prima pagina

  1. Il genio di Pietro da Cortona e la Cortona di Palazzo Pamphilj

    Scrive lo storico dell’arte Rudolf Wittkover: «Il genio di Pietro Berrettini, chiamato di

    Galleria Cortona – Veduta d’Insieme – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    solito Pietro da Cortona, fu secondo solo a quello del Bernini. Come lui fu architetto, pittore, decoratore e disegnatore di tombe e di sculture, per quanto non scultore egli stesso. I suoi successi in tutti questi campi devono essere collocati fra i più notevoli del XVII secolo. A Bernini e Borromini è stata restituita la posizione eminente a loro dovuta. Non così al Cortona… Invero, il nome del Cortona è il terzo del grande trio di artisti romani del barocco e la sua opera rappresenta un aspetto di questo stile nuovo e assolutamente personale» (Arte e Architettura in Italia 1600-1750, Einaudi 1993, Torino, pp. 533).
    Date le autorevoli premesse dello storico dell’arte tedesco, non c’è dubbio che una delle opere più rappresentative di questo genio del Seicento romano sia la Galleria di Palazzo Pampilj di Piazza Navona, sede dell’Ambasciata del Brasile. Palazzo appartenuto alla famiglia Pamphilj dal 1470 e completamente rinnovata dal cardinal Giovan Battista Pamphilj che, a partire dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, quali Bernini e Borromini per progettare l’intero isolato. La facciata, caratterizzata da linee molto sobrie, fu realizzata da Girolamo Rainaldi mentre Borromini fu responsabile del progetto della chiesa, della Sala Palestrina e della Galleria Cortona, affrescata da Pietro da Cortona con le storie di Enea. Prima di allora, l’artista aveva già realizzato per papa Urbano VIII Barberini, il suo maggior sostenitore, gli affreschi raffiguranti le Storie di santa Bibiana, santa Demetra e san Flaviano, per la parete sinistra della navata della chiesa paleocristiana di Santa Bibiana, restaurata in quegli stessi anni da Gian Lorenzo Bernini.
    A introdurre il Berrettini nella cerchia barberiniana fu quasi certamente Marcello Sacchetti, nominato nel 1623 depositario generale e tesoriere segreto della Camera Apostolica. Per lui l’artista stava eseguendo le grandi tele con il Sacrificio di Polissena e il Trionfo di Bacco, Roma, Pinacoteca Capitolina.
    Nel 1628 viene assegnata al Cortona la commissione per la pala d’altare della Cappella del Sacramento in San Pietro, opera in un primo tempo affidata a Guido

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Reni. La pala, raffigurante la Trinità, una grandiosa macchina di nuvole e di angeli, tuttora in loco ma poco visibile perché parzialmente nascosta dal tabernacolo del Bernini, sarà terminata nel 1631. La cifra pagata, mille scudi, dimostra la posizione raggiunta dall’artista che, solo tre anni dopo, sarà nominato Principe dell’Accademia di San Luca. La commissione della pala d’altare per San Pietro aveva, naturalmente, una grande importanza per la carriera dell’autore. Subito dopo Urbano VIII gli affida la decorazione di alcuni ambienti del nuovo Palazzo Barberini.
    Nel 1633 iniziano i lavori della volta del salone, certamente l’opera più importante del Cortona, il manifesto della nuova pittura barocca, in qualche modo contrapposta al classicismo di Andrea Sacchi. Tra il 1633 e il 1639 Berrettini lavora, con alcune interruzioni, all’immenso soffitto nel quale dovrà affrescare, secondo le precise indicazioni del soggetto dettate dal poeta Francesco Bracciolini, il Trionfo della Divina Provvidenza e il compimento dei suoi fini attraverso il potere spirituale e temporale del papato ai tempi di Urbano VIII. Concluderà quell’opera grandiosa – concepita come una visione unitaria, per essere abbracciata con un unico sguardo – in soli due anni: il 10 dicembre 1639 il Trionfo della Divina Provvidenza, che celebra soprattutto il trionfo dei Barberini, sovrani con potere assoluto, verrà inaugurato da Urbano VIII. Le due distinte personalità del Cortona, pittore sapiente e architetto, si erano riunite per creare quella straordinaria e aerea costruzione di spazi, scene e personaggi che forma la perfetta struttura d’invenzione e realtà del soffitto barberiniano. Qui, tutto ciò che è immaginato come finto è contenuto nei limiti della cornice marmorea, mentre il resto è immaginato come vero, come scrosciante apparizione: cielo, nuvole, rocce, fiamme, alberi, fontane e la folla innumerevole delle figure che scavalcano la cornice. Tra un viaggio a Firenze e l’altro, l’artista lavora al progetto architettonico per la chiesa dei Santi Luca e Martina, sede dell’Accademia di San Luca, progetto al quale il Cortona, in

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    quanto Principe dell’Accademia, si dedica fin dal 1634-1635 e che si conclude nel 1650, e ai diversi interventi pittorici a Santa Maria in Vallicella, la chiesa degli Oratoriani. Qui egli lavora, a più riprese, con uno spirito quasi caritatevole fin dal 1633, quando affresca, in contemporanea con il soffitto Barberini, “con buonissima conditione”, quindi a buon prezzo, la volta della sacrestia, poi, nel decennio successivo, tra il 1647 e il 1651, la cupola, più tardi la tribuna e i pennacchi e, infine, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1664 e il 1665, la volta della navata, un intervento di grandi dimensioni che in qualche modo conclude la carriera artistica del Cortona. Dopo il soggiorno fiorentino durato dal 1641 e il 1647 dove realizza, a Palazzo Pitti affreschi alla Sala della Stufa e per altre cinque stanze, le Sale dei Pianeti al primo piano di Palazzo Pitti, Pietro da Cortona torna a Roma dove compra casa in via della Pedacchia, nei pressi del Campidoglio (edificio distrutto alla fine dell’Ottocento per la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II). Negli anni successivi, tra il 1651 e il 1654, papa Innocenzo X Pamphilj gli commissiona la decorazione della galleria costruita dal Borromini nel palazzo di famiglia a piazza Navona. È questa la prima commissione affidata dal nuovo papa al Berrettini, che era stato il pittore dei Barberini. Il palazzo Pamphilj di piazza Navona a Roma si configurava come un esempio estremamente significativo di cantiere barocco e della vita sociale che vi si svolgeva. Il suo passaggio da palazzo cardinalizio a palazzo papale, le lunghe vicende architettoniche che si conclusero con un unicum straordinario, la Galleria progettata da Francesco Borromini con una posizione inedita rispetto alla pianta, la complessa decorazione che vede una evoluzione del sistema del fregio ad affresco e la realizzazione del capolavoro degli anni Cinquanta di Pietro da Cortona, lo rendono uno dei complessi più interessanti per lo studio del palazzo barocco romano. Diversamente dalla decorazione della volta del salone barberiniano, vero dispiegamento di immagini allegoriche, qui i soggetti prescelti, tratti dall’Eneide e legati all’origine della famiglia Pamphilj, rivelano una forte componente narrativa che inizia con l’arrivo di Enea nel Lazio e giunge fino alla discesa dell’eroe agli inferi. Sui lati brevi della galleria si trovano due eleganti finestre, uniche fonti di luce e, al di sopra, lo stemma di Innocenzo X con il motto latino Sub Umbra Alarum Tua, proteggimi all’ombra delle tue ali. Il disegno dell’ambiente e delle decorazioni in stucco si deve alla mano del Borromini. La decorazione della volta con il Ciclo di Enea fu iniziata da Pietro da Cortona nel 1651 e la concluse nella primavera del 1654, ricevendo un compenso di 3.000 scudi.
    Come luogo privilegiato del palazzo, la galleria doveva essere uno spazio che

