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  1. Santi, martiri, artisti al Foro Romano: il Carcere Mamertino e i Santi Luca e Martina

    Stanno una di fronte all’altra, alle pendici del Campidoglio prospicente la valle del Foro Romano: la chiesa dei Santi Luca e Martina, uno dei capolavori del primo barocco romano, e il complesso del Carcere Mamertino, considerato il più antico carcere del mondo.

    Schema del Complesso del Carcere Mamertino. 1 – Chiesa di San Giuseppe Falegname; 2 – Cappella del Santissimo Crocefisso; 3 – Mamertino ; 4 – Tullianum

    Nella prima, è sepolta Martina, martire del III secolo, tra le più amate dai romani. Il secondo, seguendo la tradizione, ospitò i condannati a morte Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma.
    Il complesso del Carcere Mamertino ci appare oggi molto ridotto nella sua struttura iniziale, almeno da quanto si possa desumere dalle descrizioni che diversi autori romani, a partire da Tito Livio, ne hanno fatto. Quello che arriva fino a noi è la parte più segreta del carcere originario, che equivale grosso modo ad un carcere di massima sicurezza moderno, anche per il tipo di prigionieri che vi venivano rinchiusi. L’insieme degli ambienti pervenuti era scavata nella cinta muraria di età regia e può quindi essere fatta risalire, anche per la modalità di costruzione e per il tipo di pietra utilizzata, ad un periodo compreso tra il V e il III secolo avanti Cristo, anche se alcuni scavi più recenti farebbero identificare delle fasi costruttive risalenti all’VIII e al VI secolo avanti Cristo.
    Questo nucleo era poi in continuità con altri ambienti scavati nel Campidoglio, dette Lautumiae, delle antiche cave di tufo, che venivano utilizzati per la detenzione di prigionieri di basso rango. Probabilmente il complesso era in connessione anche con le Scalae Gemoniae dalle quali venivano gettati i condannati. Certamente ciò accadde sotto l’imperatore Tiberio a quei condannati a morte per aver commesso il delitto di lesa maestà e successivamente anche le vittime di conflitti legati al potere imperiale, come ad esempio accadde all’imperatore Vitellio, subirono questa sorte.
    Tutte le ricostruzioni del complesso carcerario, a partire da quelle più antiche, ad esempio di Piranesi, a quelle più moderne, hanno utilizzato le fonti bibliografiche per restituirne un’immagine compiuta.

    Tullianum – Si ringrazia Riccardo Auci per la foto

    Al di là della difficoltà di immaginare l’intera struttura, l’identificazione del Carcere Mamertino con gli ambienti che oggi si trovano sotto la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami è certa, poiché dalle fonti, ad esempio in Plinio, si sa che esso era in prossimità del Tempio della Concordia nelle vicinanze del Foro, il che coincide con la presenza nella medesima zona del Clivus Lautumiarum, ovvero la strada lungo la quale si trovavano le Lautumiae e nel muro di uno degli ambienti del carcere, il Tullianum, si vede incidere il muro della Curia Hostilia.
    Il complesso carcerario che arriva fino a noi è costituito da una camera sotterranea più profonda detta Tullianum, e da una seconda camera, sempre sotterranea ma posta al di sopra del Tullianum, detta Mamertino. La comunicazione tra le due camere, oggi è assicurata da una scala moderna, ma in antico l’unica comunicazione era una botola che si apriva nel pavimento del Mamertino e che è ancora visibile.
    Il nome di Tullianum ha sempre indotto a pensare che la sua costruzione fosse da attribuire a Servio Tullio o a Tullio Ostilio, ma Livio ne attribuisce la fondazione a Anco Marzio. Più probabilmente l’etimologia deve essere fatta risalire alla parola latina tullus, ovvero polla d’acqua. In effetti ancora oggi c’è una sorgente all’interno del Tullianum, che la tradizione popolare racconta che fu fatta scaturire da Pietro e Paolo nel corso della loro detenzione. Con l’acqua di questa sorgente battezzarono poi i loro carcerieri, Processo e Martiniano, dopo averli convertiti, e quindi abbandonarono il carcere per andare incontro ai loro destini. In realtà è possibile che il Tullianum fosse in origine una cisterna e che potesse avere anche una funzione sacrale.

