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  1. Trinità dei Monti: la chiesa, il convento, la storia.

    Trinità dei Monti, enclave francese nel Campo Marzio, vide l’inizio dei lavori nel

    Trinità dei Monti – Claude Lorrain – 1632. Si ringrazia Roma Sparita.

    1502 per volere di Luigi XII re di Francia. Questi poi si protrassero per tutto il XVI secolo e compresero anche una sosta di circa sessanta anni, tra il 1527 e il 1587 a causa dei danni e dei problemi economici successivi al Sacco di Roma del 1527. La chiesa, in stile gotico, costruita con pietre provenienti da Narbonne, fu poi consacrata nel 1585 da Sisto V.
    A causa della costruzione della strada Felice, voluta da Sisto V ovvero Felice Peretti costruttore anche del primo acquedotto di Roma dopo i danni fatti dai barbari e l’interruzione di tutti gli acquedotti, che collegò il Pincio con la basilica di Santa Maria Maggiore, l’ingresso della chiesa si ritrovò più in alto rispetto al piano stradale e per questo motivo Domenico Fontana progettò e realizzò la scalinata a doppia rampa. I pilastri di questa scala sono decorati con i tre monti che compaiono nello stemma della famiglia Peretti, mentre, sopra a due capitelli risalenti al XVII secolo, due erme con bassorilievi raffigurano San Luigi, il santo onomastico di Luigi XII.
    La chiesa resta a lungo anche separata dalla sottostante piazza di Spagna. Per tutto il 1600 e il 1700 infatti la piazza di Spagna, molto diversa dall’attuale, in terra battuta e con la barca di Bernini scenograficamente arenatasi dall’ultima inondazione del Tevere, e il colle sono due realtà scollegate tra loro. A quel tempo, per andare da un punto all’altro, era utilizzata una coppia di scale alberate molto ripide. La piazza e il colle, così separate, per più di duecento anni sono luoghi in cui due nazioni, Francia e Spagna, si misurano non con le armi, ma organizzando feste e gareggiando in sfarzosità.

    Trinità dei Monti primi del ‘900. Si ringrazia Roma Sparita.

    Le cronache riportano che la scenografia più stupefacente fu quella realizzata da Gian Lorenzo Bernini nel 1662 per la festa per la nascita del Delfino di Francia, figlio di Luigi XIV e di Maria Teresa di Spagna, di cui restano incisioni e descrizioni.
    In questa occasione piazza di Spagna venne completamente trasformata da una costruzione effimera che ricopriva la facciata della chiesa di Trinità dei Monti: sui campanili grandeggiavano le iniziali del re e della regina di Francia al di sotto delle quali era posto un delfino sovrastato da una gigantesca corona; più in basso era situata una nuvola, mediatrice tra gli elementi naturali dell’acqua, aria e terra, nel mezzo della quale una statua raffigurante la Discordia precipitava tra le fiamme.
    Molto spesso si pensò a una maniera per collegare le due realtà, ma le idee si tramutarono in realtà solo per volontà di Clemente XI che finalmente nel 1720 approvò il progetto di Francesco de Sactis che aveva molto studiato e tenuto da conto quello di Alessandro Specchi.
    Una delle più note scalinate al mondo veniva così realizzata, il colle e la piazza furono collegati con buona soddisfazione di tutti e la facciata della chiesa di Trinità dei Monti trovò il suo completamento scenografico.
    Ma oltre all’attrazione scenografica dell’insieme costituto da piazza di Spagna con la fontana della Barcaccia, la scalinata e la facciata della chiesa di Trinità dei Monti a sovrastare e a chiudere lo sguardo, ci sono diversi motivi che spingono a visitare la chiesa.

    Deposizione – Daniele da Volterra.

