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  1. Il Mosè di Michelangelo: “lo sguardo”

    Il grande piazzale solitario corrisponde alla cima del Fagutale, la vetta

    Abside – San Pietro in Vincoli

    occidentale dell’Esquilino. Qui la moglie dell’imperatore Valentiniano III, Eudossia, fece costruire sopra precedenti edifici una chiesa per conservarvi le catene della prigionia di san Pietro a Gerusalemme. Consacrata nel 439, la chiesa, che porta anche il titolo di “eudossiana”, venne più volte restaurata e rifatta. Importanti lavori vi condusse il nipote di Sisto IV, il cardinale Giuliano Della Rovere, che sarebbe poi stato Giulio II. Una vistosa modifica la chiesa doveva successivamente subire nei primi anni del Settecento ad opera di Francesco Fontana.
    Dall’alto di un’ampia gradinata, domina la piazza l’elegante portico a pilastri ottagonali, attribuito a Baccio Pontelli o, forse a maggior ragione, a Meo del Caprino.
    Attraverso un bel portale marmoreo con stemmi del cardinale Della Rovere nell’architrave, si entra nel vasto interno a tre navate, delle quali la centrale sembra ancora più ampia a causa del soffitto ligneo ribassato che comprende il grande dipinto del “Miracolo delle Catene” di Giovanni Battista Parodi, 1706. Splendide sono le robuste 20 colonne di granito; qui ha ampiamente operato nel 1872 Virginio Vespignani al quale si deve

    Catene di San Pietro – San Pietro in Vincoli.

    l’altare maggiore con baldacchino e la sottostante “confessione” in cui, attraverso due sportelli aperti, si vede l’urna dorata, realizzata nel 1856, che contiene le catene di san Pietro, quella della prigione di Gerusalemme si sarebbe saldata, secondo tradizione, a quella della prigione romana del Carcere Mamertino. Nella cripta sottostante c’è un bel sarcofago paleocristiano con le presunte reliquie dei fratelli Maccabei, ornato con scene del Nuovo Testamento.
    Ma non c’è dubbio che la chiesa abbia il suo punto focale nel michelangiolesco Mausoleo di Giulio II, nonostante che esso sia solamente la deludente attuazione del grandioso progetto immaginato dal combattivo pontefice, e che sia persino privo delle spoglie di lui, sepolte nella basilica di San Pietro.
    Giulio II infatti aveva immaginato la propria tomba al centro della Basilica di San Pietro sotto la grande cupola e sopra la tomba dell’Apostolo, al

    Monumento funebre di Giulio II – San Pietro in Vincoli.

    luogo dell’odierno baldacchino. Il progetto aveva in sé dell’irriverente, oltre che del presuntuoso. Ma può essere compreso, se lo si paragona alla personalità del Della Rovere, uomo di grandi vedute e di grandi risoluzioni, ivi compresa quella di abbattere l’antico San Pietro, oltre che di grandi passioni, ira compresa: fu lui a sollevare il bastone sulle spalle del grande Buonarroti!
    Eppure la gigantesca statua del Mosè riscatta tutta la triste vicenda della tomba rimasta incompiuta perché Michelangelo ne venne distratto dalle opere di volta in volta commissionategli dai successivi pontefici, e fu la «tragedia della sua vita», come egli si espresse. L’opera è una delle realizzazioni fondamentali di tutta la storia artistica, uno dei sommi capolavori di ogni tempo e basta da sola ad assicurare la gloria dell’autore e del committente che l’espressione e l’atteggiamento del sommo legislatore ebraico rievoca in maniera sorprendente.
    A Parigi e a Firenze sono le statue dei Prigioni che avrebbero dovuto figurare nel monumento. Qui si trovano invece due belle statue di Lia e di Rachele, opere sempre di Michelangelo compiute da Raffaello da Cantalupo, e altre mediocri statue di discepoli.

    Mosè – Michelangelo – San Pietro in Vincoli.

