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  1. Sant’Agata de’ Goti e l’arianesimo a Roma

    Raramente un monumento è in grado di raccontarci momenti della storia e dell’architettura poco conosciuti come nel caso della chiesa di Sant’Agata dei Goti.

    Sant’Agata de’ Goti

    Eppure questa chiesa, che si trova alle spalle della Banca d’Italia, in via Mazzarino, a metà strada fra Quirinale e Suburra, resta quasi sconosciuta a molti romani.
    La chiesa, ora affidata ai padri Stimmatini, non se ne fa un cruccio abituata come è stata nei suoi sedici secoli di storia a passare da momenti di considerazione ad altri di totale abbandono. Dire che la sua fondazione si perde nella notte dei tempi non è ripetere una frase fatta, visto che della sua nascita non si hanno notizie certe. Il primo documento è quando Recimero, un ufficiale dell’esercito romano, famoso per avere fatto e disfatto imperatori nella fase finale dell’impero romano di Occidente, negli anni fra il 467 e il 470 fa adornare timpano e abside di un mosaico raffigurante Cristo nella mandorla circondato dai 12 apostoli. Una raffigurazione musiva che in quegli anni viene particolarmente utilizzata dall’architettura cristiana. Tale iniziativa è sufficiente per far dire a Richard Krautheimer, il padre della storia dell’architettura cristiana antica, che la chiesa è del 470, datazione della quale non abbiamo certezze.
    Ma chi era Recimero? Anche su questo personaggio non si sa molto. Probabilmente

    Monogramma di Ricimero su una moneta coniata da Libio Severo.

    era un goto che, come tanti altri soldati, era entrato nel cosmopolita esercito romano e vi aveva fatto carriera. Nulla a che vedere con le cosiddette invasioni di quei secoli. Come tutti i goti era pure ariano, l’eresia sviluppatasi in oriente, in particolare per effetto della conversione alla dottrina di Ario da parte di Costanzo II, figlio di Costantino, che regnò a Bisanzio dopo la morte del padre. Tanto bastò perché intere popolazioni barbariche che vivevano oltre i confini nord orientali dell’impero che si convertirono in massa proprio in quei decenni aderissero al cristianesimo nella sua eresia ariana. Tale eresia nega la consustanzialità del Figlio con il Padre, contraddicendo la dottrina cristiana secondo la quale Dio fin dall’origine è anche Verbo, cioè una cosa sola di Figlio e Padre, come sostenuto dall’incipit del Vangelo di Giovanni.
    La dottrina venne condannata come eretica dal Concilio di Nicea del 325. Ciò non toglie che Recimero possa abbellire una chiesa ariana proprio a Roma. Perché il papato lo permette? Perché in quegli anni era in polemica con Bisanzio che non voleva riconoscere il primato romano, quindi il papa cercava di rafforzarsi con alleanze politiche in funzione anti-Bisanzio. Il caso di questa chiesa romana non resta isolato, ma qualche decennio più tardi porterà Teodorico ad abbellire la capitale occidentale dell’Impero passata a Ravenna di uno stupendo battistero ariano e della chiesa di Sant’Apollinare. Con la nostra chiesa sono questi i più famosi monumenti ariani rimasti in Italia.

    Organo – Sant’Agata de’ Goti.

    La chiesa di Sant’Agata dei Goti ha però anche un grande valore architettonico perché conserva la sua struttura originale. Essa sorge in una zona che conosce un grande sviluppo urbanistico dopo che Costantino aveva fatto costruire le sue terme sul Quirinale. È a tre navate e le due laterali sono separate da quella principale da due file di sei colonne che sono ancora al loro posto, conservando nei secoli anche la loro colorazione, seppur restaurate centinaia di volte.
    Delle basiliche costantiniane conserva la struttura in formato ridotto: le file di colonne non sono da 12 ciascuna, come il numero degli apostoli, ma 12 in tutto.
    La fortuna della chiesa prosegue fino al 535 quando cambia la situazione politica: il papato si pacifica con Bisanzio e Giustiniano avvia la disastrosa guerra gotica contro gli ostrogoti che nel frattempo si erano insediati in Italia. La guerra termina con la sconfitta dei goti nel 553, sconfitta che coincide con l’abbandono della chiesa e la sua prima caduta in disgrazia. Si riprenderà solo nel 592 quando il papa Gregorio Magno la riconsacra come chiesa cattolica dedicandola ai santi Sebastiano ed Agata, la martire uccisa a Siracusa nel 251.