    Questa, ad esempio, conserva al suo interno due opere molto importanti di Daniele Da Volterra, l’allievo di Michelangelo certamente più noto per aver eseguito la censura dell’affresco del Giudizio Universale della Cappella Sistina, nel 1565 dopo la conclusione del Concilio di Trento.
    Dei due dipinti il più celebre è la Deposizione. In origine essa era parte integrante di un complesso decorativo eseguito da Daniele da Volterra nella prima metà del Cinquecento, oggi andato completamente perduto. La perdita dei due affreschi che fiancheggiavano la Deposizione rende oggi complesso compiere una lettura iconografica completa dell’opera.
    Inizialmente il dipinto era collocato sopra l’altare della cappella Orsini, mentre oggi essa si trova, completamente decontestualizzata nella Cappella Bonfili. La rimozione dell’affresco ebbe inizio probabilmente alla fine del Settecento a causa di due motivi principali: il pessimo stato di conservazione delle pitture e la volontà della Repubblica francese di trasferire a Parigi la Deposizione. L’affresco fu quindi staccato e deposto sul pavimento della cappella Orsini, ma l’arrivo delle truppe napoleoniche indusse alla sospensione dei lavori. La Deposizione fu rimossa dalla cappella nel 1809 dopo che la volta della stessa era crollata, dando un colpo definitivo alla conservazione degli affreschi. Dai documenti è noto che nel 1830 non c’era più alcuna traccia dei due affreschi laterali, né della cornice di stucco che circondava l’opera, né di tutte le altre opere in affresco della cappella.
    Oggi la Deposizione si mostra con l’aspetto che ha dopo l’accurato restauro conclusosi nel 2005. Essa è un capolavoro assoluto del manierismo che risente notevolmente, nell’impostazione scenica della precedente Deposizione del Rosso Fiorentino che probabilmente Daniele da Volterra ebbe modo di vedere quando ancora dodicenne viveva nella sua città natale. Certamente l’opera può essere confrontata con altre ma soprattutto gli studiosi oggi ritengono che non sia vero che essa sia stata realizzata su disegno preparatorio di Michelangelo.
    Così come Rosso Fiorentino anche Daniele da Volterra fa una summa tra il momento della deposizione del Cristo e quella del Compianto, introducendo, quale elemento che bilancia il Cristo morto che occupa la porzione centrale della scena, la Madre, rappresentata in basso, in uno svenimento che ricorda e richiama la morte del Figlio.
    Gli altri affreschi di Daniele da Volterra in Trinità dei Monti sono nella cappella

    Assunzione della Vergine – Daniele da Volterra.

    Rovere e sono l’Assunzione della Vergine e la Presentazione di Maria al Tempio.
    Nell’Assunzione della Vergine, quale omaggio al maestro, Daniele da Volterra inserisce un ritratto di Michelangelo ormai canuto, che guarda verso lo spettatore, ma indica la Vergine. Interessante in questo dipinto l’espediente di utilizzare l’altare della cappella come sepolcro del dipinto, in questa maniera egli l’artista ricavò lo spazio che gli era necessario per dipingere tutte le figure utili a che il racconto dell’Assunzione fosse compiuto. I piedi degli Apostoli possono così appoggiarsi sul pavimento della cappella, e due Apostoli sono appoggiati proprio all’altare. L’espediente non solo crea lo spazio necessario ma introduce un elemento di movimento addizionale che crea quasi una spirale che conduce lo sguardo alla Vergine.
    Ma si sale a Trinità dei Monti anche per entrare nel convento annesso alla chiesa gestito dal 2016 dalla Comunità de l’Emmanuel, associazione pubblica di diritto pontificio, fondata in Francia nel 1976, a partire dai componenti di un gruppo di preghiera che a sua volta si era costituito nel 1972.
    Il convento conserva sia gli affreschi illusionistici di uno dei maestri del tardo barocco romano il gesuita Andrea Pozzo, sia due opere in anamorfosi realizzate da i padri Minimi Emmanuel Maignan e Jean François Nicéron.
    Le due anamorfosi si dispiegano sulle pareti laterali dei corridoi e hanno come soggetto San Francesco di Paola in Preghiera e San Giovanni Evangelista che Scrive l’Apocalisse sull’Isola di Patmos. Le due opere sono completate da un complesso astrolabio catottrico, ovvero un orologio solare con quadrante a riflessione, realizzato da Maignan. Una particolarità dell’anamorfosi con San Francesco di Paola, realizzata da Maignan, è che essa è palindroma e quindi l’immagine del santo in preghiera è visibile da entrambi i lati del corridoio.