    Due anni fa è stato realizzato un nuovo sistema di illuminazione del capolavoro che ha svelato una sorta rapporto “segreto” fra la bellezza del Mosè e la luce del sole. Un segreto scoperto da Antonio Forcellino, il restauratore e architetto cui la Soprintendenza per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma ha affidato i lavori di pulitura del capolavoro nell’ambito dei lavori di restauro che hanno interessato tutta la struttura della Tomba di Giulio II: «Michelangelo», spiega Forcellino, «ha lustrato con il piombo solo le parti più aggettanti della statua, quelle che ricevevano la luce diretta del sole, lasciando le altre a una finitura più rustica fatta con pomice e sabbia. In tal modo la scultura acquista una profondità del tutto nuova, un carattere pittorico. Del resto questo gli era possibile perché era anche un grandissimo pittore. È evidente come il braccio sinistro sia portato a un lustro che riflette la luce in maniera straordinaria, mentre il torace arretra di molto perché il trattamento finale si è fermato alla pomice».
    Il Mosè di Michelangelo è sempre stato oggetto di interpretazioni tra le più varie. Se ne sono occupati con puntiglio, specialmente negli ultimi due secoli, critici d’arte, iconologi, teologi e psicanalisti. “Non ho mai provato un’emozione così forte di fronte a un’opera d’arte…La mia attenzione è caduta così sul fatto, apparentemente paradossale, che proprio alcune delle creazioni artistiche più meravigliose e travolgenti sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti dalla loro grandezza, ma non sappiamo dire che cosa rappresentano”, scrisse

    Mosè – Michelangelo – San Pietro in Vincoli.

    Sigmund Freud nell’introduzione del suo saggio Il Mosè di Michelangelo del 1913. Sappiamo che nella storia dei viaggi freudiani, l’Italia occupa un posto centrale. Il vero innamoramento per il Bel Paese si realizza pienamente per Freud nel 1901, quando riesce a trovare il coraggio di spingersi finalmente fino a Roma, la città dei suoi sogni. Tutto a Roma gli piace: la mitezza del clima, la luce, i profumi. Durante le giornate a Roma, Freud passeggia ebbro di stupore per l’arte, il paesaggio, i piaceri della buona tavola, tanto da dichiarare che quello era il luogo dove avrebbe voluto trascorrere la sua vecchiaia. Non c’è angolo della città che non abbia visitato: da San Pietro alla Sistina e alle stanze di Raffaello, dalla via Appia al Gianicolo, dal Pantheon a San Pietro in Vincoli, dove vede per la prima volta il Mosè di Michelangelo, fonte di emozioni delle quali continua a nutrirsi per anni. Nel 1914 esce sulla rivista «Imago» il saggio “Il Mosè di Michelangelo”, dove Freud espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Non è un saggio psicoanalitico del Dottor Freud sulla figura del patriarca ebraico, a questo penserà anni dopo nel 1934-1938 scrivendo “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, dove attraverso la psicoanalisi viene ricostruita la storia di Mosè e del monoteismo ebraico, ma è una relazione-rivelazione, confidenziale, intima, delle impressioni del Signor Freud davanti a “quel Mosè”, quella raffigurazione precisa, così come Michelangelo l’aveva fissata nel marmo quasi quattrocento anni prima.
    L’indagine psicoanalitica viene, in un certo senso, messa da parte, Freud non è interessato alla psico-biografia del Buonarroti, né all’analisi della storia e della personalità del patriarca Mosè, è teso solo a spiegare le suggestioni che la statua gli suscita.

    Mosè – Michelangelo – San Pietro in Vincoli.