    Enea sulla sua nave accompagnato da Nettuno – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    suscitasse meraviglia. Qui il padrone di casa conduceva gli ospiti più raffinati, principi, prelati e intellettuali, e li invitava ad ammirare i suoi capolavori. La galleria doveva essere quindi uno spazio autonomo, edificato allo scopo di stupire l’ospite attraverso le trovate degli artisti di maggior ingegno. E Pietro da Cortona riesce nell’intento: risolve la difficoltà di affrescare uno spazio così lungo suddividendolo in diversi scomparti, e al tempo stesso riesce a fondere insieme le diverse scene, senza creare una cesura tra una e l’altra. La volta risulta formata da un grande riquadro centrale, affiancato da due grandi medaglioni laterali, secondo l’idea del “quadro riportato”. Le cornici degli ovali sono arricchite da ghirlande e sostenute da figure femminili e maschili in finto marmo. Le scene narrate alle estremità risultano prive di cornica e sono collocate sotto un unico cielo che rende fluido l’insieme creando un effetto atmosferico e naturalistico tipico della pittura barocca. Ma, prima di interpretare il tema degli affreschi, va sottolineato che la scelta delle storie cadde sul tema mitologico legato alla figura di Enea perché lo stemma Pamphilj ha al suo interno una colomba bianca. E la colomba era simbolo di Venere, dea dell’amore e madre di Enea, il mitico fondatore di Roma. Era questo, quindi, un motivo sufficiente a ispirare un affresco che avesse come tema centrale alcune vicende tratte dalla storia di Enea.
    Le vicende di Enea cominciano dal lato della volta verso la piazza, dove troviamo il primo grande ovale. Qui si vede Giunone che, giunta in Eolia, patria dei venti, supplica Eolo, riconoscibile dalla corona, affinché scateni venti e tempeste contro l’armata capitanata da Enea che si stava dirigendo verso le coste italiche. La storia continua sul lato destro dove si vede Nettuno, dio dei mari, che, irato, minaccia i venti che hanno reso il mare burrascoso. I venti vengono mandati nei loro anfratti e il mare torna a essere tranquillo e calmo. Nettuno appare assiso sopra un carro trainato da cavalli marini e attorniato da putti, ninfe e tritoni, consueti

    Nettuno sul carro placa i venti – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    accompagnatori del dio dei mari.
    Giunti presso la grande finestra, si nota una medaglia dipinta a chiaroscuro che raffigura Enea, in un bosco, che cerca il ramo d’oro o d’ulivo, da portare in dono a Proserpina. Il ramo avrebbe consentito a Enea di entrare e uscire dagli inferi. Durante la ricerca del ramo gli appaiono due colombe che gli indicano dove trovarlo e poi volano via. Enea, dopo aver trovato il ramo, fa ritorno in Sicilia.
    Sotto la medaglia si vede Enea che, accompagnato dalla Sibilla Cumana, a sinistra, incontra Cerbero, a destra, il cane a tre teste addetto a sorvegliare le porte degli inferi. Il terribile cane viene addormentato dalla Sibilla con un pane di mele affinché non emetta il triplice latrato. Finalmente Enea, entrato nell’aldilà, può vedere l’anima del padre Anchise.
    Continuando in senso orario si vede Enea sulla sua nave, accompagnato da Nettuno che, con i suoi tritoni, spinge le navi dei Troiani affinché non passino nei pressi della spiaggia della maga Circe, la quale avrebbe tramutato gli uomini di Enea in orsi, cinghiali, leoni e lupi. Enea giunge finalmente a un bosco dove vede il fiume Tebro e, alla sua vista., sembra quasi che voglia saltare e toccare terra.
    Ora, percorrendo l’intera lunghezza della galleria fino a raggiungere l’altra grande finestra, si può vedere sopra lo stemma una grande medaglia: vi è rappresentato un gioco che si teneva ogni anno in Sicilia per commemorare Anchise. In tale occasione, Enea fece innalzare un albero di nave, sulla cui sommità fece legare una colomba. I concorrenti dovevano colpirla con una freccia.
    Nel grande riquadro centrale della galleria si trova un medaglione, in cui è narrata la scena di come Enea trovò la troia bianca, con trenta piccoli, accovacciata vicino al fiume Tebro. In precedenza, il Tebro gli era apparso in sogno dicendogli che il luogo dove avesse trovato l’animale era quello in cui avrebbe dovuto fermarsi e fondare il suo regno. Enea avrebbe dovuto sacrificare l’animale e tutti i suoi piccoli a Giunone, per attirare la sua benevolenza.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Ritornando nei pressi della finestra opposta alla piazza si vede Pallante, a sinistra, figlio di Evandro, re degli Arcadi, che con due navi sta attraversando il fiume. Enea gli mostra il ramo d’ulivo in segno di pace, cosicché viene accolto e condotto alla presenza di Evandro.
    Sul lato sinistro della volta è rappresentato il momento in cui Enea giunge al cospetto di Evandro in compagnia di Pallante e qui il re dei Troiani chiede a Evandro aiuto per combattere i Rutili. L’aiuto viene concesso e, al termine del dialogo, Evandro invita Enea alla festa che tutti gli anni si tiene in onore di Ercole per ricordare Caco, famoso ladro di armenti. La statua di Ercole è collocata sullo sfondo.
    Nell’altro grande ovale si vede Venere che cerca di convincere Vulcano, suo marito, a forgiare armi per Enea, suo figlio. Venere giace su una nuvola con accanto Cupido che gli mostra alcune armi già forgiate. Vulcano appare in basso, appoggiato a una corazza, mentre accanto i ciclopi continuano il loro lavoro. Nell’altra medaglia, collocata accanto al riquadro centrale, si vede Venere che appare al figlio Enea, che stava camminando, e gli mostra le armi avute da Vulcano. Enea si ferma per ammirarle.
    Nell’affresco centrale viene rappresentato il momento in cui Giove, re dell’Olimpo, chiama intorno a sé tutti gli dei per cercare un accordo di pace. Venere, affiancata da Cupido, si lamenta del pericolo che i Troiani corrono e dell’odio che Giunone nutre nei loro confronti. Giunone, al contrario, attribuisce ai Troiani colpe e disgrazie. Giove si rimette alla decisione della giustizia; quest’ultima appare al centro della composizione, vestita di azzurro con la bilancia in mano. Contemporaneamente la furia, in basso a sinistra, discende verso gli inferi e l’odio viene quindi annientato. Tra le altre divinità si riconoscono Mercurio con la tromba e il doppio serpente intrecciato, Bacco con la coppa e un grappolo d’uva, e Pan, la divinità dei boschi, con il flauto.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    L’ultima scena, collocata a destra della volta – guardando la finestra che affaccia su via dell’Anima – rappresenta Turno che sfida Enea sotto le mura della città di Laurento. Turno viene sconfitto e ferito e, pur di avere salva la vita, si sottomette al volere di Enea. Il vincitore sta per accordargli il perdono quando vede addosso a Turno la cinta del suo amico Pallante, segno della sua morte. Enea, colto allora da un moto d’ira, uccide Turno per vendicare Pallante.
    L’opera di palazzo Pamphilj suscitò grande consenso e ammirazione poiché rispecchiava appieno il gusto estetico del tempo e consacrava Cortona come uno dei massimi pittori del Seicento. Se infatti nella volta dei Barberini, una delle sue imprese più impegnative, l’artista aveva seguito la sua vena più irruente, utilizzando uno spazio completamente aperto che sovrasta e schiaccia lo spettatore, nella volta pamphiljana l’artista ha preferito una partizione ritmica dello spazio, offrendo al visitatore la possibilità di “leggere“ le singole scene. Anche l’uso del colore risponde a una tavolozza chiara e leggera, che conferisce alla narrazione un tono aggraziato e mai cupo. Cortona, con gli affreschi di palazzo Pamphilj, raggiunge un grado di maturità sorprendente e si pone come punto di riferimento per la pittura del secolo successivo.