    Trinità dei Monti.

    L’anamorfosi di Nicéron è stata più sfortunata essendosi nel tempo conservata peggio. Ciò nonostante il restauro conclusosi nel 2009 ha mostrato un cromatismo più deciso e vigoroso di quella del Maignan, essa inoltre si sviluppa su tutta la lunghezza del corridoio. Nicéron dedica particolare cura alla descrizione del paesaggio che rende l’isola di Patmos ben riconoscibile e introduce la civetta quale simbolo della sapienza ad accompagnare una scritta in greco tornata visibile dopo il restauro e che recita: “L’apocalisse dell’ottica è testimone oculare dell’Apocalisse”.
    Le anamorfosi di Trinità dei Monti sono forse le meglio conservate e compiute di quelle realizzate a Roma. Esse sono il risultato di una particolare applicazione della prospettiva geometrica, esercizio si cui molti artisti rinascimentali si esercitarono. La caratteristica delle anamorfosi è che la prospettiva è alterata e l’immagine è distorta quando l’opera è vista frontalmente, ma l’immagine stessa si ricompone quando la visione è effettuata con un’opportuna inclinazione.

    Roma, 28 agosto 2018

  2. Racconto

    La salamandra di San Luigi dei Francesi

    Alfredo Cattabiani

    In occasione della passeggiata serale dedicata al bestiario delle meraviglie, ovvero un racconto in cammino che comprende alcuni degli animali di pietra che vivono nelle strade e nelle piazze della città di Roma, pubblichiamo questo scritto tratto dal

    Nutrisco et extinguo – San Luigi de’ Francesi.

    volume di Alfredo Cattabiani “Simboli, miti e misteri di Roma” edito da Newton Compton.
    Sulla facciata di San Luigi dei Francesi due enormi salamandre, scolpite nel XVI secolo da Jean de Chenevières, eruttano lingue di fuoco. La prima, sulla sinistra, è accompagnata dal motto: «Nutrisco et extinguo», nutro e spengo; l’altra, sulla destra, da «Erit christianorum lumen in igne», sarà la luce dei cristiani nel fuoco.
    Sono imprese di Francesco I ovvero, come spiegava il Contile (Luca Contile, Cetona, 1505 – Pavia, 28 ottobre 1574 è stato un letterato, commediografo, poeta, storico, diplomatico e poligrafo italiano, ndr) componimenti di «figura e motto, rappresentando vertuoso e magnanimo disegno».

    continua…

  3. Lo zoo delle meraviglie: gli animali di pietra a Roma

    L’Urbe offre ai suoi visitatori più attenti un repertorio sconfinato di animali: uno zoo

    Lupa Capitolina – Musei Capitolini.

    delle meraviglie scaturito da un misterioso incantesimo quasi che un mago o una fata avessero trasformato in pietra creature a volte reali, o frutto della fantasia, buone o malvage. A volte si mostrano in tutta la loro fiera bellezza, altre volte si nascondono timidi. Leoni, delfini, salamandre, grifoni: sono loro gli incredibili abitatori delle strade, delle piazze, delle facciate dei palazzi, alcune volte dei tetti delle case e delle chiese, a popolare questo straordinario bestiario di pietra. Sempre raccontano una storia: l’incontro con un gatto o il volo di un uccello possono rappresentare un presagio.
    Le formule magiche o propiziatorie evocano quasi sempre nomi di animali; essi sono per eccellenza le vittime dei sacrifici, simboleggiando l’alleanza con potenze invisibili per ottenere prosperità, gioia e fecondità. Spesso, non se ne accorge alcuno, ma attraversando piazze e vicoli, in fondo, non si è mai soli: statue e raffigurazioni di animali sono i muti testimoni di eventi storici, simboli di miti e di leggende. Ebbene, questo zoo di pietra non attende altro che essere raccontato.
    E allora non si può non iniziare dalla Lupa Capitolina: oggi possiamo ammirarla, piccola, bronzea e leggiadra, sul lato sinistro della piazza del Capidoglio e dimora qui da oltre cinque secoli. La scultura bronzea in origine era nella facciata del Palazzo Laterano e fu donata nel 1471 dal Papa Sisto IV della Rovere al “Popolo Romano”, insieme ad altre sculture bronzee. La grande e importante piazza è condivisa con un secondo animale, molto più grande e possente: il cavallo di Marco Aurelio, voluto sul colle da Papa Paolo III nel lontano 1538. Oggi entrambe le statue esposte all’aperto sono copie. Le originali si possono ammirare all’interno dei Musei Capitolini, a pochi metri di distanza. E ancora, ai piedi della cordonata che sale al colle ci aspettano due leoni egizi in granito nero, nei tempi forati e trasformati in fontanelle. Durante le feste solenni gettavano vino dei castelli invece dell’acqua.

