connessi alle porte cittadine da lunghi porticati e costituivano delle propaggini di Roma nella campagna circostante. Essi formavano una specie di periferia dominata dalla presenza della Chiesa, cosparsa di edifici sacri ma anche di fattorie e di ville.
    Va detto che il sepolcro e il santuario di san Pietro superarono quelli dedicati a san Lorenzo e a san Paolo per ricchezza e importanza: romani e forestieri vi affluivano in numero sempre crescente per offrire doni, pregare e implorare la salvezza dell’anima. La basilica di San Pietro divenne così un centro di devozione popolare, in aperta concorrenza col centro ufficiale della Roma cristiana, vale a dire la basilica di San Giovanni in Laterano, la sede papale.

    San Pietro nella prima metà del 1500.

    Nei pressi di San Pietro s’insediarono numerosi sovrani britannici: Cadwalla del Wessex nel 668, Coinred della Mercia una generazione più tardi, Ina del Wessex nel 726, e infine Offa, proveniente dall’Anglia orientale, accompagnato da nobili, popolani inglesi d’ambo i sessi, digiunando e facendo elemosine. Intorno alla metà dell’VIII secolo, nordici di ogni condizione si stabilirono ad limina Petri, e dai loro paesi natali affluirono ricche donazioni destinati al soccorso dei poveri e alle lampade di San Pietro. Col passare del tempo, quindi, le varie colonie straniere, composte da ricchi col loro seguito, da poveri gregari e da eremiti, si raccolsero in appositi insediamenti o borghi nazionali. Erano nate le scholae nordiche. La prima di queste, fondata già nel 726, fu quella dei Sassoni, installata all’incirca nel luogo dove oggi sorgono l’ospedale e la chiesa di Santo Spirito in Sassia, il cui nome deriva proprio dall’antico toponimo di Burgus Saxonum, e fa sopravvivere questa presenza nordica nome quartiere di Borgo, compreso tra San Pietro e il Tevere, ancora oggi. Intorno al 770, a Nord della basilica s’insediò la schola dei Longobardi, con l’annessa chiesa di San Giustino, oggi non più esistente; verso la fine del secolo fu fondata a Sud dell’atrio la schola dei Franchi, e infine quella dei Frisoni, gruppo etnico germanico nativo delle zone costiere dei Paesi Bassi e della Germania, sorse nella zona di San Michele in

    Pianta della Antica Basilica di San Pietro – Tiberio Alfarano.

    Borgo, oggi chiesa dei SS. Michele e Magno, sulla collina a Sud-Est del portico berniniano. Nel 799 tutte queste scholae erano già strutturate come organismi civili e militari autonomi, e solo col passar del tempo furono assimilate nella vita cittadina.
    Importanza strategica allo sviluppo di Borgo era rappresentato da ponte Sant’Angelo, unico accesso per e da Roma. Esso era controllato dal castello omonimo, già mausoleo di Adriano: chi aveva possesso di questo caposaldo dominava il santuario di San Pietro e il circostante Borgo, potendo garantire un’efficace protezione o costruire una potenziale minaccia. Verso Sud, una sola strada stretta tra la pendice del Gianicolo e il Tevere, collegava la zona di San Pietro con Trastevere. Bisognerà attendere il 1576 per regolarizzare il Borgo e aprire una nuova strada a Nord, la via Alessandrina, parallela alla via di Borgo Nuovo.

    Mappa del rione Borgo e suoi confini nel XVIII secolo.

    Un momento determinante per l’evoluzione della storia topografica di Borgo fu il 547, l’anno in cui il re goto Totila, insediatosi a Roma dopo un assedio vittorioso, ma temendo l’arrivo del generale bizantino Belisario, demolite in parte le mura aureliane, fece attestare la propria scarsa guarnizione sulla destra del Tevere nella regione vaticana. Qui, appoggiandosi alla fortezza del Castello, dietro la sua parte posteriore eresse una breve cerchia di mura: nasceva in tal modo il primo recinto fortificato, detto appunto Burg da cui l’italiano Borgo, e con esso un primo tratto di mura, una parte delle quali, nell’855, sarebbe stata utilizzata da Leone IV per ampliare la cittadella di San Pietro. Le mura di papa Leone IV racchiusero la basilica di san Pietro e le chiese minori, i conventi e gli ospizi; fuori le mura, a Nord, si estendevano i campi, i cosiddetti Prati, da cui dipendeva in gran parte l’approvvigionamento della città. Partendo da Castel Sant’Angelo, le mura Leonine passavano alle spalle della basilica vaticana e tornavano sulla sponda del Tevere nei pressi dell’attuale ospedale di Santo Spirito, trasformando la zona in un recinto fortificato, anzi in una nuova città, che dal suo fondatore prese il nome di Città Leonina, ricca di tre porte e 44 torri. L’inaugurazione ebbe luogo il 27 giugno dell’852, antivigilia dei santi Pietro e Paolo.
    Nell’XI secolo il Borgo aveva assunto già da tempo la forma che avrebbe poi conservato ben oltre il medioevo, in sostanza fino al 1938, quando nell’antica rete di strade antistante San Pietro fu aperto lo squarcio di via della Conciliazione, e di cui abbiamo un’efficace rappresentazione, oltre che nelle fonti documentarie, nelle piante e nelle vedute dei secoli dal XVI al XIX secolo. La sua posizione lo proteggeva dai tumulti popolari e da eventuali forze occupanti la città; Castel Sant’Angelo e le