    Sant’Agata de’ Goti.

    Altre tappe fondamentali sono quando la chiesa, nei secoli XI e XII, diventerà sede di un cenobio benedettino, per tornare nel XIII al clero secolare. Nei secoli successivi verrà soppressa la parrocchia e la chiesa verrà affidata dapprima all’ordine religioso degli Umiliati per passare poi ai monaci di Montevergine.
    Il Cinquecento è il secolo di importanti interventi nella chiesa ad opera di cardinali, fino a che nel Seicento non diviene titolo di importanti cardinali della famiglia Barberini che ne commissionano il soffitto e le pitture della navata centrale come le vediamo oggi, con le Storie di Sant’Agata attribuite a Paolo Gismondi detto Paolo Perugino che del ben più noto pittore del ‘400 ha solo il nome. Notevole anche il ciborio, con quattro colonne in splendido pavonazzetto ed elementi cosmateschi, frutto del restauro ricostruttivo operato nel 1932 dalla Banca d’Italia quando occupò parte dell’annesso convento.

  2. Alla scoperta dell’Esquilino: il Macellum Liviae e la Chiesa di San Vito in macello Liviae

    L’Esquilino fu abitato fin da un’età assai antica, come è testimoniato dal ritrovamento di una necropoli risalente all’età del Ferro, il cui utilizzo inizia nei primi decenni dell’VIII secolo avanti Cristo. Qui sorse, successivamente, un sobborgo densamente popolato ma esterno alla città come il nome di Exquiliae, che significa probabilmente “la zona abitata fuori della città”, lascia ad intendere.

    Porta Esquilina poi trasformata in Arco di Gallieno – Ricostruzione

    Esso sarebbe stato incluso nella città, secondo una tradizione, da Servio Tullio, che vi avrebbe preso dimora, provvedendo a fortificare l’indifeso lato orientale a mezzo dell’agger, ovvero il terrapieno difensivo ottenuto ammassando del terreno a sostegno delle mura. Da allora l’Esquilino costituì una delle quattro tribù territoriali in cui il re suddivise la città, insieme con La Palatina, La Collina e la Suburana.
    In età arcaica e repubblicana, la zona orientale era occupata in gran parte da una grande necropoli, attraversata da strade e acquedotti. All’interno di questa, subito fuori della Porta Esquilina, detto anche Arco di Gallieno, va localizzato con tutta probabilità il santuario di Libitina, una divinità arcaica romana, e prima ancora italica, che aveva il ruolo di tutelare tutte le funzioni legate alla morte e quindi di presiedere ai funerali. In questa parte della città avevano perciò la loro sede i libitinarii, ovvero gli impiegati delle pompe funebri, e qui venivano conservati i materiali utilizzati nei funerali. Inoltre qui avevano luogo, in origine, le esecuzioni capitali.
    La porta Esquilina, è una delle porte più antiche della città, fu interamente ricostruita da Augusto, e successivamente trasformata in un arco a tre fornici, dedicata da Marco Aurelio Vittore a Gallieno, da cui il nome di Arco di Gallieno con cui la porta è più nota, e alla moglie di questi Solonina, incisa nella cornice sottostante all’attico, fu aggiunta in un secondo tempo. Quella originaria, di età augustea, doveva trovarsi sull’attico, dove sono visibili tracce di scalpellatura.