    Roma, 28 ottobre 2018

  2. Spezieria di Santa Maria della Scala

    L’antica Spezieria di Santa Maria della Scala, si trova al primo piano del convento dei Carmelitani Scalzi. La tradizione della preparazione di medicamenti da parte dei

    Antica Spezieria – Sala Principale.

    Carmelitani nasce dal fatto che i frati di quest’ordine hanno nella loro regola l’obbligo non solo di coltivare un orto, ma nell’ambito di quest’ultimo di coltivare piante medicinali allo scopo di elaborare medicamenti atti a curare i frati stessi della comunità.
    I Carmelitani hanno acquisito nel tempo una grande competenza non solo nel riconoscimento delle specie vegetali con proprietà medicinali, ma anche una grande abilità nell’isolare principi attivi e capacità nella loro combinazione al fine di preparare nuove ricette a scopo medicinale.
    La piccola Spezieria del convento divenne così via via un vero e proprio laboratorio farmaceutico che nel Seicento fu aperta al pubblico, divenendo la prima farmacia di Roma e una delle farmacie più note in tutta Europa. Essa si guadagnò inoltre l’appellativo di “Farmacia dei Papi”, poiché, a partire da Pio VIII, divenuto papa nel 1829, ricorrevano ai suoi preparati anche principi e cardinali. La farmacia ha funzionato ininterrottamente alla preparazione dei farmaci galenici fino al 1954 e ha venduto farmaci fino al 1978.
    Tra i frati quello che fu maggiormente apprezzato per le sue capacità nel combinare erbe e principi per ottenerne medicamenti fu certamente Fra Basilio della Concezione. Vissuto tra il 1727 e il 1804, fu colui che mise a punto due medicamenti che resero particolarmente famosa la Spezieria: l’Acqua di Melissa, un estratto di droghe che avevano lo scopo di curare l’isterismo e le convulsioni, e l’Acqua Antipestilenziale, che veniva utilizzata per proteggersi dalle malattie contagiose e di cui Fra Basilio non rivelò mai la composizione.

    Pubblicità per l’Acqua di Melissa.

    Fra Basilio è ritenuto anche l’autore del Trattato delli Semplici, un erbario di duecentoquaranta pagine, considerato uno dei più completi testi, giunto fino a noi, in cui sono descritte e illustrate decine di varietà di piante, conservate essiccate attaccate alle pagine del libro stesso. Il Trattato è ancora oggi conservato presso la Spezieria.
    Nel dipinto conservato anch’esso presso la spezieria Fra Basilio è ritratto mentre insegna ad un gruppo di discepoli. La Spezieria, infatti, era completata da una scuola, diretta a frati e laici, nella quale si potevano imparare i segreti delle erbe, loro trattamento e la preparazione dei diversi medicamenti. Dal pontificato di Pio VIII alla Spezieria furono concessi privilegi, purché, come stabilì Gregorio XVI, i “capi – speziali si munissero dell’alta matricola, e i giovani e i subalterni della bassa”.
    Un altro dei medicamenti famosi era la così detta Acqua della Scala, una lavanda antinevralgica usata per curare le affezioni delle prime vie respiratorie e i dolori reumatici.
    Molti dei vasi, delle bottiglie e dei contenitori originali contengono ancora le preparazioni che si affollavano sugli scaffali della farmacia. Di particolare interesse è la vasca di alabastro che contiene ancora la theriaca, un farmaco elaborato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, sulla base di una ricetta divenuta bottino di guerra di Pompeo quando questi sconfisse Mitridate.
    La leggenda narra infatti che Mitridate era ossessionato dalla paura di morire in seguito ai morsi della vipera e per questo chiese che venisse preparato un antidoto al veleno di questo animale. Il medicamento fu così preparato dai sacerdoti del Tempio di Apollo a Colofone nel regno di Pergamo. La sua composizione fu descritta in un poemetto didascalico in esametri composto da Nicandro nel 130 avanti Cristo e probabilmente fu proprio questo poemetto ad entrare nel bottino di guerra di Pompeo. La leggenda narra pure che Mitridate, temendo di essere portato a Roma quale schiavo, prima cercò di avvelenarsi, ma essendo divenuto immune al veleno dovette subire l’onta di morire per mano dei suoi nemici.

    Avventori nella Spezieria.