    Colonna alla quale sarebbe stato legato Pietro – Tullianum

    Del Tullianum una descrizione molto precisa ci è lasciata da Sallustio nel De Catilinae coniuratione. Nel suo resoconto dell’imprigiona- mento e dell’esecuzione dell’ex console Lentulo, di Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, lo storico tratteggia una concisa quanto fedele descrizione del luogo, ancora valida per il sito così come ci è giunto: “Vi è un luogo nel carcere chiamato Tulliano, un poco a sinistra salendo, sprofondato a circa 12 piedi sottoterra. Esso è chiuso tutto intorno da robuste pareti e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta di pietra: il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l’oscurità e il puzzo”.
    Il Tullianum era il carcere simbolo per i prigionieri illustri dell’antica Roma e non a caso si trova in un’area centralissima a ridosso della Via Sacra nel Foro. Ha ospitato in ceppi, per circa mille anni, i grandi nemici del popolo e dello Stato, i grandi vinti e i grandi traditori di Roma. Qui vennero gettati, tra gli altri: Ponzio, re dei Sanniti, vincitore delle Forche Gaudine qui decapitato nel 290 avanti Cristo, Erennio Siculo, amico di Gaio Sempronio Gracco nel 123 avanti Cristo, Giuturna, re della Numidia nel 104 avanti Cristo, Lenulo e Centego, i Catilinari nel 61 avanti Cristo, Vercingetorice, capo dei Galli nel 49 avanti Cristo, Seiano e i suoi figli nel 31 dopo Cristo.
    La tradizione vuole che qui furono rinchiusi Pietro e Paolo, e racconta che Pietro, scendendo con il compagno nel Tullianum, cadde battendo il capo contro la parete lasciandovi un’impronta. Secondo quanto ci trasmette lo storico Ammiano Marcellino nelle sue Storie, il Carcere Mamertino diviene luogo oggetto di pellegrinaggio, perché luogo di detenzione dei santi Pietro e Paolo, solo a partire dal VI secolo. Ma alcune fonti affermano che fu elevato a luogo di culto già nel 314 dopo Cristo, quando il Papa Silvestro lo dedicò a San Pietro in Carcere.

    Chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro – Piranesi

    Proprio di fronte al complesso Mamertino, si trova una delle più belle e meno conosciute chiese di Roma dedicata ai Santi Luca e Martina, a cui è legata una storia avvincente.
    Nel 1634: Pietro Berrettini, meglio noto come Pietro da Cortona, immenso pittore e architetto del primo Barocco, si attribuisce l’incarico di ricostruire a sue spese la chiesa di Santa Martina al Foro Romano, ormai in stato di abbandono da molti anni. Il culto di Martina era ormai avvolto dall’oblio e delle sue reliquie non si era persa traccia. A differenza di altre martiri più celebri, infatti, lei non aveva avuto il dono di una devozione costante, capace di conservarne il ricordo nel tempo.
    Pietro da Cortona, oltre alla ricostruzione della chiesa, desiderava ardentemente ritrovare le reliquie della martire, accanto alle quali, qualora fossero state ritrovate, voleva essere sepolto. Un’impresa che avrebbe dovuto realizzare da solo, dal momento che papa Urbano VIII non voleva in alcun modo finanziarla.
    Chi era Martina? Di lei, come del resto della gran parte dei martiri della cristianità delle origini, sappiamo pochissimo, se non quello che ci trasmettono le Passiones, scritti agiografici dove realtà e leggenda si mescolano.
    La sua vicenda terrena si colloca nella prima metà del III secolo dopo Cristo. La giovanissima Martina, nata in una nobile famiglia romana, rimase orfana di entrambi i genitori. A seguito di ciò Martina decise di rinunciare a tutte le sue ricchezze per donarle ai poveri: una pratica di carità comune a molte donne delle prime comunità cristiane.

    Santa Martina – Nicola Menghini – Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella” per la foto