    Marc’Aurelio e Cavallo – Musei Capitolini.

    Tanti i leoni, come quelli che ornano molte fontane romane come quella di Piazza del Popolo, o quelli che accompagnano il visitatore nel salire le scale del Vittoriano, o ancora il leone che assale un cinghiale posto sull’angolo di un palazzo su via dell’Orso. La via parla dell’orso perché nel Medioevo la belva era stata riconosciuta come un orso e non come un leone. Ma ci sono orsi posti all’ingresso di Palazzo Savelli -Orsini a Monte Savello legati alla simbologia araldica familiare. Al pari dei leoni poi sono numerosi i cavalli come quelli celebri dei Dioscuri sulla Piazza del Quirinale;
    In tutta Roma sono numerosi i fregi, le sculture, i mosaici e decori vari, di tutte le epoche, dal periodo classico romano sino al liberty, passando per il razionalismo, dedicate a una fauna estremamente simbolica. Farne un elenco completo sarebbe impossibile, le ritroviamo segnalate frequentemente anche nella toponomastica della città eterna: Via dell’Oca, Via del Gambero, Via della Scrofa, Via della Gatta, Piazza Mattei detta delle Tartarughe, Via dell’Orso, Via dei Serpenti, Via della Palomba e tantissime altre, distribuite in tutti i Rioni. Potremmo aprire una lunga battuta di caccia che incontrerebbe centinaia di animali di pietra.
    Via della Gatta è famosa per il piccolo felino egizio posto in un angolo di un cornicione di Palazzo Grazioli, ritrovato a qualche metro di distanza nel vicino santuario dedicato a Iside. La leggenda racconta che nella direzione in cui guarda la gatta dovrebbe essere sepolto un tesoro, ancora nessuno è riuscito però a trovarlo…
    I passanti frettolosi forse non notano, sopra la facciata della chiesa di Sant’Eustachio, una testa di cervo con la croce fra le corna che sovrasta la chiesa. Una leggenda medievale, narra la storia di Placido, un comandante dell’esercito romano, che fu battezzato cambiando il suo nome in Eustachio dopo aver visto l’apparizione di una croce con l’immagine di Cristo fra le corna del cervo che stava per uccidere.
    Ma anche animali fuori dall’usuale come le tartarughe della fontana di Piazza Mattei, entrata nell’immaginario della città, tanto da essere utilizzata come modello per la realizzazione di altre fontane. La vasca superiore di questa fontana fu realizzata verso la fine del Cinquecento da Giacomo della Porta. La tradizione vuole che il duca Mattei volle dimostrare al padre della sua amata di essere un uomo potente,

    Fontana delle Tartarughe – Piazza Mattei.