    Arco di Gallieno – giovan Battista Piranesi

    Con Mecenate, come ricorda Orazio, Satire I, 8, iniziò il risanamento della necropoli: a poco a poco nell’area si andò formando una corona di ville e parchi, che si estendeva fino a includere la parte orientale del Quirinale e l’intero Pincio, tanto che finì per prendere il nome di “Colle dei giardini”.
    I monumenti di carattere pubblico erano rari sull’Esquilino e la maggior parte di essi aveva un carattere di utilità. Tra questi vi era il Macellum Liviae, grande mercato alimentare inaugurato da Tiberio nel 7 avanti Cristo, e dedicato a Livia sua madre, e moglie di Augusto. Questo monumento ha posto diverse difficoltà d’identificazione. Per molto tempo si è ritenuto che esso potesse coincidere con l’edificio, presente nei sotterranei della Basilica di Santa Maria Maggiore. Più recentemente si è tornati all’ipotesi originaria che vuole che i resti del Macellum Liviae siano da identificare con i resti di un grande edificio in mattoni a opera reticolata, scavata alla fine dell’Ottocento, subito fuori della Porta Esquilina.
    Il Macellum Liviae era probabilmente in rapporto con il Forum Esquilinum, una grande piazza con funzione di mercato di cui non ci pervengono tracce, ma le cui notizie più precise ci giungono dallo storico Appiano. Quest’ultimo, in un passo in cui descrive l’attacco di Silla alla città nell’88 avanti Cristo, dice che i sostenitori di Mario, che si erano asserragliati nella città, resistettero a lungo trovando rifugio proprio nel Forum. Il Forum Esquilinum viene localizzato sul, Cispio, una propaggine del colle Esquilino su cui sorge la basilica di Santa Maria Maggiore.

    Chiesa di San Vito e Arco di Gallieno

    Gli studiosi quindi ipotizzano che questa ampia piazza fosse posta immediatamente all’interno della porta Esquilina, come attesterebbero alcune iscrizioni ritrovate alla fine dell’Ottocento. Tra queste un’epigrafe che cita il magister vici, un magistrato incaricato della gestione di aree pubbliche, e un’altra che cita due argentarii che avevano la loro bottega all’interno del Forum Esquilinum. Una terza iscrizione ricorda che nel V secolo dopo Cristo il prefetto urbano si occupò del restauro del Forum Esquilinum attestando così l’uso di quest’area a lungo.
    Seguendo dunque la via Carlo Alberto, di fronte alla facciata di Santa Maria Maggiore, sta incastrato un frammento superstite delle Mura Serviane in blocchi di tufo di Grotta Oscura, un tufo poroso e giallastro proveniente dal costone posto tra Veio e la riva destra del Tevere: il suo andamento è obliquo rispetto alla strada moderna. Svoltando a destra nella viuzza immediatamente seguente, dove è la chiesa di San Vito, ci si trova di fronte all’Arco di Gallieno, che è orientato esattamente come le Mura Serviane e s’inserisce sul loro percorso.
    La chiesa di San Vito, definita già dai tempi di papa a Leone III (795-816) come “in Macello”, nome che è forse la testimonianza più forte della presenza del Macellum Liviae lì dove sorgeva la porta Esquilina, sta addossata all’Arco di Gallieno, e occupa uno dei fornici più piccoli della porta Esquilina. L’associazione tra Arco di Gallieno e chiesa è un elemento che appartiene alla memoria della città antica, tanto da apparire anche nella pianta di Roma disegnata da Pirro Ligorio nella metà del XVI secolo. La chiesa fu completamente ricostruita nel 1477 da papa Sisto IV. Particolarmente importante è un affresco di Antoniazzo Romano che raffigura la Madonna con il Bambino e Santi. Inserita su di una parete è la cosiddetta “pietra scellerata” cui sarebbe legato il ricordo della uccisione di numerosi primi cristiani. La tradizione popolare riteneva per questo motivo che la pietra avesse il potere di curare dall’idrofobia, e quindi da essa veniva grattata via la polvere da utilizzare come medicamento in casi di idrofobia.
    Il nucleo più antico della chiesa è ora visibile grazie all’apertura al pubblico del sito archeologico adiacente alla Cripta, insieme a quanto emerso da una campagna di scavo avviata quasi cinquanta anni fa e ripresa nel 1979: antiche porzioni di mura del VI secolo avanti Cristo fondate sulla Valle dell’Esquilino, nei pressi della prima Porta Esquilina, resti di basolato che lascia intuire il percorso che la strada seguiva passando sotto il fornice dell’arco al posto del quale la chiesa è stata edificata, opere idrauliche connesse all’acquedotto Anio Vetus, di particolare interesse per la storia della chiesa i resti del castellum aquae. In ambienti addossati al castellum aquae, infatti, sorse la diaconia. A questi ambienti si accedeva attraverso una porta che si apriva sulla strada romana. La diaconia risale al IV secolo dopo Cristo quando qui nel 303 dopo Cristo furono martirizzati diversi cristiani tra cui colui che diventerà San Vito, invocato nei casi di epilessia e di un disturbo nervoso detto “ballo di San Vito”.