    Era tornato ad ammirarla quasi ipnotizzato, giorno dopo giorno e, alla fine, era come se la statua parlasse con lui, raccontandosi.
    Quello che principalmente gli rivela sono le azioni e i gesti che precedono la posizione finale in cui Michelangelo l’ha fermata, il retroscena.
    Freud dà voce alla storia di “quel” Mosè, così come è risuonata dentro di lui, come la statua stessa gliel’ha confessata: l’opera d’arte viene lasciata libera di comunicare, di esprimersi, di sconvolgere ogni teoria, ogni preconcetto esistente.
    Le interpretazioni e le descrizioni discordanti sull’aspetto della scultura, fatte nel corso dei secoli, intrigano Freud più che mai, tanto che diradare il mistero diventa per lui quasi un bisogno, una necessità.
    La tesi di Freud è originale. Il punto di partenza dell’osservazione è il nodo della barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio, un aspetto apparentemente secondario, che, come la pratica psicoanalitica gli ha dimostrato, si rivela capace di aprire una finestra su una nuova visione della realtà e sulla sua comprensione.
    Contrapponendosi all’interpretazione più accreditata secondo la quale la guida spirituale degli ebrei sarebbe stata rappresentata da Michelangelo nel momento in cui prorompeva il gesto d’ira per l’idolatria del popolo, causando la rottura delle tavole della Legge, Freud, vede Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento.
    Un’immagine che non corrisponde affatto al condottiero della tradizione biblica, uomo iracondo e soggetto alle passioni: il Mosè di Michelangelo e Freud è capace di controllare la sua collera, che pure è presente nello sguardo, nell’impeto del balzo trattenuto, nella torsione improvvisa della testa. Egli non rompe le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis.

    Mosè – Michelangelo – San Pietro in Vincoli.

    Se consideriamo che Freud scrisse il saggio nello stesso periodo del dissidio con Jung, possiamo immaginare come si sia sentito vicino a quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi: il popolo della psicoanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per volgersi ad altri culti.
    Eppure, il ritratto conclusivo che traccia Freud di “quel” Mosè è quello di un saggio, consapevole della missione divina di cui è latore, capace di formidabile autocontrollo: la ragione che domina sulle passioni che prorompono.
    Nella statua di Michelangelo Freud, in fondo, vede se stesso.
    Nella fattezze fiere mirabilmente scolpite, nello sguardo pieno di dolore e di sdegno, nell’impeto represso, nell’autocontrollo ritrovato con fatica, nella consapevolezza della grande missione da compiere “malgrado tutto”, Freud proietta quello che si agita dentro di lui, e attraverso l’analisi della statua, illustra e dirime il proprio conflitto interiore.

    Roma, 1 maggio 2019.

  2. La Roma delle antiche Confraternite. La chiesa di San Marcello al Corso e l’Oratorio del Santissimo Crocifisso.

    La chiesa di San Marcello al Corso, ovvero di San Marcello in Via Lata, è una delle prime chiese cristiane a Roma. La prima notizia che si ha della sua esistenza risale al 418.

    San Marcello al Corso.

    Il 29 dicembre 418, infatti, il prefetto di Roma Simmaco, scriveva all’imperatore Onorio per informarlo che in questa chiesa era avvenuta l’elezione del papa Bonifacio I, mentre nella basilica lateranense era avvenuta l’elezione dell’antipapa Eulialo.
    Nel Liber Pontificalis e nella Passio Marcelli il titulus della chiesa è legato a Marcello I, perseguitato da Massenzio e condannato a compiere i lavori più umili nelle stalle del catabulum, ovvero nella stazione di posta imperiale che sorgeva proprio dove oggi si trova la chiesa. Le stazioni di posta nella Roma antica si trovavano lungo le vie principali e questa che sorgeva lungo la via Lata, ovvero il tratto cittadino della via Flaminia, accoglieva il traffico proveniente al Nord e diretto in città. Da qui si partiva per dirigersi al Nord, dove Nord non era solo Rimini e Milano. Presso questa stazione di posta non solo salivano e scendevano i passeggeri, che avevano anche la possibilità di rifocillarsi e dormire, ma venivano cambiati anche i cavalli e i postiglioni. Essendo una delle stazioni di posta più importanti dell’intero sistema viario dell’impero, c’era sempre tantissimo lavoro e la morte di Marcello I avvenne per sfinimento.
    L’antica chiesa aveva un impianto basilicale e quindi un orientamento opposto a quello attuale: con l’ingresso a oriente, verso il Quirinale e l’abside a occidente, verso la Via Lata, oggi Via del Corso. Dal 1368 la chiesa è affidata all’Ordine dei Servi di Maria.

    San Filippo Bernizzi Rifiuta La Tiara – Antonio Raggi.