    contrariamente a quanto questi ritenesse, facendo erigere la meravigliosa fontana davanti alle sue finestre nell’arco di una sola notte. Le piccole tartarughe bronzee poste simmetricamente furono aggiunte solo più tardi, nel 1658, e la tradizione le attribuisce a Gian Lorenzo Bernini. Più volte trafugate ma sempre tornate al loro posto, furono oggetto di un ultimo furto nel 1981. In questa occasione la tartaruga rubata non fece ritorno al suo posto e per questo motivo le tre superstiti originali furono ricoverate nei Musei Capitolini e sostituite da copie.
    A due passi dal Pantheon, di fronte alla magnifica chiesa di Santa Maria sopra Minerva troneggia un elefantino, chiamato familiarmente il “Pulcin della Minerva”, il nome sembra essere un ingentilimento della parola “porcin” dato dai romani alla statua perché ritenuta tozza. Il simpatico mammifero proboscidato in marmo, realizzato da Gian Lorenzo Bernini nel Seicento. Molti racconti beffardi ne sottolineano le sue terga ben in mostra verso le finestre di un palazzo che ospitava un architetto domenicano rivale del Bernini.
    L’opera del Bernini s’ispira a un’illustrazione dell’Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo d’amore del XV secolo, considerato una delle più belle opere prodotte da Aldo Manunzio, di cui il papa Alessandro Chigi possedeva una copia. In questo romanzo il protagonista, Polifilo, incontra un elefante che porta in equilibrio sulla groppa un elefantino. L’elefantino era considerato un simbolo di virtù ed equilibrio, qualità che ciascun credente doveva possedere, supportato dalla sapienza divina,

    Il “pulcin della Minerva” – Gian Lorenzo Bernini – Piazza della Minerva.

    rappresentata dall’obelisco.
    Lasciato l’elefantino, sulla facciata della chiesa di San Luigi dei Francesi troviamo due salamandre che eruttano fiamme. Questo animale ci riporta ad una leggenda asiatica secondo la quale la salamandra alimenta il fuoco benefico mentre spegne quello nocivo. Su di esse compaiono infatti due iscrizioni in latino: nutro ed estinguo e sarà la luce dei cristiani nel fuoco. Sebbene possa sembrare strano l’abbinamento salamandra-chiesa, questo ha ovviamente una valida spiegazione: sin dai tempi antichi, infatti, la salamandra fu associata alla capacità di far fronte alle avversità della vita e alla fede che non vacilla di fronte al fuoco del martirio o delle passioni terrene. Si era infatti convinti che questo animale avesse la capacità di non bruciarsi e addirittura di spegnere il fuoco. Ecco dunque la chiave di lettura cristiana legato alla salamandra: nutro il fuoco della fede e spengo quello delle passioni carnali; esempio inoltre di rettitudine durante le avversità. La corona posta sull’animale indica invece la regalità della casata francese, san Luigi fu infatti sovrano di Francia nel XIII secolo.
    Poi le api. Un vero sciame di api ronza su Roma. Le api dello stemma della famiglia Barberini. Talvolta svolazzano alla luce del sole nella piccola Fontana delle Api del Bernini all’inizio di via Veneto e intorno alla Barcaccia a piazza di Spagna, o alla luce dei ceri nei quattro basamenti in marmo dell’Altare della Confessione nella Basilica di San Pietro, intrappolate nel calcare della Fontana delle Rane a piazza Mincio, talvolta all’ombra dei chiaroscuri degli affreschi di Palazzo Barberini o delle code dei delfini della Fontana del Tritone, ovviamente in piazza Barberini…

    Il Toro del Mattatoio – Testaccio.

    Dal centro storico di Roma, restando sullo stesso lato del Tevere, portiamo la nostra ricerca a Testaccio. Nel cuore del quartiere è da anni presente un grande spazio dedicato all’arte contemporanea. Per il Macro Testaccio è infatti stato restaurato e riorganizzato una grande parte del complesso che fu il Mattatoio di Roma. Il vastissimo complesso, oggi spartito tra Museo e diverse altre realtà culturali, fu progettato sul finire dell’Ottocento da Gioacchino Ersoch. Il nuovo Mattatoio era all’avanguardia per norme igieniche e per lo smaltimento. Un luogo della nostra città dove gli animali non ebbero mai vita facile. All’ingresso del Macro, ovvero di quello che era il Mattatoio, ancora si erige un muscoloso e misterioso toro. Di fronte al Macro, alzando lo sguardo in direzione di, Via Galvani, da un paio di anni è presente un grandissimo lupo, il Jumping Wolf realizzato dal famoso artista Roa. Al calare della sera, proprio in questa zona dell’ex Mattatoio, si possono incontrare molte carrozzelle trainate da stanchi cavalli che rientrano dopo aver trascorso la giornata in giro per la città, trasportando centinaia di turisti a visitare gli altri luoghi della città eterna, quelli citati in tutte le guide di viaggio.