    Roma, 22 aprile 2018

  3. Il martirio di Paolo di Tarso alle Acque Savie e l’abbazia delle Tre Fontane

    Per quanto possa sembrare sorprendente, nel Nuovo Testamento non c’è traccia di alcuna notizia che riguardi la sorte dell’apostolo Paolo. Sebbene Luca, l’estensore del testo degli Atti degli Apostoli, sia molto attento a ciò che accade e a tutti gli

    Martirio di San Paolo – Algardi – Bologna.

    spostamenti e agli scambi dell’Apostolo delle Genti, egli scrive, verso la fine del libro, che Paolo è detenuto si a Roma, in regime di custodia militaris, ma che sia libero di predicare: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento” (At 28,30-31).
    A tutt’oggi non sono noti i motivi per i quali Luca non riferisca nulla circa la sorte di Paolo.
    La prima notizia relativa alla morte dell’apostolo si può trovare in uno scritto della metà degli anni 90 dopo Cristo, quindi circa trent’anni dopo la sua morte, quando sul soglio pontificio sedeva Clemente I. Quest’ultimo scrive una lettera indirizzata ai Cristiani di Corinto e vi afferma che Paolo “per la gelosia e la discordia, dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo […] sostenne il martirio davanti ai governanti” (1Clem 5,2).
    Anche lo storico Eusebio di Cesarea, vissuto tra il 265 e il 340 dopo Cristo, parla della morte di Paolo e la riferisce al regno di Nerone: “Durante il regno di Nerone, Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocefisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in questa città”. (Hist. eccl., 2,25,5).
    Negli Atti di Pietro e Paolo, un testo apocrifo compilato in greco tra il V e il VII secolo, l’episodio della decollazione di Paolo è riportato con gran dettaglio: “Pietro e Paolo, ricevuta la sentenza, furono tolti dal cospetto di Nerone […] Paolo fu condotto incatenato sul luogo a tre miglia dalla città, sotto la scorta di tre soldati di famiglia nobile. Usciti dalla porta per lo spazio di un tiro di freccia, si fece loro incontro una pia signora, la quale vedendo Paolo in catene, si sentì commuovere e scoppiò in lacrime. La donna si chiamava Perpetua e aveva un occhio solo […] Paolo, scorgendola piangere, le disse: “Dammi il tuo sudario; quando ritornerò te lo restituirò”. Quella lo prese e glielo diede prontamente. I soldati però le dissero: “Donna, perché vuoi perdere il tu sudario? Non sai che va alla decapitazione?”

    Martirio di San Paolo – Mattia Preti.

    Perpetua rispose loro: “Vi scongiuro, per la salvezza dell’imperatore! Legate i suoi occhi con questo sudario, quando lo decapiterete”. Il che si fece. Lo decapitarono presso il fondo delle Acque Salvie, vicino all’albero di pino. Come Dio volle, prima che i soldati facessero ritorno fu restituito a quella donna il sudario intriso di gocce di sangue. Appena lo portò, sull’istante, l’occhio cieco si aprì […] Gli illustri, santi apostoli Pietro e Paolo si spensero il 29 giugno in Cristo Gesù, Signore nostro, al quale appartengono la gloria e il potere”.
    Sempre negli Atti di Pietro e Paolo è riportato un episodio avvenuto nel corso della decollazione dell’apostolo che entra nella tradizione dei luoghi e permane nel tempo: “In piedi, rivolto verso Oriente, Paolo pregò a lungo. Dopo aver protratta la preghiera intrattenendosi in ebraico con i padri, tese il collo senza proferire parola. Quando il carnefice gli spiccò la testa, sugli abiti del soldato sprizzò del latte. Il soldato e tutti i presenti, a questa vista, rimasero stupiti e glorificarono Dio che aveva concesso a Paolo tanta gloria; e al ritorno annunziarono a Cesare [ovvero Nerone] quanto era accaduto. Anch’egli ne rimase stupito e imbarazzato”.
    In accordo con quanto narrato nei testi apocrifi, la tradizione riporta che quando la testa di Paolo, spiccata a seguito del colpo di spada, rotolò a terra rimbalzando tre volte, nei tre punti in cui essa toccò il suolo, si formarono tre fontane da cui usciva acqua, a temperature diverse e di sapori diversi, e che una di queste dava latte. Sulle tre fontane che zampillarono fu costruita la chiesa dedicata proprio a San Paolo all’interno della quale esse furono per sempre conservate.
    Da questo momento il luogo indicato con il nome di Acque Salvie, la cui etimologia non è ancora oggi stata chiarita, e caratterizzato appunto dalla presenza di sorgenti e corsi d’acqua, tra cui il fosso delle Acque Salvie, sarà indicato pure con il nome di Tre Fontane.