    La chiesa che oggi si può visitare fu interamente ricostruita a partire dal 1519. Dopo un incendio che nella notte del 22 maggio la distrusse completamente, infatti, papa Leone X, con una lettera dell’8 ottobre, incaricò Jacopo Sansovino di realizzare il nuovo edificio di culto. Dell’antica chiesa si salvò solo un crocefisso di legno. Nel corso della riedificazione venne cambiato l’orientamento della chiesa. Alla riedificazione lavorarono molti architetti e artisti. Oltre a Jacopo Sansovino che elaborò il progetto, si ricorda Nanni di Baccio Bigio, collaboratore di Michelangelo e Annibale Lippi, figlio di Baccio Bigio, che realizzò l’abside.
    La facciata attuale barocca è opera di Carlo Fontana, e abbina alla tipica movimentazione architettonica del periodo un tondo in stucco, sorretto da due angeli, opera di Antonio Raggi che raffigura “San Filippo Benizzi che rinuncia alla tiara”.
    L’interno è a pianta rettangolare, a navata centrale su cui si aprono cinque cappelle per lato. Tra queste la quarta cappella a destra è la Cappella del Crocefisso, che conserva proprio quel crocefisso ligneo che si salvò dall’incendio del 22 maggio 1519. Proprio per questo evento miracoloso il Crocefisso sarà portato più volte in processione e ad esso si attribuirà anche il prodigio di aver fermato la peste del 1522. In questa occasione la volontà del popolo di portare in processione il Crocefisso fu così forte che superò anche il divieto delle autorità, che per impedire lo sviluppo dell’ulteriore contagio avevano vietato qualsiasi assembramento di persone. Il Crocefisso venne quindi prelevato dal cortile del convento dei Servi di Maria, dove era stato sistemato temporaneamente, e portato in processione per le vie di Roma verso la Basilica di San Pietro. La processione durò 16 giorni dal 4 al 20 agosto del 1522. Man mano che la processione procedeva e i giorni passavano la peste regrediva. Ogni quartiere che veniva toccato dalla processione chiedeva che il Crocefisso potesse rimanere più a lungo. Quando il 20 agosto il Crocefisso rientrò a San Marcello la peste era cessata.

    San Marcello al Corso

    A far data da questo anno e per questo prodigio nascerà l’Arciconfraternita del Crocefisso. Approvata nel 1526 da papa Clemente VII, istituzionalmente si dedicava all’assistenza e alla carità ai poveri e ai pellegrini.
    Inizialmente l’Arciconfraternita si riuniva presso il Crocefisso ligneo nella cappella a lui dedicata nella chiesa di San Marcello, ma presto lo spazio si rivelò troppo ristretto e si decise per la costruzione di un nuovo edificio nei pressi della chiesa. Così Ranuccio Farnese nel 1562 incaricò Giacomo della Porta di costruire l’Oratorio del Crocefisso. L’edificio fu terminato nel 1568 per volere del cardinale Alessandro Farnese.
    L’Arciconfraternita organizzava le processioni del Giovedì Santo durante le quali il Crocefisso ligneo veniva portato in San Pietro. La processione si dipanava attraverso le stesse strade percorse dal Crocefisso durante il 1522 quando avvenne il prodigio della scacciata della peste da Roma. La processione non aveva solo il compito di ricordare il prodigio, ma aveva anche un valore bene augurale: essa infatti allontanava ogni male dalla città.
    La tradizione delle molte processioni svoltesi la tradizione popolare ha trasmesso il racconto di quella del 1650 che fu effettuata durante il Giubileo. In questa occasione i cavalli s’imbizzarrirono, terrorizzando i partecipanti. E così cinque cardinali, l’ambasciatore di Spagna, gli oltre cento flagellanti, i musicisti del coro e coloro che procedevano con i lumi accesi fuggirono a gambe levate, accompagnati dalle risate del popolo che assisteva alla scena.
    A partire dal 1600 in occasione dell’Anno Santo il Crocefisso effettuava la sua processione fino a San Pietro, dove veniva esposto all’adorazione dei fedeli. Questi eventi sono ricordati dal fatto che sul retro della Croce venivano incisi i nomi dei vari Pontefici che indicevano l’Anno Santo.

    San Marcello al Corso.

