Ponte sant’Angelo è il più significativo e il più bello dei ponti dell’Urbe.
Carico di storie, leggende, miti e significati religiosi. Dall’avvento dell’era cristiana ha rappresentato il punto di congiunzione tra Roma e Pietro. Milioni di pellegrini provenienti da tutta Europa lo hanno attraversato salmodianti alla volta della basilica per riconciliarsi con Dio ai piedi della Tomba del primo papa. Soprattutto in occasione dei Giubilei.
Oggi lo vediamo, con i suoi angeli meravigliosi, così come lo concepì Gian Lorenzo Bernini, il genio del barocco romano. Nel 1669, su incarico papa Clemente IX Rospigliosi, il grande artista progettò le dieci statue di angeli che fiancheggiano il ponte: di queste, otto furono realizzate dai suoi allievi e due dal Bernini stesso, successivamente trasferite, perché straordinariamente belle, nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Il percorso fu immaginato come una sorta di Via Crucis che conduce alla Resurrezione, attraverso pratiche di penitenza: i dieci angeli reggono gli strumenti della passione di Cristo.
Un secolo dopo, nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, un oscuro personaggio elaborò un percorso di elevazione dell’umana natura di tutt’altro segno e significato rispetto a quello che, per secoli, ponte e castello avevano rappresentato. Ad opera soprattutto di Giuseppe Balsamo, meglio conosciuto come Alessandro, conte di Cagliostro.
Sostanzialmente un avventuriero, esoterista e alchimista siciliano che non fece altro che entrare e uscire dalle prigioni di mezza Europa. Nel dicembre del 1789 fu arrestato a Roma e condotto nelle carceri di Castel Sant’Angelo, dove attese per alcuni mesi l’inizio del processo. Al collegio giudicante egli apparve colpevole di eresia, massoneria e attività sediziose. l 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell’inaccessibile fortezza di San Leo allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Fu in quei mesi di prigionia che Cagliostro elaborò la sua teoria sulla Grande Opera alchemica di ottenimento della pietra filosofale: la via alchemica si proponeva come una di quelle vie che portavano l’uomo al superamento della sua natura effimera e all’identificazione col divino. La realizzazione di questo fine costituisce la “Grande Opera”, con il quale il “fuoco segreto”, un’energia cosmica sconosciuta all’uomo nel suo stato ordinario, rende possibile la trasformazione dell’uomo e quella dei metalli.
Accanto ai molteplici significati che ponte e castello, in perfetta simbiosi, hanno assunto attraverso i secoli, va ricordato che il ponte che conosciamo col nome “Sant’Angelo” fu costruito nel 134 dall’imperatore Andriano in funzione del suo mausoleo. Scaturito dalla mente dell’imperatore contemporaneamente alla propria tomba, esso nacque come una singolare strada semi privata che, dalla sponda sinistra del Tevere, immetteva direttamente nel grande portale d’accesso al mausoleo. In origine, dunque, fu un percorso riservato ai cortei funebri che avrebbero condotto là dentro una lunga serie di personaggi imperiali: da Adriano stesso (138) fino a Caracalla (217).
Dal prenome di Adriano, il ponte fu chiamato Elio. Progettato dunque in funzione della grande tomba, nacque in stretta relazione strutturale e architettonica con quella. Adriano stesso, uomo di straordinaria capacità ed esperienze artistiche, collaborò alla stesura del progetto.
Con l’inizio dell’era cristiana il ponte rappresentò il passaggio obbligato delle folle di pellegrini verso la tomba venerata dell’apostolo Pietro soprattutto in occasione del giubileo.
La più famosa citazione, riferita al giubileo del 1300, è contenuta nella Divina Commedia:
[…] come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ‘l monte […]
(Inferno, canto XVIII, vv. 28-33)
La vicenda più drammatica è costituita, invece, dalle numerose vittime provocate dal crollo delle spallette, nell’anno giubilare 1450, a causa del sovraffollamento derivato anche dalle piccole costruzioni commerciali che si erano insediate sul ponte.
In memoria delle vittime Nicolò V fece costruire, alla testata del ponte verso la piazzetta, due piccole cappelle da cui settant’anni dopo dovevano trarre profitto i lanzichenecchi che sparavano contro il castello. Per questo, Clemente VII si affrettò a farle distruggere e le sostituì, nel 1535, con le statue degli apostoli Pietro e Paolo; Clemente IX Rospigliosi, nel 1669 collocò le dieci statue di angeli che recano i simboli della passione di Cristo.
I tre archi centrali del ponte come oggi lo vediamo sono originari, mentre i due laterali furono costruiti nel 1892 per raccordare l’antica opera ai nuovi muraglioni. Vennero in tal modo sostituite le due minori arcate costruite nel 1668 in luogo delle antiche rampe originarie: queste erano sostenute da piccoli archi i quali ritornarono alla luce durante gli stessi lavori sul lungotevere.
