La basilica vanta una doppia dedicazione: a Santa Francesca Romana, perché qui è sepolta, dal 1440, la grande santa romana; e a Santa Maria Nova, eretta nella seconda metà del IX secolo sulle rovine di Santa Maria Antiqua, una chiesa del VI secolo crollata in seguito ad un terremoto:
preziosissimo gioiello di architettura e pittura cristiana, alle pendici del Palatino, da qualche anno riaperta al pubblico dopo decenni di restauri.
Santa Francesca Romana/Santa Maria Nova sorge dove nell’antichità si alzava il colossale Tempio di Venere e Roma, fatto costruire dall’imperatore Adriano nel 135.
Il tempio si trovava nel punto in cui si trovava l’atrio della Domus Aurea con il famoso Colosso, la gigantesca statua di Nerone che secondo alcuni studiosi avrebbe dato il nome al Colosseo e che fu fatta spostare proprio da Adriano per erigere il tempio. Dell’antico tempio si possono ancora vedere esternamente le colonne intorno all’area della chiesa.
Per edificare, dunque, Santa Maria Nova venne incorporato un precedente Oratorio dei SS. Pietro e Paolo che, dal secolo precedente, si era inserito proprio dentro il porticato del Tempio di Venere e Roma in corrispondenza con la cella della Dea Roma. L’oratorio sarebbe sorto sul posto della singolare disfida a volare lanciata dallo eresiarca Simon Mago contro
l’apostolo Pietro. La preghiera di questi avrebbe ottenuto di far precipitare a terra Simone che si era librato in aria per arti magiche. La chiesa venne ricostruita nel 1216 da Onorio II e nel 1615 ricevette la bianca facciata di travertino con un timpano ornato di statue, opera di Carlo Lambardi. Il campanile romanico, del XII secolo è alto 42 metri, è ornato a ciotole di maiolica e ha negli ultimi tre piani a doppie bifore, in alto c’è una piccola edicola.
Dal Seicento — in seguito alla avvenuta traslazione dal monastero di Tor de’ Specchi del corpo di santa Francesca Romana, una Bussi, sposa di un Ponziani, che in quella chiesa aveva fondato le sue “oblate” — la chiesa ha cambiato il nome. E poiché la santa è stata proclamata patrona degli automobilisti, nacque, qualche decennio fa, la consuetudine — oggi dimenticata — di benedire, ogni anno, il 9 marzo, festa di Francesca Romana, le automobili radunate sul piazzale del Colosseo.
Dopo la liberazione della zona del Foro da tutte le costruzioni e dalle sovrastrutture che l’avevano invasa nel corso dei secoli, questa chiesa, insieme con la meravigliosa Santa Maria Antiqua, è ormai l’unica
sopravvivenza di costruzione non di epoca classica e la più visibile testimonianza dei secoli cristiani al cospetto dell’antico Foro.
Tuttavia la nobiltà delle sue linee, lo snello e forte campanile dei tempi più ferrigni e l’ariosa facciata dell’epoca barocca la inseriscono nell’ambiente secondo una superiore armonia. La facciata luminosa si erge su un profondo porticato, creato alla maniera di un protiro davanti al corpo della vecchia chiesa. La parte centrale di essa si stacca dalle due ali, che sono segnate dalla voluta delle statue, ed appare come un corpo leggermente avanzato. Esso è costruito da due gigantesche coppie di lesene che si alzano fino al timpano coronato da tre statue. Fra le lesene è inserita con un forte effetto di chiaroscuro una zona costituita da un alto arcone e da una loggia sovrapposta.
L’interno, dalla semplice pianta, con cappelle laterali che fiancheggiano una aula piena di decorazioni e di colore, si apre come un luogo estremamente accogliente per chi proviene dalla distesa delle antiche rovine del Foro.