    La tradizione ricorda pure un altro episodio legato, questo, alla processione dell’Anno Santo del 1900, quando il sindaco Ernesto Nathan rese quasi impossibili le condizioni per cui questo rito si compisse. La processione infatti, per disposizione della giunta capitolina, si sarebbe dovuta svolgere all’alba, il Crocefisso avrebbe dovuto essere trasportato adagiato su un carro e coperto da un drappo rosso, e le preghiere avrebbero dovuto essere recitate a bassa voce. Per cercare di aggirare queste difficoltà il papa Leone XIII mandò la sua carrozza a prendere il Crocefisso, che potè così essere trasportato in Basilica.
    Nel tardo Cinquecento l’Oratorio cominciò ad avere un ruolo centrale nella produzione di musica sacra ma anche delle relative esecuzioni, ad esempio nel periodo della Quaresima e per la festa della Croce, quando queste esecuzioni venivano assegnate a maestri di musica importanti tra cui Pierluigi da Palestrina, Alessandro Stradella e Alessandro Scarlatti.
    La denominazione di Oratorio nasce però dal fatto che qui vi furono eseguiti i così detti “oratori”, ovvero musiche di genere spirituale, su tema biblico e dal carattere drammatico, eseguite in forma di concerto, senza rappresentazione scenica e personaggi in costume, e per questo motivo diversi dai drammi sacri. L’oratorio era in genere composto per solisti, coro e orchestra, a volte con il contributo di un narratore.
    L’oratorio è tutt’oggi sede dell’Oratorio Musicale Romano, un centro prestigioso di elaborazione di musica sacra.

    Oratorio del Santissimo Crocefisso. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”.

    Del tipo di musica che veniva eseguita intorno alla metà del Seicento nell’Oratorio del Santissimo Crocefisso abbiamo la descrizione fatta da André Maugars, un violinista francese a servizio del cardinale Richelieu, che si trovò a Roma tra il 1638 e il 1639: “Vi è però un altro genere di musica che non è affatto in uso in Francia e che proprio per questa ragione merita bene che ve ne faccia una descrizione particolare: si chiama stile recitativo. Il migliore che io abbia inteso fu nell’oratorio di S. Marcello, dove si trova una compagnia dei fratelli del Santo Crocifisso, formata dai più grandi signori, che di conseguenza ha la possibilità di mettere insieme tutto ciò che l’Italia produce di più raro; e di fatto i musici più eccellenti si fanno un punto d’onore di venirvi e i migliori compositori brigano per avere l’onore di farvi sentire le loro composizioni e si sforzano di farvi apparire ciò che di meglio hanno allo studio. Questa musica ammirevole e incantevole si fa solo di venerdì durante la Quaresima dalle tre alle sei. La chiesa è grande appena quanto la Sainte-Chapelle di Parigi; nel fondo vi è una cantoria su archi, spaziosa, con un organo di media grandezza, molto dolce e molto adatto [ad accompagnare] le voci. Ai due lati della chiesa vi sono ancora due altre cantorie piccole, dove si trovano i virtuosi più eccellenti della musica strumentale. Le voci cominciano con un salmo in forma di mottetto e poi tutti gli strumenti eseguono una sinfonia molto bella. Dopo, le voci cantano una storia dell’Antico Testamento in forma di commedia spirituale, come quella di Susanna, di Giuditta e Oloferne, o di Davide e Golia. Ogni cantore rappresenta un personaggio della storia e esprime perfettamente la forza delle parole. Dopo di che uno dei più celebri predicatori propone l’esortazione, finita la quale, la musica recita il Vangelo del giorno, come la storia della Samaritana, della Cananea, di Lazzaro, della Maddalena o della Passione di Nostro Signore, e i cantanti imitano perfettamente i personaggi di cui narra l’evangelista”.

    Oratorio del Santissimo Crocefisso. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”.