    Roma, 1 luglio 2018.

  4. Galleria Borghese. La regina delle raccolte private.

    Nel panorama urbanistico della Roma barocca Villa Borghese rappresenta un modello ed un’esemplificazione del gusto architettonico e del modo di conciliare l’arte e la natura. (cfr. Scipione Borghese, collezionista incontenibile ).

    Facciata di Villa Borghese – Johann Wilhelm Baur.

    La sistemazione della villa inizia intorno all’anno 1606, quando Scipione Borghese acquista nuovi terreni da aggiungere all’iniziale proprietà della famiglia nei pressi dell’attuale Muro Torto. Due importanti strade pubbliche, la via delle Tre Madonne e la via Traversa, lambivano e delimitavano la nuova proprietà.
    Nel progetto di Scipione Borghese la villa sarebbe stata un luogo di delizia e riposo, di rappresentanza e di accoglienza per gli ospiti, dove la cospicua raccolta antiquaria avrebbe trovato una sua collocazione e mostra. Una parte di questa collezione trovò dimora nelle stanze del Casino Nobile, oggi Galleria Nazionale Borghese, mentre altri arredi antichi, come rilievi e sarcofagi, statue e vasi, furono collocati a ornamento delle facciate dello stesso Casino Nobile, e sparsi nel giardino tra portoni, fontane, viali e piazzuole.
    Il progetto, innovativo e complesso anche dal punto di vista della comunicazione, era il riflesso del clima di rinascita urbanistica che caratterizzò il pontificato di Paolo V, e contribuì all’ostentazione di magnificenza e potenza della famiglia Borghese.
    Vari architetti parteciparono alla realizzazione della villa di Scipione: Flaminio Ponzio, 1560 – 1613, che progettò l’impianto architettonico della villa e dei giardini, poi, a causa della morte prematura di quest’ultimo, Giovanni Van Santen detto Vasanzio, 1550 – 1621 e ancora Girolamo Rainaldi, 1570 – 1665.

    Pala Baglioni – Raffaello.

    L’edificio principale era, ed è, il Palazzo, o Casino Nobile intorno al quale furono progettati gli spazi verdi, delimitati da veri e propri muri, e perciò chiamati recinti. Il Casino Nobile fu quindi concepito come il fulcro del complesso edifici – giardini, e lo spazio verde intorno ad esso fu organizzato in funzione di un costante dialogo reciproco, fatto di rimandi e richiami continui, con il Palazzo e con ciò che vi era contenuto.
    Il Palazzo fu impostato su una doppia scalinata d’ingresso, una loggia scandita da cinque arcate, su cui insisteva una terrazza ornata di statue. Due torri completavano il prospetto anteriore impreziosito da un esuberante apparato decorativo. Una serie di nicchie e di ovali conteneva statue e busti di marmo, con lo scopo di evidenziare la funzione espositiva sia esterna che interna dell’edificio. Il vasto piazzale antistante fu delimitato da una balaustra arricchita di sedili e di fontanelle e sormontata da statue antiche.
    All’interno del Casino Nobile si iniziò ad allestire quella che, ancora oggi, è definita “la regina delle raccolte private del mondo”, iniziata nel 1607, ovviamente, dall’eclettico cardinale Scipione Borghese.

    Ratto di Proserpina – Bernini.