    La partenza del duca di Choiseul da piazza San Pietro – Giovanni Paolo Pannini.

    mura Leonine garantivano una difesa, seppure non sempre pienamente efficace, contro gli assalti dall’esterno. In particolare, poiché Borgo ospitava la basilica dedicata al primo vescovo di Roma, i suoi successori ne fecero il loro rifugio: un recinto fortificato e consacrato, parte integrante di Roma ma situato ai margini della città, facile da difendere e utilizzabile come base di partenza per un eventuale contrattacco.
    Ecco perché i papi, per tornare da Avignone, nel 1377, chiederanno come condizione assoluta di entrare in possesso della Mole Adriana per attestarsi sicuri e difesi nella regione vaticana.
    Furono Sisto IV e Alessandro VI, in vista del Giubileo del 1475 e del 1500 a dare una nuova sistemazione a Borgo, riplasmando il Borgo Santo Spirito e il Borgo Vecchio e creandone di nuovi come il Borgo Sant’Angelo, detto inizialmente Sistino perché promosso da Sisto IV, e quello che – chiamato poi per antonomasia Borgo Nuovo – fu detto inizialmente Via Alessandrina dal nome di Alessandro VI. Questi si impegnò con ogni forma di incentivo per la sua realizzazione. Infatti, per agevolare il successo di questa impresa non lesinò con l’opera di persuasione verso la gente di Curia, né con gli stimoli economici né con le esenzioni di oneri vari. Si arrivò a concedere l’immunità a chi, avendo carichi pendenti con la giustizia, venisse a stabilirsi a Borgo. Tali allettamenti e agevolazioni dovevano in seguito ripetersi in occasione della realizzazione delle principali opere urbanistiche della città papale.
    In seguito, un secondo gruppo di borghi fu creato, sempre con il medesimo andamento verso la zona vaticana, fra il muro leonino, declassato a passetto, e il nuovo muro di Pio IV.

    La Spina di Borgo prima degli abbattimenti.

    Questa zona della città rimase a lungo avulsa dalla vita comunale romana, con propria, anche se non definita, giurisdizione. Solamente nel 1586, con il riordinamento amministrativo di Sisto V, Borgo divenne il quattordicesimo rione cittadino, ma continuò sempre ad aleggiare su di esso una speciale atmosfera di autonomia. Questo spiega, per reazione, il fermo proposito espresso dai borghigiani di non restare separati da Roma, dopo il 20 settembre 1870, quando l’orientamento governativo propendeva a lasciare la zona in una sfera di sovranità pontificia.
    Per l’apertura della via della Conciliazione fu distrutta, nel 1936, la “spina” di edifici che stava tra i Borghi Vecchio e Nuovo. Anche parecchie costruzioni dei due fianchi superstiti delle due strade furono ugualmente abbattute per dar luogo ad un’edilizia di mole consistente.

    Roma, 12 luglio 2018

  4. Ponte e Parione. Roma tra Medioevo e Rinascimento

    I rioni Ponte e Parione sono aree della città dove l’eredità medievale, quella rinascimentale e la barocca sono ancora chiaramente visibili.

    Simbolo del Rione Ponte.