    La morte di Mitridate fu descritta da Cassio Dione nella sua “Storia Romana”: “Mitridate, dopo aver tentato di togliere di mezzo assieme a lui, col veleno, prima le sue mogli e poi i figli rimasti, aveva mandato giù il contenuto della fialetta; però, né in quei termini né per la spada, era stato in grado di perire con le sue stesse mani. Il veleno, infatti, era sì letale, ma non prevalse su di lui (dal momento che egli aveva plasmato la sua costituzione per resistergli, prendendo ogni giorno l’antidoto ad esso in grandi dosi); e il colpo di spada non fu portato con forza, se si tiene conto della debolezza della sua mano, causata dall’età e dalle attuali sventure nonché risultato del veleno, qualsiasi cosa esso fosse. Quando, perciò, fallì nel tentativo di togliersi la vita con le sue sole forze, ed essa sembrò attardarsi oltre il momento giusto, quelli che lui aveva mandato contro suo figlio gli si lanciarono addosso e ne affrettarono il trapasso con le lame delle spade e le punte delle lance. Tuttavia Mitridate, che aveva sperimentato nella vita le cose più varie e notevoli, non ebbe comunque una fine ordinaria a quella sua esistenza. Poiché desiderava morire, anche se non di sua sponte; e benché fosse smanioso di suicidarsi, non poté riuscirvi; ma in parte per mezzo del veleno ed in parte per mezzo della spada, egli si suicidò e contemporaneamente fu ammazzato dai suoi nemici.”

    Mitridate VI di Ponto.

    La theriaca messa a punto da Andromaco il Vecchio aveva però una formulazione nuova e faceva uso di cinquantasette sostanze diverse tra cui la carne della vipera, considerata un antidoto infallibile proprio contro il veleno della vipera, poiché si è a lungo pensato che, nelle carni di un animale velenoso, dovesse essere contenuto pure l’antidoto a quel veleno.
    La ricetta della theriaca è andata nel tempo modificandosi tanto che ne esistevano diverse molteplici versioni; queste l’avevano trasformata da un antidoto al veleno di vipera a quello di medicamento in grado di combattere diverse malattie. Ancora tra il XVI e il XVIII secolo le theriache basavano la loro composizione sulla carne essiccata di vipera, considerata elemento base imprescindibile a cui venivano aggiunte una componente amara fornita da erbe come il tarassaco, il timo, l’incenso, l’angelica, una componente sedativa costituita da valeriana, oppio a altre erbe, una componente astringente, una addolcente costituita da miele attico e liquirizia, elementi fetidi, elementi acri, elementi carminativi e anche polvere di mummia e vino di Spagna.
    Nelle ricette che si erano tramandate nel corso dei secoli venia specificato che carne doveva essere quella di una vipera dei Colli Euganei, femmina, non gravida, catturata qualche settimana dopo il risveglio dal letargo invernale. La carne essiccata doveva essere preparata dopo che il corpo dell’animale era stato privato della testa, della coda, dei visceri, e previa bollitura in acqua di fonte salata e aromatizzata con aneto. A questo punto la carne poteva essere triturata, impastata con pane secco, ridotta in palline della dimensione di una noce e messa a essiccare all’ombra.
    Questo preparato non era però subito efficace; esso doveva maturare per almeno sei anni, e veniva considerato ancora efficace per i trentasei anni successivi a quello della sua maturazione.
    La theriaca divenne un rimedio così richiesto che in alcuni momenti la numerosità della popolazione della vipera, in particolar modo quella dei Colli Euganei, fu messa a rischio. In casi di penuria le vipere erano importate dall’Egitto e trasportate a bordo di navi appositamente allestite dette “viperaie”.

    Bottiglie sugli scaffali della Spezieria.

    La grande richiesta era dovuta proprio alla molteplicità di ambiti nel quale il medicamento veniva ritenuto efficace: essa era considerata rimedio d’elezione in caso di numerosissime malattie che potevano andare dall’emicrania all’insonnia, alle coliche addominali alla tosse, dalle malattie respiratorie ai morsi di vipera, ne facevano grande uso i viperai, ovvero i raccoglitori di vipere vive, estinti verso la metà del Novecento, ai morsi dei cani.
    Il dosaggio e la somministrazione della theriaca variavano in funzione della malattia, dell’età e del grado di debilitazione del paziente. Così essa poteva essere disciolta in acqua o nel vino, mescolata al miele o avvolta in foglia d’oro, ma bisognava aver purgato il corpo se no il rimedio sarebbe stato peggiore del male. Il periodo migliore per assumere la theriaca era l’inverno. Da evitare assolutamente l’estate.
    In età moderna ebbero particolarmente successo la theriaca veneziana e quella bolognese. La prima, consigliata per i disturbi gastrointestinali, è ancora preparata, e può essere acquistata ad esempio presso la farmacia della basilica di San Paolo Fuori le Mura, a partire da erbe provenienti dai quattro continenti quali aloe, mirra, zafferano, assenzio, cassia, manna, rabarbaro, ecc…, che vengono fatte macerare a lungo in alcool e acqua senza l’aggiunta di altri ingredienti e coloranti. Si consiglia di assumerla a fine pasto, anche diluita in acqua calda.
    La sala principale della Spezieria è un ambiente rettangolare il cui arredamento è costituito da scaffalature e armadi originali del Settecento, il pavimento è decorato con maioliche policrome originali e il soffitto è decorato ad affresco e con ricchi tessuti. Sulle ante degli armadi sono dipinti i ritratti dei medici più famosi

    Uno degli armadi dipinti.

    dell’antichità come Ippocrate, Galeno, Avicenna e lo stesso Andromaco. All’interno degli armadi sono riprodotte le effigi di Vittorio Emauele I e Maria Teresa d’Austria che visitarono la Spezieria nel 1802. Non sono però gli unici ritratti presenti nei locali della farmacia, poiché moltissimi furono i visitatori noti tra cui ancora Umberto I e Elena la duchessa d’Aosta.
    In una sala dietro il bancone di vendita si custodivano le così dette sostanze elementari in scatole in legno di sandalo utilizzate per custodire le sostanze elementari. Il legno di sandalo era utilizzato perché non essendo attaccato dai tarli preservava le sostanze che vi erano conservate.
    Alle spalle del salone principale si aprono i locali destinati alla vera e propria preparazione dei diversi medicamenti e che ospitano le centrifughe, le imbottigliatrici, le presse per la spremitura, i torchi e i setacci necessari. Inoltre tra i diversi macchinari originali si può vedere una sterilizzatrice e una pilloliera che permetteva di trasformare gli impasti in pillole.
    Un altro locale è una vera è propria distilleria dotata di quanto necessario per preparare i distillati medicamentosi e i liquori, alcuni dei quali ancora oggi preparati e venduti nella farmacia.