    Maugars parla dell’organo dell’Oratorio. Il primo venne costruito nel 1582 da Francesco Palmieri di Fivizzano. Più volte restaurato nel 1744 venne sostituito da un nuovo strumento costruito da Johannes Conrad Werle e posto sulla cantoria in controfacciata.
    Sebbene l’Oratorio subì una profonda spoliazione durante l’occupazione francese a Roma, 1798 – 1799, l’aula unica si presenta ancora oggi maestosamente affrescata con un articolato e complesso programma iconografico elaborato da Tommaso de’ Cavalieri scultore, letterato e amico di Michelangelo. I temi trattati sono le “Storie della Croce” e le “Storie della Confraternita”; questi sono stati eseguiti da artisti manieristi diversi tra cui il Pomarancio.
    Sull’altare maggiore è collocato un crocefisso che è copia di quello conservato nella Cappella del Crocefisso nella vicina chiesa di San Marcello.

    Roma, 3 gennaio 2019.

  3. Ponte e Parione. Roma tra Medioevo e Rinascimento

    I rioni Ponte e Parione sono aree della città dove l’eredità medievale, quella rinascimentale e la barocca sono ancora chiaramente visibili.

    Simbolo del Rione Ponte.

    Il rione Ponte era, in origine, una distesa di paludi, come ricorda anche Ovidio nei Fasti, un luogo misterioso, sibillino e «gonfio di agguati». E’ forse per questa caratteristica che gli antichi, nei pressi dei luoghi oggi occupati dal ponte Vittorio Emanuele II, collocarono il Tarentum, ovvero il Santuario di Dite, ovvero Plutone, dio degli Inferi, e Proserpina, il cui altare sotterraneo veniva dissepolto in occasione di ogni cerimonia. Un altro ricordo archeologico fu scoperto nel 1890 dal Lanciani lungo le rive del Tevere all’altezza di Tor di Nona: gli avanzi di un poderoso molo da sbarco per i marmi che servivano ai monumenti del Campo Marzio. Tra le memorie archeologiche del rione vince in bellezza il Ponte Elio che peraltro ne è il simbolo.
    Papa Sisto IV Della Rovere fu il primo restauratore del rione: fece selciare tutte le vie e, nel gennaio del 1480, ripulì la zona di ponte Sant’Angelo da tutti i tuguri fatiscenti. Molti furono i personaggi noti che vissero nel rione: da Benvenuto Cellini, nel 1519, al genio del Borromini nel 1615, dal Maderno a messer Agostino Chigi. Ponte fu nominato V rione di Roma il 18 maggio 1743, con chirografo di papa Benedetto XIV.
    Nei primi anni del Novecento il piano regolatore della “nuova” Roma operò nel rione vari sventramenti che inflissero vaste ferite all’antico tessuto urbano. Ciononostante Ponte ha conservato il suo tipico aspetto con i rettilinei rinascimentali convergenti verso ponte Sant’Angelo, riuscendo a mantenere un perfetto equilibrio tra passato e presente.

    Resti del Ponte Elio durante i lavori dopo l’Unità d’Italia.