    Il tratto di strada che si dice Paolo di Tarso abbia percorso per andare al martirio.

    Oltre alla ricchezza delle acque e alla presenza delle sorgenti non ci sono altri dati che consentano di collocare proprio alle Acque Salvie il luogo del martirio di Paolo, a meno che non si voglia considerare una prova la debole indicazione avuta nel 1878 quando, nel corso di alcuni scavi, in prossimità della chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, furono ritrovate molte pigne fossilizzate, tre ciocchi di pino e una certa quantità di monete antiche risalenti per la maggior parte all’epoca di Nerone.
    La tradizione vuole poi che il corpo di Paolo dalle Acque Salvie sia stato trasportato alla Necropoli Ostiense, dove trovò sepoltura nel podere di proprietà di una matrona romana di nome Lucina, sulla cui casa in città oggi sorge la chiesa di San Lorenzo in Lucina. Già alla metà del II secolo il luogo in cui era stato sepolto Paolo era luogo di culto, segnalato ai fedeli da un piccolo monumento. Anche il luogo della sepoltura di Pietro era stato così semplicemente segnalato ai fedeli. Successivamente sui due sepolcri, importanti per la comunità cristiana, sarebbero sorte le due basiliche di San Paolo Fuori Le Mura e di San Pietro.
    Analogamente non è nota la data esatta del martirio di Paolo, come già quella del martirio di Pietro. La data del 29 giugno, indicata, come si è visto, nei testi apocrifi, fu scelta, probabilmente, perché il 29 giugno 258, sotto l’imperatore Valeriano, che regnò dal 253 dopo Cristo al 260, le salme dei due apostoli furono trasportate nelle Catacombe di San Sebastiano, e solo quasi un secolo dopo papa Silvestro I fece riportare le reliquie dei due Apostoli nel luogo della prima sepoltura.
    Anche sulla data alla quale sarebbe avvenuta la decapitazione di Paolo non c’è accordo. Secondo alcuni la morte è da far risalire si al regno di Nerone, ma al 64 quindi all’epoca delle persecuzioni dei cristiani seguite al grande incendio della città. Secondo altri la data sarebbe quella del 67, come sostengono Eusebio da Cesarea e San Girolamo, secondo altri ancora la morte andrebbe collocata tra il 56 e il 58 dopo Cristo.

    Donazione di Carlo Magno – Arco di Trionfo – Abbazia delle Tre Fontane.