    Roma, 7 ottobre 2018.

  3. Storia e arte

    Piranesi e l’Aventino: la Piazza dei Cavalieri e la chiesa di Santa Maria del Priorato

    Ornella Massa

    Nel 1761 Giovanni Rezzonico diventava Gran Priore romano dell’Ordine di Malta per nomina di suo zio Clemente XIII. In quello stesso anno Piranesi dedicava alla nobile

    Autoritratto – Giovan Battista Piranesi

    famiglia veneziana dei Rezzonico il trattato “Della Magnificenza ed Architettura dei Romani”, nel quale esaltava il primato architettonico degli Etruschi e dei Romani contro le idee del Winckelmann, che diceva i Greci superiori. Poco dopo il cardinale Rezzonico lo incaricava di effettuare una ristrutturazione e un ammodernamento della chiesa di Santa Maria del Priorato. I lavori iniziarono il 2 novembre del 1764 e terminarono il 31 ottobre 1766. Santa Maria del Priorato con la sua piazza, i suoi giardini e la villa costituiscono l’unica opera architettonica che l’architetto Giovan Battista Piranesi abbia mai realizzato.
    L’incarico prevedeva che la chiesa e la villa, già esistenti, fossero adattati ai nuovi gusti e dotati di un accesso più agevole, poiché, in quel momento, li si poteva raggiungere solo salendo per una via piuttosto impervia dal lungotevere.
    Dove ancora oggi sorge la chiesa, che è parte della Villa del Priorato del Sovrano Militare Odine di Malta, infatti, sorgeva una piccola cappella dedicata alla Madonna che si trovava al termine della salita che si arrampicava sul colle a partire dalla riva del Tevere, in prossimità di quella oggi è Piazza dell’Emporio.
    Non è noto, con certezza, se questa cappella facesse parte del presidio fortificato sorto tra il VII e l’VIII secolo sull’Aventino con funzione difensiva e di controllo del guado, ma si sa che il presidio fortificato sarebbe divenuto fortezza di Alberico II, e che, a un certo punto, una cappella che ne faceva parte fu trasformata in chiesa vera e propria quando il nobile patrizio romano donò il tutto a Oddone di Cluny. Da questo momento la piccola cappella sarà indicata con il nome di Santa Maria de Aventino.

    Antica incisione in cui si vede l’antica strada che dal Tevere consentiva di raggiungere Santa Maria de Aventino.

    Il complesso passò poi nelle mani dell’Ordine dei Templari, monaci guerrieri che avevano combattuto i Musulmani a difesa della cristianità, e nel 1312, con la soppressione dell’Ordine dei Templari, passò nella proprietà dei Cavalieri di Rodi, la confraternita religiosa istituita in Terra Santa dal monaco amalfitano Gerardo per dare assistenza ospedaliera e alberghiera ai pellegrini in visita al Santo Sepolcro. L’Arciconfraternita dei Cavalieri di Rodi, nel 1522 cambiò nome per assumere quella dei Cavalieri dell’Ordine di Malta.
    A lungo la piccola chiesa sull’Aventino, che guardava verso la foce del Tevere, rimase dimenticata. Se ne ricordò Pio V, nella seconda metà del Cinquecento, donandola al Priorato romano dei Cavalieri di Malta che fino a quel momento avevano avuto la loro sede dentro il Foro di Augusto. Lo stesso Pio V contestualmente trasferì alla Chiesa di Santa Maria de Aventino il titolo di San Basilio, titolo che era appartenuto alla chiesa che sorgeva vicino all’Arco dei Pantani. La piccola chiesa, però, rimase comunemente nota come Chiesa di Santa Maria del Priorato.
    L’attenzione su Santa Maria del Priorato si riaccese nuovamente nel Settecento con il cardinale Rezzonico, che scelse un architetto, Piranesi, che, pur avendo una grandissima influenza sullo sviluppo architettonico in senso neoclassico di Roma e influenzando l’architettura e le arti dei paesi del Nord Europa, non aveva avuto modo di realizzare nessuno dei suoi progetti.
    La fase iniziale dei lavori fu costituito da uno scavo in corrispondenza dell’attuale Piazza dei Cavalieri, che riportò alla luce i resti del romano Vicus Armilustri, dal quale secondo Livio e Varrone, i Salii, sacerdoti consacrati a Marte e a Quirinus, accedevano al sacro recinto dell’Armilustrum dove, il 19 ottobre di ogni anno, erano purificate le armi degli eserciti romani.

    Piazza dei Cavalieri – G.B. Piranesi

    I Salii erano uno dei collegi sacerdotali più importanti dell’antica Roma, e avevano il compito di aprire e chiudere ogni anno il tempo che poteva essere dedicato alla guerra, che, per gli antichi romani, andava da marzo a ottobre, coprendo così il periodo nel quale era possibile effettuare gli approvvigionamenti. Questo tempo di passaggio aveva un’importanza fondamentale per il cittadino romano, che era allo stesso tempo civis, cittadino e miles, soldato. Con il mese di marzo, il cittadino romano diventava quindi miles e passava sotto la giurisdizione militare e la tutela del dio Marte. Questo passaggio era segnato da una serie di riti guidati dai Salii Palatini. Nel mese di ottobre il cittadino romano tornava a essere civis, a occuparsi delle attività produttive sotto la tutela del dio Quirino e i riti guidati dai Salii Quirinales segnavano questo momento purificando uomini, armi e animali che avevano partecipato alle attività di guerra. Le tre feste di purificazione di chiusura della stagione della guerra si svolgevano in ottobre ed erano il Tigillum Sororiun, per la purificazione dei soldati, l’October Equium, per la purificazione dei cavalli e l’Armilustrium, per la purificazione delle armi, che si svolgeva appunto il 19 ottobre nel sacro recinto antistante il tempio di Marte che sorgeva sull’Aventino.
    Il ritrovamento del recinto in cui si svolgeva il rito dell’Armilustrium indusse Piranesi a pensare la piazza come un recinto chiuso su stesso su cui si appoggiano le steli e gli obelischi che richiamano la spina del Circo Massimo poco distante, che egli stesso, in una delle sue incisioni più note, aveva immaginato come affastellato di oggetti.

    Antichità Romane – Spina del Circo Massimo – G.B. Piranesi.