    Il nome Parione, invece, viene dal latino paries, muro, col significato di “muraglione”: si riferisce ai resti di qualche antica struttura mai identificata. Nel Medioevo questa era l’ottava regione, chiamata Regio Parionis et Sancti Laurentii in Damaso dall’anzidetto muro e dalla chiesa di San Lorenzo in Damaso, fondata nel IV secolo e che ora si trova accanto al Palazzo della Cancelleria. È un rione dalla forma vagamente triangolare, i cui lati corrispondono ai tre rioni confinanti, Ponte, Regola e Sant’Eustachio, e occupa la parte centrale dell’antico Campus Martius, dove sorgevano tre importanti strutture: lo stadio di Domiziano, l’Odeon, un piccolo teatro per eventi musicali, voluto dallo stesso imperatore, e il teatro di Pompeo. Nella sua parte meridionale, come pure nel vicino rione Regola, molte strade hanno mantenuto il nome delle antiche attività commerciali che un tempo vi si concentravano, quali via dei Cappellari, via dei Baullari, via dei Giubbonari, vicolo dei Chiodaroli, piazza Pollarola, largo dei Librari, via dei Chiavari, e così via.
    La visita ai rioni Parione e Ponte, e ovviamente alla parte del Campo Marzio che li contiene entrambi, vuol riportare in vita la quotidianità dei vicoli che innervano questa porzione di Roma. Qui, antico, medioevo, rinascimento, barocco si incontrano restituendo uno scenario affascinante. Proprio nei vicoli, molto più che nelle grandi piazze, si riesce a comprendere il modus vivendi delle città medievale e di quella rinascimentale e poi barocca. Una città che subisce, nel Medioevo, trasformazioni tali da modificare completamente il suo volto. Nell’antichità la vita a Roma, infatti, si era sviluppata soprattutto sulle zone collinari in cui l’aria era salubre. I colli Pincio, Viminale, Esquilino, Oppio, Celio e, al di là del Tevere, il Gianicolo erano punteggiati da grandi dimore private. La zona monumentale occupava la pianura compresa nell’ansa del fiume giungendo a Est fino al Colosseo e inglobando i colli da cui aveva preso avvio lo sviluppo della città, il Campidoglio e il Palatino; infine, i caseggiati delle classi medie e inferiori utilizzavano le aree residue interposte tra le due zone precedenti, seguendo in genere le depressioni delle colline e risalendo fino ad una certa altezza le loro pendici.
    Nella Roma medievale, invece, le zone collinari persero d’importanza e l’abitato si spostò verso l’antica zona monumentale, l’insalubre città bassa adiacente al Tevere.
    Il Tevere fu il protagonista dello sviluppo urbano di Roma, quantunque rappresentasse anche un pericolo: due o tre volte ogni secolo, di solito a intervalli di trenta o quarant’anni, ma in qualche caso a distanza di due o tre anni, esso inondava la città in corrispondenza dell’ansa principale, com’era già accaduto nell’antichità. Nel dicembre del 1277 l’altar maggiore del Pantheon fu sommerso per più di un metro.

    Malgrado ciò, per tutto il Medioevo, il Tevere costituì l’arteria vitale di Roma. Quando il tessuto urbano si fece più continuo, l’insediamento si estese verso la zona monumentale di Campo Marzio, racchiusa dalla grande ansa del fiume. Oltre ad essere la principale via di comunicazione col mondo esterno, il Tevere separava e al tempo stesso collegava le due parti della città situate sulle opposte rive. Degli antichi ponti romani ne erano rimasti quattro: più a nord di tutti il ponte Sant’Angelo, unico passaggio per la basilica di San Pietro.
    Oltre ad essere di primaria importanza per l’approvvigionamento di Roma, il Tevere era fonte di acqua potabile; l’abitare presso il fiume era un vantaggio, perché consentiva di fare a meno dei pozzi, che spesso in estate si esaurivano. Inoltre il fiume era ricco di pesce, e a partire dal X secolo risulta che i monasteri affittavano o cedevano i diritti di pesca sulle rive del fiume.
    E degli antichi monumenti che ne era stato? La maggior parte di essi, in età medievale, era semplicemente ignorata; altri erano inglobati nella città medievale e adoperati per scopi utilitari. Ma la maggioranza delle antichità era in rovina. Le sostruzioni e le mura dirute dello stadio di Domiziano non ancora ricoperte dai palazzi, dalle case e dalle chiese che circondano l’attuale piazza Navona, accoglieva solo piccoli oratori e forse qualche abitazione; la grande distesa della piazza rimase inutilizzata fino al Quattrocento e solo nel XVII secolo, dopo la costruzione della chiesa di Sant’Agnese in Agone, del palazzo Pamphilj e della fontana dei Fiumi essa si trasformò nel grandioso ambiente monumentale che oggi vediamo.
    A Est di piazza Navona i resti delle terme Alessandrine erano anch’essi occupati da abitazioni e da piccole cappelle, e così pure le terme di Agrippa e la zona dei templi di Largo Argentina, situate a Sud del Pantheon. Il teatro di Pompeo era, come oggi, completamente inglobato nel tessuto edilizio.

    Santa Maria in Via Lata – Giuseppe Vasi.