La piacevole sensazione di insieme è data dal seicentesco soffitto a
cassettoni policromi cui corrisponde, al centro del pavimento, un ampio riquadro cosmatesco, residuo della schola cantorum, dalla confessione a marmi policromi, realizzata da Bernini fra il 1638 e il 1649, e dallo sfolgorante brano di mosaico rimasto nel catino absidale. Questo raffigura la “Vergine in trono con il Bambino”, affiancata da Santi e risale al 1161, dimostrando una scioltezza di movimento che sta per liberarsi dalla rigidità bizantina. Il mosaico è quanto avanza dalle abbondanti decorazioni musive che rivestiva l’intera abside e l’arcone trionfale e che è sostituita attualmente da affreschi seicenteschi nell’abside e ottocenteschi, di Cesare Maccari, nell’arco.
Sulla destra del presbiterio molto elevato — al quale si accede con due rampe barocche — è sito il sepolcro eretto dal Popolo Romano nel 1584 a papa Gregorio XI che riportò da Avignone a Rona la sede del papato. Qui vicino si mostrano due pietre di basalto con le impronte che vi avrebbe lasciato san Pietro inginocchiato per chiedere la punizione del Mago, fonte di scandalo.
Nel tabernacolo dell’altar maggiore è collocata un’immagine della Madonna del XII secolo, ritrovata sotto le ridipinture ottocentesche di una tavola giunta dall’Oriente. Ma la stessa immagine è stata a sua volta distaccata nel 1950 dal geniale restauratore Pico Cellini, che riconobbe un’altra immagine sottostante, di epoca ancora più antica: nientemeno del secolo V.
Quest’immagine rappresenta il vero tesoro, inestimabile, della Basilica: si tratta della icona che rappresenta la Vergine Odigitria, cioè “colei che indica la strada”. E la strada, la via, la verità e la vita è quel Gesù Bambino che tiene in braccio.
Così racconta Pico Cellini, scomparso nel 2005, il momento del riconoscimento dell’antichissima icona. Di questa “avventura”, come la definisce Cellini, il decano dei restauratori italiani scomparso nel 2005, parla in un’intervista rilasciata nel 1990. Nell’anno santo del 1950 gli viene affidato l’incarico di restaurare un’antica icona della Vergine Maria presente nella chiesa di Santa Francesca Romana. Un’immagine «molto rimaneggiata e ridipinta lungo i secoli», ricorda. Che presentava una particolarità: «I volti della Madonna e del Bambino tendevano a staccarsi dalla tavola».
«Quale studioso di immagini mariane e profondamente devoto della Madonna», ricorda il restauratore, egli fu «ben felice» dell’incarico, come anche del fatto che gli fu data licenza di portare l’immagine sacra a casa.
«Qui, prima di incollare l’immagine al supporto, volli verificare se era vero, come sospettavo, che la causa del distacco fosse da ricercare in uno strato sottostante di pittura diverso per natura e colore. Con infinita cura riuscii a staccare i bordi dei due volti, che stranamente apparivano isolati rispetto al resto del dipinto, e una volta sollevato quella specie di coperchio, per poco non mi prese un accidente: sotto la testa della Vergine ne emerse infatti una seconda, enorme, con due grandi occhi dallo sguardo ipnotico. Era il volto, mirabilmente intatto, di un’immagine molto più antica di quella attribuita all’inizio del XII secolo, che traspariva sotto le grossolane ridipinture ottocentesche: per la tecnica ad encausto su tela di lino e altre caratteristiche che non sto qui ad elencare, fui in grado di datarla addirittura al primo quarto del V secolo. Essa rispecchiava una tecnica raffinatissima e una committenza prestigiosa, quella della stessa corte imperiale di Bisanzio: era una immagine carica di arte, di fede e di storia giunta in Occidente attraverso chissà quali tumultuose vicende. Spesso mi son chiesto come mai questa Madonna produce una tale emozione, specie in chi la contempli per la prima volta. La spiegazione, forse, è in quei grandi occhi dalla pupilla dipinta in nero, colore che – secondo i canoni dell’arte ellenistica – indica il limite