    Nella Piazza dei Cavalieri il richiamo alle armi e alla tradizione romana trovano la loro giusta fusione con la tradizione guerresca dei Cavalieri che è perciò narrata sull’intera piazza, dove si fondono la gloria del passato romano con la realtà concreta e presente del Settecento. Nelle steli si mescolano elementi decorativi desunti dallo stemma dei Rezzonico, come la torre, l’iconografia navale e militare dei Cavalieri e il repertorio iconografico etrusco e romano. Tra gli elementi dell’iconografia etrusca Piranesi cita su queste steli la lira, il cammeo, la cornucopia, il serpente, l’ala d’uccello, la siringa. Molti degli elementi dell’iconografia romana sono invece desunti dalla Colonna Traiana.
    La piazza, quale recinto chiuso, aveva lo scopo, oggi andato completamente perso, di escludere la vista degli orti e delle vigne circostanti. I due muri che cingono la piazza sono il solo elemento ex novo ideato da Piranesi, che per il resto era vincolato dagli edifici pre – esistenti.
    Quello che dovrebbe essere l’ingresso alla chiesa è un portone che Piranesi realizza probabilmente nel muro cinquecentesco esistente. Il muro nel quale il portone si apre resta sostanzialmente anonimo se non fosse elegantemente impreziosito dal festone, e da due pannelli decorativi che sono desunti dai sei rilievi cerimoniali conservati nei Musei Capitolini, uno dei quali con elementi navali. L’aquila con la corona di quercia è invece desunta dal rilievo del II secolo murato sulla parete esterna della facciata dei Santi Apostoli, ma qui all’Aventino quest’aquila diviene bifronte, richiamando così lo stemma dei Rezzonico. Nei pannelli decorativi compaiono pure gli elementi navali propri dell’attività militare dei Cavalieri e, quale elemento di contemporaneità, un cannone e un fucile. Di fatto però sulla piazza monumentale non si apre il portone del palazzo o della chiesa, ma un viale definito da una doppia fila di allori, con funzione di cannocchiale, che prepotentemente porta sull’Aventino il Cupolone di San Pietro.

    Piazza dei Cavalieri – G.B. Piranesi.

    Se si entrasse da questo portone, così come Piranesi aveva di fatto immaginato, si scoprirebbe che, una volta oltrepassato il lungo filare di allori, questo conduce al belvedere che si apre su Roma consentendo di scoprire così quanto il Cupolone di San Pietro sia ben lontano.
    Per raggiungere l’ingresso vero e proprio della chiesa sarebbe quindi necessario attraversare il giardino con le aiuole che una volta avevano forme attorcigliate e ritorte, incontrare quindi il severo palazzo della Villa e infine raggiungere la piccola piazza su cui si erge la facciata della chiesa, che Piranesi conserva praticamente uguale a quella dell’edificio del Cinquecento, ma a cui va ad aggiungere un’elaborata decorazione in stucco.
    Il portale centrale è simmetricamente affiancato da un elemento decorativo che è da considerarsi come rielaborazione di una grottesca, un abbellimento pittorico di origine romana che qui assume l’aspetto di un vessillo, analogo a quelli che si trovano sull’arco di Costantino. La scelta decorativa crea direttamente una serie di collegamenti, all’arte romana di cui Piranesi sosteneva la supremazia su quella greca, con le armi dei Cavalieri e dei romani e quindi con l’Armilustrum e la piazza dei Cavalieri.
    I simboli di questa particolare grottesca in stucco sono scelti con cura e hanno molteplici significati. Dal basso s’incontrano: gli strumenti del muratore, che vengono interpretati, da alcuni, come un rimando alla simbologia massonica; la targa con la scritta FERT “Fortitudo Eius Rhodum Tenuit”, un motto che ricorda l’impegno dei Cavalieri di Malta nella difesa di Rodi; la rappresentazione della fortuna romana, così come descritta da Cicerone, con il timone poiché governa le sorti umane e nella destra un mazzo di spighe; il monogramma PX, Pax Christi, sovrastato dalle due mezze lune incatenate, dalla torre dei Rezzonico e dalla Croce di Malta.

    Facciata di Santa Maria del Priorato – G. B. Piranesi.

    Se questa grottesca/insegna è un codice si può leggere che la saldezza dell’Ordine e del suo Gran Priore, in questo momento il cardinale Rezzonico, è costruita, attraverso gli strumenti del muratore, sulla Pax Christi, sulla fortuna e la fortitudo.
    Il portale e le insegne sono racchiuse in una coppia doppia di paraste strigilate a ricordare che l’edificio ha anche valore di sacello funerario, come ribadito nell’ordine superiore della facciata in cui si apre un oculo, con funzione di clipeo, posto al centro di una coppia di elementi decorativi strigilati, che di nuovo richiamano il sarcofago. Ai lati di questo complesso elemento decorativo una coppia di serpenti che sono contemporaneamente il simbolo della medicina, e quindi ruolo medico svolto ancora oggi dai Cavalieri di Malta, un richiamo al nome antico dell’Aventino, mons Serpentarius, e simbolo della morte, della resurrezione e della vita eterna.
    La decorazione della facciata è completata da due spade con fodero e impugnatura dalla decorazione complessa costituita da vari elementi, che vengono inserite nelle paraste strigilate e i semicapitelli di queste ultime dove compare la torre, derivante dallo stemma araldico della famiglia Rezzonico, tra due sfingi affrontate
    La facciata si conclude oggi con un timpano triangolare ornato di un fastigio militare che si richiama ai trofei di Domiziano, mentre i bombardamenti francesi che determinarono la caduta della Repubblica Romana del 1849 fecero crollare un elemento architettonico che sovrastava il timpano e che rappresentava l’unica aggiunta di Piranesi alla facciata originaria. Questa sorta di attico aveva lo scopo di slanciare la facciata e di conferirle una maggiore incisività nel panorama romano, rendendo la chiesa così più facilmente identificabile da lontano. Questo elemento architettonico era decorato solo con elementi desunti dallo stemma della famiglia Rezzonico.

    Disegno del prospetto di Santa Maria del Priorato – G.B. Piranesi.