    Il rione Ponte era, in origine, una distesa di paludi, come ricorda anche Ovidio nei Fasti, un luogo misterioso, sibillino e «gonfio di agguati». E’ forse per questa caratteristica che gli antichi, nei pressi dei luoghi oggi occupati dal ponte Vittorio Emanuele II, collocarono il Tarentum, ovvero il Santuario di Dite, ovvero Plutone, dio degli Inferi, e Proserpina, il cui altare sotterraneo veniva dissepolto in occasione di ogni cerimonia. Un altro ricordo archeologico fu scoperto nel 1890 dal Lanciani lungo le rive del Tevere all’altezza di Tor di Nona: gli avanzi di un poderoso molo da sbarco per i marmi che servivano ai monumenti del Campo Marzio. Tra le memorie archeologiche del rione vince in bellezza il Ponte Elio che peraltro ne è il simbolo.
    Papa Sisto IV Della Rovere fu il primo restauratore del rione: fece selciare tutte le vie e, nel gennaio del 1480, ripulì la zona di ponte Sant’Angelo da tutti i tuguri fatiscenti. Molti furono i personaggi noti che vissero nel rione: da Benvenuto Cellini, nel 1519, al genio del Borromini nel 1615, dal Maderno a messer Agostino Chigi. Ponte fu nominato V rione di Roma il 18 maggio 1743, con chirografo di papa Benedetto XIV.
    Nei primi anni del Novecento il piano regolatore della “nuova” Roma operò nel rione vari sventramenti che inflissero vaste ferite all’antico tessuto urbano. Ciononostante Ponte ha conservato il suo tipico aspetto con i rettilinei rinascimentali convergenti verso ponte Sant’Angelo, riuscendo a mantenere un perfetto equilibrio tra passato e presente.

    Resti del Ponte Elio durante i lavori dopo l’Unità d’Italia.

    Il nome Parione, invece, viene dal latino paries, muro, col significato di “muraglione”: si riferisce ai resti di qualche antica struttura mai identificata. Nel Medioevo questa era l’ottava regione, chiamata Regio Parionis et Sancti Laurentii in Damaso dall’anzidetto muro e dalla chiesa di San Lorenzo in Damaso, fondata nel IV secolo e che ora si trova accanto al Palazzo della Cancelleria. È un rione dalla forma vagamente triangolare, i cui lati corrispondono ai tre rioni confinanti, Ponte, Regola e Sant’Eustachio, e occupa la parte centrale dell’antico Campus Martius, dove sorgevano tre importanti strutture: lo stadio di Domiziano, l’Odeon, un piccolo teatro per eventi musicali, voluto dallo stesso imperatore, e il teatro di Pompeo. Nella sua parte meridionale, come pure nel vicino rione Regola, molte strade hanno mantenuto il nome delle antiche attività commerciali che un tempo vi si concentravano, quali via dei Cappellari, via dei Baullari, via dei Giubbonari, vicolo dei Chiodaroli, piazza Pollarola, largo dei Librari, via dei Chiavari, e così via.
    La visita ai rioni Parione e Ponte, e ovviamente alla parte del Campo Marzio che li contiene entrambi, vuol riportare in vita la quotidianità dei vicoli che innervano questa porzione di Roma. Qui, antico, medioevo, rinascimento, barocco si incontrano restituendo uno scenario affascinante. Proprio nei vicoli, molto più che nelle grandi piazze, si riesce a comprendere il modus vivendi delle città medievale e di quella rinascimentale e poi barocca. Una città che subisce, nel Medioevo, trasformazioni tali da modificare completamente il suo volto. Nell’antichità la vita a Roma, infatti, si era sviluppata soprattutto sulle zone collinari in cui l’aria era salubre. I colli Pincio, Viminale, Esquilino, Oppio, Celio e, al di là del Tevere, il Gianicolo erano punteggiati da grandi dimore private. La zona monumentale occupava la pianura compresa nell’ansa del fiume giungendo a Est fino al Colosseo e inglobando i colli da cui aveva preso avvio lo sviluppo della città, il Campidoglio e il Palatino; infine, i caseggiati delle classi medie e inferiori utilizzavano le aree residue interposte tra le due zone precedenti, seguendo in genere le depressioni delle colline e risalendo fino ad una certa altezza le loro pendici.
    Nella Roma medievale, invece, le zone collinari persero d’importanza e l’abitato si spostò verso l’antica zona monumentale, l’insalubre città bassa adiacente al Tevere.
    Il Tevere fu il protagonista dello sviluppo urbano di Roma, quantunque rappresentasse anche un pericolo: due o tre volte ogni secolo, di solito a intervalli di trenta o quarant’anni, ma in qualche caso a distanza di due o tre anni, esso inondava la città in corrispondenza dell’ansa principale, com’era già accaduto nell’antichità. Nel dicembre del 1277 l’altar maggiore del Pantheon fu sommerso per più di un metro.