    I limiti entro cui si formò gradualmente la città medievale, tuttavia, sono segnati da due grandi assi dell’antica Roma: verso Est la via Lata, l’attuale via del Corso, correndo in rettilineo da Piazza del Popolo alla pendice settentrionale del colle Capitolino, segnava un confine che nel Medioevo non fu quasi mai oltrepassato dall’espansione edilizia. Ai piedi del Campidoglio, la via Lata piegava leggermente a Est, dividendosi poi in due rami, uno dei quali attraversava il Foro mentre l’altro, costeggiando la pendice sud-orientale del colle, si dirigeva verso Santa Maria in Cosmedin e collegava la città a Trastevere attraverso il ponte Rotto.
    Analogamente, a Nord l’area urbana era delimitata dall’antica via Recta, oggi via dei Coronari, e dal suo proseguimento verso Est. Dopo aver attraversato il rettifilo da Ovest ad Est l’antico Campo Marzio, la via Recta sboccava sul Corso a piazza Colonna in corrispondenza della colonna di Marc’Aurelio.
    In conclusione, il sistema viario medievale ereditato dall’età antica, era diretto essenzialmente da Est a Ovest e faceva capo a tre punti: il ponte Sant’Angelo, da cui si accedeva alla Città Leonina e a San Pietro; il teatro di Marcello, coi ponti d’accesso all’Isola Tiberina e a Trastevere; e l’estremità meridionale del Corso, ai piedi della pendice settentrionale del colle Capitolino.
    I grandi santuari cristiani, situati fuori dell’abitato, ebbero un ruolo determinante per l’aspetto e la forma e l’aspetto della città medievale e rinascimentale: nonostante la loro lontananza dalla zona edificata, il Vaticano e il Laterano divennero due capisaldi del sistema viario medievale e delle epoche successive.

    San Lorenzo in Damaso – Tempesta 1593.

    Fa da esempio via del Parione, un’arteria in direzione Nord-Ovest che collegava ponte Sant’Angelo con l’estremità meridionale del Corso, nota con questo nome fino al Cinquecento, che, dopo aver raggiunto la parte più settentrionale del Campidoglio, continuava presso il Foro fino al Colosseo e da qui saliva al Celio lungo l’attuale via di San Giovanni, terminando presso la basilica Lateranense e l’adiacente palazzo pontificio. Questa strada rappresentava la via più breve per accedere alla «madre di tutte le chiese», alla residenza papale e agli uffici dell’amministrazione ecclesiastica; e poiché, provenendo da San Pietro, era l’unico collegamento diretto tra i due grandi santuari cristiani, divenne la strada più importante tra quelle che attraversavano l’intera città. Per tutto il Medioevo, via del Parione fu percorsa dalle processioni papali e dai pellegrini: da qui i nomi di via Papae per un lungo tratto dell’attuale via del Governo Vecchio e di via Maior per quella che oggi è via di San Giovanni, tra il Colosseo e il Laterano.

    Roma, 5 giugno 2018

  4. Scoperte

    Cappella Funebre del Cardinal Bessarione, Dedicata alla Madonna e ai Santi Michele Arcangelo, Giovanni Battista ed Eugenia

    Fabio Prosperi

    In occasione della visita alla cappella funebre del Cardinal Bessarione nella chiesa dei santi Apostoli, Fabio Prosperi ci propone una lettura degli affreschi. Una storia che intreccia la Storia.

    Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti.”

    La Flagellazione – Piero della Francesca.

    Forse è proprio questo incredibile stralcio di lettera la chiave per entrare in sintonia con le corde dell’animo di Bessarione. L’immagine delle casse dei suoi libri, donati a Venezia, che vengono trasportate a bordo di barche che scivolano sulla laguna verso la città del leone di San Marco, evoca l’arca che pone in salvo questo inestimabile retaggio che passa di mano dall’Oriente bizantino all’Occidente umanista. Proprio quei libri, scampati al diluvio ottomano, andranno a costituire il fondo primo della Biblioteca Marciana, all’epoca in cui anche Novello Malatesta costituiva la sua biblioteca a Cesena.
    Bessarione non fu solo questo, non fu solo uomo di lettere. Lo vediamo impegnato a fianco di Giovanni Paleologo al concilio di Ferrara nel tentativo di ricucire lo Scisma di Michele Cerulario, tentativo nel quale si prodigò come teologo nel dibattere la questione del Filioque e come oratore sapiente nonostante la giovane età: a trent’anni fu lui a pronunciare il discorso di apertura.

    continua…