    Piranesi non intervenne sulla volumetria della chiesa che dopo i lavori del Settecento rimase sostanzialmente uguale a quella della chiesa del Cinquecento, ma l’intervento si tradusse una nuova distribuzione degli spazi interni con alcuni espedienti, per cui la chiesa, alla fine dei lavori, apparve profondamente mutata rispetto a quella originaria.
    Il primo intervento riguardò lo spostamento in avanti dei tre gradini di accesso al presbiterio in modo che questo spazio venisse a includere anche due nicchioni laterali. Con questo espediente la chiesa veniva, di fatto, divisa in due parti uguali, con la formazione di un deambulatorio appena accennato, la cui presenza suggerita piuttosto che reale, è sufficiente a legare l’architettura interna dell’edificio a quella di chiese tipiche del Nord Europa.
    Lungo la navata si sviluppano ritmicamente i nicchioni che con la loro regolarità e con l’alternarsi delle paraste scanalate costringono il visitatore a porre lo sguardo direttamente e immediatamente sull’elemento focale della chiesa: l’altare.
    L’altare è forse l’intervento più incisivo di Piranesi, come forse può testimoniare il fatto che l’artista dedica alla sua elaborazione grafica ben quattro disegni, mentre la realizzazione effettiva è opera di Tommaso Righi. Il nuovo altare sostituisce del tutto quello medioevale e risulta originarsi dalla sovrapposizione di tre sarcofagi, di cui quello inferiore riprende il tema dell’oculo circondato da una decorazione strigilata, analogo a quello posto nella facciata principale.
    Il sarcofago superiore termina con due speroni, che svolgono funzione di prora e che, facendolo assomigliare a una nave, richiamano nuovamente la natura duale, militare e religiosa, dei Cavalieri di Malta. Su questa sequenza di tre sarcofagi s’innesta la gloria di San Basilio portato in cielo dagli angeli.
    Altro momento di grande complessità decorativa, dell’interno della chiesa, è il fastigio del soffitto della navata, che riprende il tema già adottato in facciata del labaro, qui chiuso in una ghirlanda con i sigilli del monogramma PX, Pax Christi. A questi sigilli da un lato è appeso uno stendardo con la figura del Battista, santo onomastico di Rezzonico e protettore dell’Ordine, una nave, una vela con la croce di Malta, un trofeo di scudi, la tonaca dell’Ordine e la tiara papale.

    Fastigio del soffitto – Santa Maria del Priorato – G.B. Piranesi.

    L’elemento triangolare oltre che come vela, rinnovato riferimento alle imprese navali dei Cavalieri, è anche simbolo trinitario e come tale riverbera intorno a se raggi di luce. Completano la decorazione del soffitto lo stemma dei Rezzonico con il cappello cardinalizio e la croce di Malta. Tutta questa sequenza decorativa a soffitto induce a guardare al lanternino, decorato con quattro petali che contengono episodi della vita di San Giovanni.
    Altri dodici medaglioni con le immagini degli apostoli sono sopra ogni nicchia e intorno all’abside.
    Il 13 ottobre del 1766 la chiesa fu presentata al cardinale Rezzonico e a Clemente XIII che, entusiasta del risultato, insigniva Piranesi dello Speron d’oro.
    I più interessanti architetti e intellettuali dell’epoca, quali Winckelman, Mengs e Vanvitelli, diedero dell’opera giudizi sostanzialmente negativi.
    L’interno della chiesa ospita il monumento funebre di Piranesi che, secondo le volontà dell’artista, non avrebbe dovuto trovarsi qui. Pranesi, infatti, aveva lasciato scritto di voler essere seppellito in Santa Maria degli Angeli e che un antico candelabro romano tratto dal suo museo e da lui restaurato fosse posto sulla sua tomba.
    In realtà quando Piranesi morì nel 1778 a seguito di una malattia dopo il suo ultimo viaggio a Paestum, fu seppellito in Santa Andrea delle Fratte, e solo successivamente il corpo fu traslato a Santa Maria del Priorato per volontà del Cardinale Rezzonico. Per il monumento funebre il cardinale fece realizzare una statua da Giuseppe Angelini in cui Piranesi è effigiato abbigliato con la toga di antico romano, mentre regge un rotolo nella mano sinistra, su cui è incisa la pianta del tempio di Poseidon di Paestum, ultima meta di lavoro e studio del grande intellettuale, architetto e archeologo.
    La Piazza dei Cavalieri di Malta nasconde un’altra affascinante leggenda: è quella secondo cui tutto il colle dell’Aventino non sarebbe altro, in realtà, che un’immensa nave simbolica, sacra ai Cavalieri Templari, che quando verrà il momento salperà diretta verso la Terra Santa. Il Piranesi, da sempre ammiratore dell’Ordine del Tempio, ben conosceva la leggenda, e nella sua opera di ristrutturazione del colle inserì tutta una serie di riferimenti, strutture e simbolismi che richiamano più o meno apertamente anche questa leggenda.

    Decorazione del lanternino – Santa Maria del Priorato – G.B. Piranesi.

    Secondo la tradizione la nave è idealmente ancorata al porto fluviale di Ripa, sul Tevere, attraccata al molo ideale costituito dai resti del Ponte Rotto. La parte meridionale del colle, che si adagia sulle rive del Tevere con una forma a “V”, sarebbe la prua di questo veliero. Nella simbologia piranesiana, perciò, l’intera piazza, circondata da mura, ne costituisce il castello, mentre gli obelischi alternati alle lastre marmoree simboleggiano gli alberi e le vele. Il portale della Villa dei Cavalieri costituisce l’entrata al cassero, il famoso viale alberato sagomato a formare una galleria è il ponte di coperta. Gli intricati giardini a labirinto che si trovano a lato rappresentano le funi e il sartiame della nave, mentre il belvedere del parco, dal quale si ammira il panorama di tutta Roma, è la coffa. Così, la Chiesa di Santa Maria del Priorato, finisce con il rappresentare la cabina di comando.
    Inoltre, poiché la natura geologica dell’Aventino è tale che il monte si presenta ricco di grotte e anfratti, sfruttate da sempre dall’uomo per ricoverare greggi e materiali, si pensi a questo punto all’episodio mitologico in cui il gigante Caco sottrae le mandrie a Ercole e le nasconde proprio alle pendici dell’Aventino, il vasto sistema di gallerie e cavità ipogee assume valore di stiva di questa immaginaria nave.

    Roma, 15 aprile 2018

  4. Palazzo Falconieri e il mistero borrominiano

    Via Giulia è il primo rettilineo della Roma rinascimentale, progettato dal Bramante e voluto da papa Giulio II nel primo decennio del 1500.

    Palazzo Falconieri. Si ringrazia Alvaro de Alvariis.

    Nelle intenzioni del pontefice questa doveva diventare una strada di rappresentanza, di pubbliche relazioni, di collegamento tra commercio e foro giudiziario, tra “banchi” e mercati. Anche se il progetto originario non fu mai portato a termine, lungo via Giulia si allinearono i “blasoni” più importanti dell’epoca, favoriti anche dagli interventi del nuovo pontefice, il fiorentino Leone X Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Via Giulia si trasforma così in un quartiere residenziale abitato soprattutto da ricche famiglie fiorentine. Non è un caso che qui si trovi anche San Giovanni dei Fiorentini, la chiesa madre della Signoria a Roma.
    Tra gli splendidi palazzi che ancora oggi si allineano lungo la strada, anche il bellissimo Palazzo Falconieri, all’altezza dell’Arco dei Farnese che collega i due versanti della strada, creando un punto di riferimento emblematico della zona. Affiancato alla chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, è sede dell’Accademia d’Ungheria. Esso sorge sui resti di un antico porto fluviale, posto sulla riva sinistra del Tevere, distrutto molto probabilmente in seguito alla sistemazione urbanistica voluta da Giulio II all’inizio del XVI secolo, il porto è oggi parzialmente conservato nei sotterranei dell’edificio.
    Il palazzo fu costruito nel 1576 dalla famiglia Odescalchi. Originariamente aveva otto finestre e un portone decentrato a bugne rustiche con i gigli dei Farnese nella chiave e un cornicione con i simboli degli Odescalchi sulla facciata principale. Agli Odescalchi molti furono i proprietari che si avvicendarono: Francesco Cenci, padre della sventurata Betarice, la famiglia Sforza, il cardinal Giovanni Vincenzo Gonzaga e il cardinal Montalto.