    Malgrado ciò, per tutto il Medioevo, il Tevere costituì l’arteria vitale di Roma. Quando il tessuto urbano si fece più continuo, l’insediamento si estese verso la zona monumentale di Campo Marzio, racchiusa dalla grande ansa del fiume. Oltre ad essere la principale via di comunicazione col mondo esterno, il Tevere separava e al tempo stesso collegava le due parti della città situate sulle opposte rive. Degli antichi ponti romani ne erano rimasti quattro: più a nord di tutti il ponte Sant’Angelo, unico passaggio per la basilica di San Pietro.
    Oltre ad essere di primaria importanza per l’approvvigionamento di Roma, il Tevere era fonte di acqua potabile; l’abitare presso il fiume era un vantaggio, perché consentiva di fare a meno dei pozzi, che spesso in estate si esaurivano. Inoltre il fiume era ricco di pesce, e a partire dal X secolo risulta che i monasteri affittavano o cedevano i diritti di pesca sulle rive del fiume.
    E degli antichi monumenti che ne era stato? La maggior parte di essi, in età medievale, era semplicemente ignorata; altri erano inglobati nella città medievale e adoperati per scopi utilitari. Ma la maggioranza delle antichità era in rovina. Le sostruzioni e le mura dirute dello stadio di Domiziano non ancora ricoperte dai palazzi, dalle case e dalle chiese che circondano l’attuale piazza Navona, accoglieva solo piccoli oratori e forse qualche abitazione; la grande distesa della piazza rimase inutilizzata fino al Quattrocento e solo nel XVII secolo, dopo la costruzione della chiesa di Sant’Agnese in Agone, del palazzo Pamphilj e della fontana dei Fiumi essa si trasformò nel grandioso ambiente monumentale che oggi vediamo.
    A Est di piazza Navona i resti delle terme Alessandrine erano anch’essi occupati da abitazioni e da piccole cappelle, e così pure le terme di Agrippa e la zona dei templi di Largo Argentina, situate a Sud del Pantheon. Il teatro di Pompeo era, come oggi, completamente inglobato nel tessuto edilizio.

    Santa Maria in Via Lata – Giuseppe Vasi.

    I limiti entro cui si formò gradualmente la città medievale, tuttavia, sono segnati da due grandi assi dell’antica Roma: verso Est la via Lata, l’attuale via del Corso, correndo in rettilineo da Piazza del Popolo alla pendice settentrionale del colle Capitolino, segnava un confine che nel Medioevo non fu quasi mai oltrepassato dall’espansione edilizia. Ai piedi del Campidoglio, la via Lata piegava leggermente a Est, dividendosi poi in due rami, uno dei quali attraversava il Foro mentre l’altro, costeggiando la pendice sud-orientale del colle, si dirigeva verso Santa Maria in Cosmedin e collegava la città a Trastevere attraverso il ponte Rotto.
    Analogamente, a Nord l’area urbana era delimitata dall’antica via Recta, oggi via dei Coronari, e dal suo proseguimento verso Est. Dopo aver attraversato il rettifilo da Ovest ad Est l’antico Campo Marzio, la via Recta sboccava sul Corso a piazza Colonna in corrispondenza della colonna di Marc’Aurelio.
    In conclusione, il sistema viario medievale ereditato dall’età antica, era diretto essenzialmente da Est a Ovest e faceva capo a tre punti: il ponte Sant’Angelo, da cui si accedeva alla Città Leonina e a San Pietro; il teatro di Marcello, coi ponti d’accesso all’Isola Tiberina e a Trastevere; e l’estremità meridionale del Corso, ai piedi della pendice settentrionale del colle Capitolino.
    I grandi santuari cristiani, situati fuori dell’abitato, ebbero un ruolo determinante per l’aspetto e la forma e l’aspetto della città medievale e rinascimentale: nonostante la loro lontananza dalla zona edificata, il Vaticano e il Laterano divennero due capisaldi del sistema viario medievale e delle epoche successive.

    San Lorenzo in Damaso – Tempesta 1593.

    Fa da esempio via del Parione, un’arteria in direzione Nord-Ovest che collegava ponte Sant’Angelo con l’estremità meridionale del Corso, nota con questo nome fino al Cinquecento, che, dopo aver raggiunto la parte più settentrionale del Campidoglio, continuava presso il Foro fino al Colosseo e da qui saliva al Celio lungo l’attuale via di San Giovanni, terminando presso la basilica Lateranense e l’adiacente palazzo pontificio. Questa strada rappresentava la via più breve per accedere alla «madre di tutte le chiese», alla residenza papale e agli uffici dell’amministrazione ecclesiastica; e poiché, provenendo da San Pietro, era l’unico collegamento diretto tra i due grandi santuari cristiani, divenne la strada più importante tra quelle che attraversavano l’intera città. Per tutto il Medioevo, via del Parione fu percorsa dalle processioni papali e dai pellegrini: da qui i nomi di via Papae per un lungo tratto dell’attuale via del Governo Vecchio e di via Maior per quella che oggi è via di San Giovanni, tra il Colosseo e il Laterano.

    Roma, 5 giugno 2018