    Gli spazi, la decorazione degli ambienti e gli arredi del Casino Nobile furono pensati e scelti da Scipione Borghese, in accordo con i suoi architetti e artisti, in funzione delle opere che gli ambienti stessi avrebbero ospitato, secondo quel gusto scenografico proprio del Barocco che via via diveniva più maturo. Le pareti ad esempio furono foderate di cuoio azzurro e le statue del Bernini certamente collocate in maniera tale da sorprendere il visitatore che tra esse si sarebbe aggirato. Arrivano a noi documenti Ci sono che attestano che l’opera berniniana nota oggi con il nome di “Ratto di Proserpina”, ma nel Seicento nota come “Plutone e Proserpina”, fu collocata contro una parete di una sala aperta sulla loggia, che quindi dava sul giardino, incorniciata da una sorta di porta, che infatti era detta “Porta di Plutone”. In questa maniera allo spettatore sarebbe davvero parso che Plutone fosse appena uscito dalla porta del suo inferno e stesse proprio in quell’attimo afferrando Proserpina, la sua preda.
    L’apparato scenografico era completato da un’iscrizione e da un busto di Paolo V e aveva anche un particolare messaggio politico rivolto a Ludovico Ludovisi a cui l’opera era in realtà destinata.
    Il Palazzo e i giardini, in effetti, avevano più piani di lettura che andavano oltre la semplice necessità di esporre un’immensa collezione d’arte, creare un ambiente rilassante e utile per feste e banchetti.

    Danae – Correggio.

    Molti di questi piani comunicativi sono oggi andati persi soprattutto a seguito dell’imponente opera di ammodernamento avviato a partire dalla seconda metà del Settecento da Marcantonio IV Borghese, teso a portare il Casino Nobile e la villa più vicina al gusto Neoclassico che andava via via affermandosi.
    Il Casino venne così ristrutturato sotto la direzione di Antonio e Mario Asprucci. Il rigore neoclassico fece scomparire parte dell’originale decorazione barocca, ad esempio quella in cuoio, e molti degli effetti scenografici, tra cui quelli che erano stati creati per esaltare la dinamicità e il significato politico dei gruppi del Bernini, e anche il giardino fu riorganizzato prendendo come modello il giardino neoclassico all’inglese, venendo così a perdere in parte il ruolo di controparte nel dialogo con il Palazzo.
    Grazie all’azione di Scipione il nucleo originario della collezione d’arte antica, capace di conferire nel Seicento un’aura d’ideale universalità alle collezioni artistiche, andò ulteriormente arricchendosi dapprima con l’acquisto nel 1607 delle raccolte Della Porta e Ceuli, poi grazie a straordinari rinvenimenti occasionali, quali il celeberrimo Gladiatore, oggi al Louvre, trovato nei pressi di Anzio, e l’Ermafrodito, scoperto durante gli scavi nei pressi della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a cui Bernini regalò lo splendido materasso, anch’esso oggi al Louvre.

    Apollo e Dafne – Bernini

    In questa maniera allo splendore dei marmi archeologici faceva eco la straordinaria novità della statuaria moderna, in costante competizione con i modelli classici. Dal 1615 al 1623 Gian Lorenzo Bernini eseguì per il cardinale i celeberrimi gruppi scultorei ancora oggi conservati nel Museo: la Capra Amaltea, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne.
    Un quadro abbastanza attendibile della collezione di opere d’arte di Scipione Borghese è fornito, in assenza di un preciso inventario di riferimento, dalla descrizione della villa edita nel 1650 a opera di Giacomo Manilli, che illustra, oltre l’interno del Casino Nobile, anche il suo esterno e i giardini. Alla fine del Seicento i Borghese potevano così contare su una raccolta di circa ottocento dipinti e su una delle più celebrate collezioni di antichità a Roma, oltre a uno sterminato patrimonio immobiliare. Per volere del cardinale, alla sua morte tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a uno strettissimo vincolo attraverso un fedecommesso, istituzione giuridica che preservò l’integrità della collezione fino a tutto il XVIII secolo.
    Alla già cospicua collezione di arte antica altri pezzi si andarono ad aggiungere nel 1791 a seguito della scoperta dell’antica città dei Gabii, in una proprietà della famiglia lungo la via Prenestina. Fu così che Marcantonio IV chiese a Mario e Antonio Asprucci l’allestimento di un nuovo padiglione espositivo che fu realizzato ristrutturando uno degli edifici della villa, oggi il Casino dell’Orologio. Tra i diversi reperti fu qui esposta la “Diana dei Gabii”, oggi al Louvre di cui, nella seconda metà dell’Ottocento, Alessandro Torlonia si fece realizzare una copia in ghisa da esporre nel giardino della sua villa lungo la Nomentana.