    Palazzo Falconieri, Chiesa dell’Orazione e Morte, Giardino di Palazzo Farnese. Si ringrazia RomaSparita.

    Non sappiamo molto di più della storia più antica del palazzo, ma, certamente, la sua epoca d’oro ebbe inizio quando fu comprato dalla ricchissima famiglia fiorentina Falconieri per accogliere il figlio prodigo della famiglia, Orazio Falconieri con la sua giovane sposa, Ottavia Sacchetti. Conosciamo bene i tratti del volto di entrambi, poiché il loro monumento funebre ornato di bassorilievi si trova in fondo a Via Giulia, nell’abside proprio della chiesa della nazione fiorentina, realizzati da Domenico Guidi su disegno di Francesco Borromini. E fu proprio la giovane coppia a incaricare il maestro Borromini di trasformare il vecchio edificio gotico, lasciando volare liberamente la sua straordinaria fantasia, decorando le sale e i corridoi con stucchi meravigliosi. Il genio non si smentì: gli esperti sostengono che qui, in palazzo Falconieri, egli abbia realizzato una delle sue opere mondane più magnifiche.
    La scelta dell’architetto ticinese non fu solo di carattere tecnico o economico. Orazio Falconieri e Francesco Borromini, infatti, erano anche legati da una solida amicizia e reciproca stima, rafforzate da affinità culturali e religiose.
    L’artista dovette subito confrontarsi con le aspettative del committente, operando attraverso un’attenta esecuzione. Oltre all’architettura, il palazzo fu ampliato e portato dalle originali otto campate a undici, l’artista pensò anche alla decorazione del piano nobile, rivelando così un’anima profondamente artistica, quasi pittorica.
    Abbellì le volte con ornamenti a stucco caratterizzate da raffigurazioni complesse, basate su immagini simboliche che uniscono agli elementi araldici dei Falconieri, raffigurazioni botaniche, emblemi tratti da antichi testi cinquecenteschi, simboli massonici e forme geometriche.

    Insegne Araltiche nei saloni di Palazzo Falconieri – Francesco Borromini.

    Le quattro stanze degli stucchi si differenziano per i colori rosso, azzurro e verde e mostrano una varietà di elementi affascinanti e suggestivi. Con questi soffitti sapientemente trattati a stucco policromo e dorato, l’architetto realizza una maniera decorativa tra le più sorprendenti del barocco romano. Così nella stanza Rossa si trova il motivo simbolico del mondo come nesso spirito-materia, raffigurato con tre cerchi d’oro che rappresentano lo spirito, la materia e l’anima, con il sole raggiante nel punto d’intersezione. Nella stanza Azzurra, l’artista ha rappresentato l’Universo con l’occhio veggente, l’urobolo, l’axis mundi, il globo terrestre.
    Nei pennacchi compaiono squadre, compassi, cornucopie e altri uccelli. Lo stesso Borromini a proposito scriverà «La serpe disposta in circolo nell’atto di mangiarsi la coda indica la perennità dell’Universale Sostanza. Così l’avevo dipinta al centro di una cornice ovale, insieme al Globo terrestre, lo Scettro e all’Occhio-che-tutto-vede»; la squadra invece potrebbe rimandare anche all’abaco che letto da dieci parti forma sempre il numero trentaquattro. Nelle ultime due stanze, quelle Verdi, assistiamo a una composizione più misurata, quasi classicheggiante, con foglie d’acanto, palme ed altri elementi vegetali, che formano una sorta di fregio continuo. Nelle lunette invece compare il falco, simbolo della famiglia. Anche sui pilastri laterali della facciata l’artista ha riportato l’emblema di due falconi anche in riferimento ad Horus, antico dio egizio, oltre che simbolo della famiglia proprietaria. Singolari le teste di falco poste come lesene o cariatidi, splendide realizzazioni del suo spirito visionario.
    Alle aule piene delle decorazioni di stucchi, stupefacenti per il colore e per la ricchezza delle forme si accosta degnamente la particolare loggia costruita sul tetto del palazzo, dove la terrazza che offre un panorama vertiginoso è circondata da una transenna di balaustre arricchita a sua volta dalla presenza delle teste di Giana-Giano, di effetto drammatico. Anche queste realizzate con la tecnica degli stucchi.
    Con il passare dei secoli la famiglia dei Falconieri si unì con quella dei princìpi Carpegna. Il palazzo fu perciò per lo più a cardinali, ma per tre anni, dal1815, Palazzo Falconieri fu abitazione della madre di Napoleone Bonaparte, Maria Letizia Ramolino.

    La terrazza di Palazzo Falconieri.

    Nel 1890 il palazzo fu venduto al generale Giacomo Medici, strenuo difensore della Repubblica Romana a Porta San Pancrazio, eccellente soldato garibaldino che per gli straordinari meriti durante le lotte per l’unificazione d’Italia fu onorato dal re Vittorio Emanuele II con il titolo di marchese e con il prenome ‘del Vascello’, attributo che egli conferì alla villa che sorge sul Gianicolo che era stata teatro delle sue gesta e di quelle dei suoi uomini nel 1849.
    Il generale Medici offrì il Palazzo Falconieri a Luigi, suo nipote, e lo Stato Ungherese lo acquistò dai suoi eredi, nel 1927, con l’appoggio personale del primo ministro Benito Mussolini.
    Le istituzioni che vi si trovano, l’Accademia d’Ungheria (Collegium Hungaricum) con mansione scientifica e culturale, e l’Istituto Pontificio Ungherese, devono molto alla forza attrattiva delle opere meravigliose di Borromini. Lo Stato Ungherese infatti ha una cura particolare di quest’edificio, si occupa della manutenzione, del restauro necessario, permette le visite guidate agli interessati. E cerca di contribuire anche alla maggiore conoscenza dell’opera intera di Borromini.

    Roma, 31 agosto 2018