    Le prime notizie relative a un insediamento religioso stabile in località Acque Salvie si possono ricavare da una guida per pellegrini, del VII secolo, intitolata “De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae”, “I luoghi santi dei martiri che sono fuori la città di Roma”, in cui si consiglia ai fedeli, che hanno raggiunto la Basilica di San Paolo Fuori Le Mura, di proseguire di poco verso sud, recarsi alle Acque Salvie e visitare così il luogo del martirio di Paolo. Nel medesimo testo si aggiunge che lì avrebbero trovato un monastero e un’importante reliquia: la testa di Sant’Anastasio. Le fonti raccontano che la reliquia di Sant’Anastasio fu portata a Roma durante il regno dell’imperatore Eraclio I intono al 640. Essa era veneratissima e molto presto iniziarono a verificarsi nei suoi pressi numerosi miracoli.
    Dagli Atti del I Concilio Lateranense, svoltosi nel 649 a Roma, invece, si apprende che il monastero delle Acque Salvie era abitato da monaci che provenivano dalla Cilicia. La capitale della Cilicia era Tarso, la città di provenienza di Paolo. E’ possibile che questi monaci siano giunti a Roma nella prima metà del VII secolo e si siano rifugiati nei luoghi del martirio di Paolo per sfuggire in Oriente all’accusa di eresia. Essi si opponevano infatti all’idea che Cristo avesse solo natura divina.
    Da queste indicazioni si evince che il monastero delle Acque Salvie era già sorto nella prima metà del VII secolo, il che vorrebbe dire che esso, insieme all’abbazia che poi lo sostituirà hanno una vita e una storia lunghissime, di quasi 1500 anni, durante i quali i suoi abitanti saranno testimoni d’innumerevoli eventi storici.
    Lungo tutto questo tempo la comunità dei monaci vivrà fasi di grande espansione e di profonda decadenza. Una delle fasi di espansione più importanti è quella che interessa il monastero nel IX secolo quando l’imperatore Carlo Magno donò ai monaci vasti possedimenti in Maremma. L’episodio è così importante che molti secoli dopo, quando al monastero arrivano i Cistercensi esso fu ricordato negli affreschi dell’arco che fa da ingresso all’abbazia.

    Abbazia delle Tre Fontane – Giuseppe Vasi.

    Il monastero vivrà a lungo come realtà indipendente e di rito greco fino a quando, intorno all’Anno Mille si venne a trovare in uno stato di decadenza e abbandono tali che papa Gregorio VII lo pose sotto il controllo dei Benedettini della basilica di San Paolo Fuori Le Mura. L’arrivo dei Benedettini trasformerà profondamente la realtà e il rito greco scomparirà sostituito dal rito latino.
    Ma anche i Benedettini non saranno destinati a rimanere a lungo poiché nel 1130, con la morte di papa Onorio II, si aprirà un periodo di scisma per la chiesa. Il 14 febbraio 1130 furono eletti contemporaneamente due papi Innocenzo II, che non ebbe l’acclamazione del clero e del popolo, e Anacleto II che invece la ottenne. Innocenzo fu perciò costretto a riparare in Francia dove conobbe Bernardo da Clairvaux che decise di appoggiare il suo ritorno a Roma. Sulla figura di Innocento II, grazie all’azione di Bernardo, converse l’alleanza tra Germania, Inghilterra e Spagna che si oppose ai Normanni, che governavano nell’Italia meridionale e appoggiavano Anacleto II. Si scatenò una guerra tra i due fronti che si concluse solo con l’improvvisa morte di Anacleto e il ritorno a Roma di Innocenzo II. Questi seppe farsi apprezzare dal popolo e dal clero, e per mostrare la sua riconoscenza a Bernardo di Clairvaux, e punire i Benedettini che avevano appoggiato Anacleto II, regalò ai Cistercensi il monastero delle Acque Salvie.
    Nel 1139 arrivarono quindi al monastero i monaci inizialmente destinati all’abazia di Farfa e per consentire a essi di abitarvi Innocenzo II si fece carico anche del suo restauro, compiendo un gesto completamente contrario alla prassi dei Cistercensi.

    Abbazia delle Tre Fontane agli inizi del novecento. Si ringrazia Roma Sparita.

    Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto, seguendo la regola, edificare in proprio l’abbazia, poiché l’ordine aveva delle precise regole architettoniche secondo le quali dovevano essere distribuiti i diversi ambienti.
    L’abbazia delle Tre Fontane è quindi l’unica abbazia cistercense non edificata dagli stessi monaci. Questi ultimi però lavorarono alla lenta e costante trasformazione degli edifici per ricondurre gli ambienti alle loro necessità. Come conseguenza di ciò la consacrazione della chiesa abbaziale avvenne nel 1221, quando sul soglio pontificio c’era Onorio III.
    Con l’arrivo dei Cistercensi il monastero si trasformò in abbazia e conobbe un periodo di straordinario splendore e grande importanza tanto che il primo abate salì sul soglio pontificio con il nome di Eugenio III.
    Nel 1294 arrivarono all’abbazia delle Acque Salvie le reliquie di San Vincenzo e i Cistercensi ottennero di festeggiare questo santo insieme a Sant’Anastasio il 22 gennaio e la concessione dell’indulgenza a chi visitava l’abbazia in questa occasione, nella ricorrenza di San Poalo e della Vergine.
    Quando la corte pontificia si trasferì da Roma ad Avignone, tra il 1309 e il 1377, iniziò per l’abbazia un periodo di decadenza, che corrispose anche a un periodo di crisi per tutto l’ordine cistercense. Tra alti e bassi la comunità dei monaci sopravvisse a molteplici difficoltà e conobbe altri momenti di splendore, anche artistico, come accade nel Seicento quando Alessandro Farnese e Pietro Aldobrandini si occuparono dell’abbazia e vi portarono a lavorare personalità come Giacomo della Porta.
    Nel 1868, dopo un breve passaggio dell’abbazia ai Francescani, nel monastero delle Acque Salvie tornano i Cistercensi. Un piccolo gruppo di frati Trappisti, provenienti dalla Germania che si trovavano a Roma di passaggio, fu, infatti, inviato lì dal papa. Al loro arrivo i monaci trovarono una situazione davvero disastrosa che trova riscontro in una precisa cronaca redatta da uno di essi: “Trovammo tutto in uno stato deplorevole. Nella basilica dei santi Vincenzo e Anastasio i buoi trovavano erba sufficiente per pascolare e vi passavano la notte. Nelle pareti esterne, i muri e alcuni edifici erano coperti da tre a sei piedi di macerie. […] I muri producevano un’umidità a guisa di stagni velenosi e questa umidità a sua volta favoriva sciami di moscerini e di altri insetti noiosi in modo che il mal capitato visitatore a mala pena si poteva schernire”.

    Colonia penale alla Tenuta dell’Abbazia delle Tre Fontane.

    I nuovi abitanti del monastero ebbero subito a misurarsi con un grave problema: la malaria. I monaci stabilirono quindi che tra le priorità c’era la bonifica delle terre e degli ambienti e misero subito mano alla costruzione di un canale per drenare le acque. Tra le varie strategie utilizzate per debellare il morbo ci fu la piantagione di eucalipti, una pianta che essendo molto bisognosa di acqua aiutò certamente la riduzione del tasso di umidità ma non ebbe un grande effetto sulla presenza delle zanzare.
    I monaci ebbero ragione degli insetti solo agli inizi del Novecento come risultato di tre azioni combinate: il drenaggio delle acque, l’uso di anti malarici chimici e la posa in opera di zanzariere alle finestre dei locali del monastero.
    Una volta debellato il morbo i Trappisti che avevano nella loro regola l’obbligo di lavorare la terra riuscirono a dare vita a una azienda agricola che permetteva loro di trarre il necessario per se stessi e anche per l’ampia comunità che si era costituita intorno all’abbazia, e che era composta di una colonia penale di condannati ai lavori forzati e di operai.
    Sui 485 ettari della tenuta si coltivavano cereali, ortaggi e frutta, si allevavano cavalli, buoi e vacche da latte, oltre che conigli e galline.

    Abbazia e quartiere E42. Si ringrazia Roma Sparita.

    La prima guerra mondiale fu un momento di arresto di tutte le attività perché tutti gli uomini abili erano stati inviati al fronte, ma queste ripresero alla fine della guerra anche se l’estensione della tenuta si ridusse sia per problemi dovuti alla difficoltà di riprendere i lavori sia perché nel 1930 furono effettuati espropri da parte del governo per acquisire terreni per la costruzione del nuovo quartiere E42/EUR.
    Gli espropri interessarono gli appezzamenti destinati a pascolo e la produzione di latte venne particolarmente colpita. Poiché il quartiere E42 non fu mai completamente realizzato su parte dei terreni espropriati ai Trappisti nel 1953 vennero collocate delle giostre che costituirono il primo nucleo del Luna Park dell’EUR, mentre sulla restante parte, in occasione delle Olimpiadi del 1960 furono realizzati gli impianti sportivi delle Tre Fontane.
    Oggi dell’antica tenuta ai margini dell’abbazia è un vasto oliveto, un piccolo orto a uso della comunità religiosa, il frantoio e la fabbrica di liquori.

    Roma, marzo 2018

  4. Basilica di San Crisogono a Trastevere