    Paolina Borghese come Venere Vincitrice – Canova.

    La raccolta Borghese di arte antica subì numerose perdite quando la villa divenne proprietà di Camillo Borghese. Questi convinto che Napoleone non sarebbe mai caduto e ascoltando sua moglie Paolina, sorella di Napoleone, vendette a quest’ultimo, moltissime delle opere della collezione, che tra la fine del 1807 e il 1808, furono smontate dalla loro sede originaria e trasportate al Museo del Louvre, di cui oggi costituiscono uno dei nuclei fondamentali della collezione archeologica. La collezione di arte antica fu solo in parte reintegrate da nuovi acquisti e rinvenimenti in corso di scavi diretti dal nuovo architetto di famiglia: Luigi Canina, 1795 – 1856, il quale curò il nuovo ampliamento della villa verso la Flaminia e i nuovi arredi.
    Camillo acquistò per integrare ulteriormente le perdite la Danae del Correggio e commissionò a Antonio Canova il Ritratto di Paolina quale Venere Vincitrice, con il pomo tenuto delicatamente tra le dita e adagiata su un meraviglioso materasso di marmo che lega indiscutibilmente l’opera dell’immenso scultore neoclassico a quella dell’immenso scultore barocco che aveva lavorato in quei medesimi ambienti ducento anni prima.

    Amor sacro e amor profano – Tiziano.

    Nel Seicento però Scipione non fu solo un collezionista di opere d’arte antica, ma raccolse un’imponente collezione di opere di vari periodi e di diversa provenienza. Non tutte le opere arrivarono nelle sue mani sempre a seguito di acquisti. Ad esempio nel 1607, attraverso il sequestro dei dipinti dello studio del Cavalier d’Arpino seguiti ad una denuncia dello stesso per detenzione di armi di cui il d’Arpino era un collezionista, Scipione Borghese, entrò in possesso di circa cento dipinti, tra cui alcune opere giovanili di Caravaggio, di cui faceva parte il Bacchino malato. Nello stesso anno acquisì la collezione del patriarca di Aquileia, mentre nel 1608 furono acquistati settantuno straordinari dipinti appartenenti al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, fra i quali, si ipotizza, la presenza dell’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano, del Ritratto di Giulio II, oggi alla National Gallery di Londra, e della Madonna del velo di Raffaello, oggi al Musée Condé di Chantilly.

    Madonna dei Palafrenieri – Caravaggio.

    L’estrema spregiudicatezza di Scipione nell’accaparrarsi le opere d’arte e nell’assecondare la sua passione di collezionista moderno è testimoniata da numerose vicende, come quella dell’acquisto nel 1605 della Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio, rifiutata dalla Confraternita poco tempo prima dell’esposizione nella cappella in San Pietro – forse per volontà dello stesso pontefice che esaudiva così un desiderio del cardinal nepote – o, ancora, dal rocambolesco trafugamento della Deposizione Baglioni di Raffaello, prelevata per volere di Scipione dal convento di San Francesco a Prato, fatta calare dalle mura della città nella notte tra il 18 e il 19 marzo 1608 e in seguito dichiarata “cosa privata del cardinale” da Paolo V. Altre opere di Raffaello erano presenti nella raccolta Borghese, quale prova evidente della sua indiscussa eccellenza: le Tre Grazie, oggi al Musée Condé di Chantilly, il Sogno del Cavaliere e la Santa Caterina, oggi alla National Gallery di Londra, facente parte del gruppo di opere vendute da Camillo durante gli anni d’impero di Napoleone.

    Roma, 10 giugno 2018.