della conoscenza. Quello di Maria non è uno sguardo rivolto all’esterno, ma è tutto interiore: attinge l’abisso dell’inconoscibile, in cui dimora Dio, abisso che lei sola vede». Dopo il ritrovamento dell’icona, il grande restauratore si recò ogni domenica nella basilica di Santa Francesca Romana per assistere alla messa, per poi raccogliersi in preghiera davanti all’immagine. E “presentare” ai fedeli convenuti quel volto della Madonna rimasto celato a tante generazioni, i cui grandi occhi avevano svelato d’incanto gli ultimi segni della bellezza antica e i tratti somatici della Vergine Maria descritti da san Luca nel suo vangelo, autore, secondo la tradizione, di molti suoi ritratti. A confermare la datazione e la provenienza dell’immagine entrò in gioco un altro mostro sacro: Margherita Guarducci, epigrafista greca di fama mondiale e accademica dei Lincei, che da lì a poco avrebbe rintracciato le reliquie di san Pietro nella necropoli vaticana. In breve, la studiosa osservò come l’icona apparsa alla luce presentasse caratteristiche che si ritrovavano stranamente in un’altra famosa immagine, ritenuta perduta: quella della Madona Odigitria di Costantinopoli, creata tra il 438 e il 439 quale tipo ufficiale di Maria Madre di Dio, una definizione che era emersa e consegnata alla Chiesa nel Concilio
di Efeso del 431. Un’immagine, quella di Costantinopoli, che la tradizione attribuiva all’iconografia propria dell’evangelista Luca, e fatta realizzare in Palestina – ad encausto e su disco ligneo – da Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II. Notevole anche il fatto che le dimensioni dell’icona costantinopolitana corrispondessero a quelle romane.
Ma c’era di più: pare che gli imperatori dell’Occidente avessero portato a Roma, sempre nel 439, una copia su tela della Odigìtria, eseguita sull’impronta rovesciata – ottenuta per calco speculare – dell’originale. Da questo calco deriverebbe dunque l’immagine romana, che infatti vede invertita la posizione del Bambino Gesù: sul braccio destro di Maria invece che sul sinistro, come normalmente rappresentato. Proseguendo le sue ricerche, la Guarducci si imbatté in una splendida ed enorme icona mariana esistente a Montevergine, celebre santuario dell’avellinese. L’opera, eseguita tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, raffigura la Madonna in trono col Bambino e presenta una particolarità: la testa di Maria è leggermente sporgente dal resto della tavola e inclinata verso chi osserva dal basso.
Esami condotti tra il ’60 e il ’61 accertarono che essa è dipinta su un disco di legno di tipo diverso dal resto della tavola, e che dal dipinto medievale traspaiono tracce di una pittura più antica. E in effetti, una tradizione risalente al ’500 vuole che questa sia l’autentica testa della famosa Odigìtria perduta, in realtà trafugata da Baldovino II, ultimo imperatore latino d’Oriente, allorché fuggì da Costantinopoli nel 1261. Il volumetto La più antica icona di Maria della Guarducci documenta la singolare scoperta: «A Montevergine rimane la testa autentica della Odigìtria, se pure sotto il velo della pittura medievale; a Roma splende la medesima testa, nella copia fedele che subito ne fece, “in controparte”, un grande artista di Costantinopoli. Fra Oriente e Occidente si pone ora, quale prodigioso vincolo di pace, la più antica icona di Maria, che dell’Oriente e dell’Occidente ha ricevuto, per tanti secoli, la fervida preghiera». L’antichissima immagine dell’Odigitria è esposta nella sagrestia della basilica di Santa Francesca Romana. Non sorprende che fu proprio ai piedi di tale icona che, il 15 agosto 1425, santa Francesca Romana e le sue prime compagne fecero la loro oblazione al Signore. Alla morte della santa, il suo corpo fu deposto nella cripta della chiesa, che da quel momento prese anche il nome della veneratissima Francesca, come è più nota oggi, compatrona di Roma insieme a Pietro, Paolo e Filippo Neri.
Roma, 20 novembre 2019