La sistemazione urbanistica di tutto il settore intermedio dell’antico Campo Marzio fu imperniata sul ponte Sant’Angelo. Alla sua testata sinistra furono fatti affluire tutti i principali assi viari che erano affiancati da solenni portici. L’urbanistica medievale naturalmente fu adeguata alla situazione, tanto più che il ponte fu l’unico (oltre ai ponti dell’Isola Tiberina) a non crollare. Per questo motivo anche la Via Recta che, in epoca classica arrivava al Ponte di Nerone si attestò su quello che doveva essere chiamato il “Canale di Ponte”.
Scorrendo le storie, i miti e i simboli che si sono “depositati” lungo il ponte e, per osmosi naturale, su Castel Sant’Angelo, emerge quanto vita e morte risultino, in questa porzione di Roma, sempre inesorabilmente intrecciati. A partire dalle origini, quando il ponte introduceva gli imperatori passati a miglior vita all’interno della Mole di Adriano. E ancora, quando i pellegrini provenienti da tutta Europa, quindi “morti” spiritualmente perché in stato di peccato attraversavano il ponte in direzione della basilica di Pietro l’apostolo per riconciliarsi con Dio e quindi riacquistare la vita di grazia.
Fino allo splendido racconto che ci fornisce la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine nel XIII secolo: nel 590 infuriava in una Roma assediata dai Longobardi un’epidemia di peste che aveva ucciso lo stesso papa Pelagio. Il nuovo pontefice Gregorio Magno ordinò una “litania settiforme”. E allora sette processioni che, partendo dalla chiesa principale delle sette regioni ecclesiastiche in cui era divisa la città, confluirono a Santa Maria Maggiore dove Gregorio esortò il popolo a seguirlo fino a San Pietro insieme con l’immagine acheoropirita della Madonna, la Salus populi romani custodita nella basilica liberiana. Mentre la processione passava sul ponte Elio, il papa vide sulla Mausoleo di Adriano l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada nella guaina; era quello il segno che, per misericordia divina, la pestilenza era finita.
Da quel momento la Mole di Adriano sarebbe stata chiamata Castel Sant’Angelo e il ponte, Ponte Sant’Angelo. Lo storico Cesare D’Onofrio, basandosi su documenti, ha ricostruito il probabile processo mentale che ha condotto all’elaborazione di questa leggenda. La litania settiforme divenne una consuetudine nel medioevo, ma il centro di raccolta non fu più Santa Maria Maggiore: era subentrata la basilica di San Pietro in Vaticano. Siccome i salmodianti dovevano necessariamente passare per il ponte Sant’Angelo e sotto la Mole Adriana (allora chiamata Castello di Crescenzio per via dei Crescenzi, la famiglia che ne era divenuta proprietaria) sulla cui cima vi era l’oratorio dedicato a San Michele, e forse una statua dell’Arcangelo, qualche fedele avrà cominciato a immaginare una scena miracolosa ricordandosi della celebre orazione che Gregorio Magno aveva pronunciato durante l’epidemia esortando i fedeli alla processione: «Il dolore ci convinca alla conversione, e la pena che stiamo soffrendo dissolva la durezza del cuore, come dice il profeta: “La spada è arrivata fino all’anima… Ecco tutto il popolo è trafitto dalla spada dell’ira celeste… sotto la spada di così grande avversità divina noi dobbiamo insistere con lamenti pressanti». La leggenda si radicò così profondamente che durante l’epidemia del 1348 si rifece la processione con l’immagine della Madonna della chiesa dell’Ara Coeli: «mentre si stava avvicinando al ponte di San Pietro (l’attuale Sant’Angelo), la statua marmorea dell’angelo sulla cima del Castello, mostrando riverenza a tale immagine, varie volte s’inchinò» narra un anonimo quattrocentesco. «Più di sessanta persone degne di fede, giurando sui sacramenti, affermavano di aver visto ciò con i propri occhi corporei, all’immagine gridando ad altissima voce misericordia». Dalla leggenda nacque la tradizione iconografica dell’angelo che rinfodera la spada.
Dalla fine del tredicesimo secolo doveva esserci, sulla sommità del Mausoleo una scultura raffigurante l’arcangelo Michele con la sua spada. Non risalente ai tempi di Gregorio Magno ma a un periodo successivo alla formazione della leggenda. A quella scultura succedette verso la metà del Quattrocento un’altra che fu frantumata il 29 ottobre del 1497 dallo scoppio di una polveriera sistemata imprudentemente nell’ex cappella e colpita da un fulmine durante il temporale. Quale fosse l’atteggiamento dell’angelo in quelle prime sculture non sappiamo. Conosciamo la statua di Raffaello di Montelupo che venne innalzata nel 1544 e rimossa due secoli dopo, nel 1747, per essere sostituita dall’attuale, realizzata da Peter Verschaffelt. Nelle giornate di forte vento le ali spiegate dell’arcangelo Michele, ondeggiano dolcemente a significare la sua invisibile presenza tra le nubi di Roma, inter nubes.