    Regnava allora Alessandro Severo, un imperatore originario della Frigia, regione dell’Anatolia occidentale. Egli era un uomo tollerante, tanto da includere Cristo nel suo larario, ma evidentemente non abbastanza per proteggere Martina dalla persecuzione di Ulpiano, celebre giureconsulto e potente prefetto del Pretorio. Arrestata per la sua fede, che professava apertamente, la giovane fu sottoposta ad atroci sevizie, tra cui, quella più crudele, di straziarne le carni con uncini di ferro. La Passio narra che Martina fu condotta davanti alla statua di Apollo e torturata, ma la statua del dio andò in frantumi e un terremoto distrusse il tempio e ne uccise i sacerdoti. Lo stesso prodigio si ripeté quando ella fu condotta e seviziata nel tempio di Artemide. Nessuno dei due prodigi arrestò la mano dei suoi torturatori, che accecati dall’odio la decapitarono. Era il 228: da quel momento su Martina scese il silenzio.
    Il suo martirio, però, ebbe grande eco nella prima comunità cristiana di Roma. Tanto che, quattro secoli dopo la sua morte, papa Onorio I le volle dedicare una piccola chiesa in un luogo dove un tempo sorgeva l’antica Curia Hostilia, così denominata perché fondata, secondo tradizione, dal re Tullo Ostilio. L’invidiabile posizione della chiesa, posta tra il Foro Romano e i Fori di Cesare e di Augusto, era valso alla chiesa l’appellativo di Sancta Martina in tribus foris.
    Ma il culto durò poco tempo, tanto che la chiesa fu adibita ad usi civili e ancora una volta la memoria della martire si perse, fino al 1256, durante il pontificato di Alessandro IV, quando, nel corso di lavori di ripristino della chiesa, vennero alla luce le reliquie di Martina e di altri tre martiri: Concordio, Epifanio e un terzo rimasto senza nome. Restaurata e riconsacrata, la chiesa, incredibilmente, andò incontro a un nuovo abbandono.
    Passarono altri secoli. Nel 1588 papa Sisto V concesse la chiesa di Santa Martina all’Università delle Arti della pittura, della scultura e del disegno – l’attuale Accademia Nazionale di San Luca – come compensazione per l’abbattimento della chiesa dell’Esquilino intitolata a Luca evangelista protettore dei pittori, demolita a causa dell’ampliamento della piazza di Santa Maria Maggiore.

    Cupola – Chiesa dei santi Luca e MArtina al Foro

    Tra il 1592 e il 1618 diversi artisti come Federico Zuccari e Giovanni Baglione realizzarono vari progetti per la ricostruzione della chiesa accademica, ma il lavoro di restauro era davvero arduo: dalle murature da rialzare ai pavimenti da rifare e poi la cripta per i sepolcri degli artisti da scavare e costruire ex novo. Insomma, occorreva un’immane quantità di denaro che non si poteva coprire neanche con la vendita delle antichità rinvenute nei dintorni. A quel punto si fece avanti Pietro da Cortona, divenuto nel 1634 principe dell’Università delle arti, chiarendo a tutti, al papa in primis, che al denaro avrebbe provveduto lui stesso. Sperava, infatti, che nella chiesa potesse rinvenire le spoglie della martire, delle quali si era perduta traccia.
    Pietro da Cortona elaborò il progetto e poi, come prima cosa, iniziò a scavare sotto l’altare, dove intendeva predisporre la tomba di famiglia, esattamente sotto la confessione, secondo l’uso antico. Ed ecco che il 25 ottobre del 1634 affiora dallo scavo una cassa con molti resti e una lamina di terracotta con su scritto “qui riposano i corpo de’ Sacri Martiri Martina Concordio Epifanio con loro Compagno”.
    La scoperta fece accorrere tutta Roma, la città fu inondata da un clima di festa. Urbano VIII, commosso, si recò subito a rendere omaggio alla martire. Non solo, il papa decise di stanziare una gran quantità di danaro per aiutare nell’impresa Pietro da Cortona. L’euforia è così contagiosa da spingere anche il cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, a donare fondi. In questo clima gioioso e commosso, Urbano VIII fissò al 30 gennaio la celebrazione di Martina e la eleva a compatrona di Roma.

    Busto di Pietro da Cortona – chiesa dei santi Luca e Martina al foro – Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella” per la foto

    Quanto a Pietro da Cortona, l’emozione intensa che provò al ritrovamento delle reliquie lo spinse a modificare il suo progetto architettonico tanto da trasformarlo in una testimonianza di commossa devozione. Nella realizzazione della chiesa mise tutto se stesso: talento, passione, impegno, denari. E il risultato fu quell’autentico gioiello del barocco romano che si può ammirare nel cuore del Foro Romano, accanto ai marmi istoriati dell’arco di Settimio Severeo e all’umbilicus urbis, cioè il centro ideale di Roma. La chiesa dei Santi Luca e Martina è un capolavoro di armonia, di morbidezza e di luce, con la curvatura dolce della facciata, la preziosità della cupola.

    Roma, 16 luglio 2017

  2. Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna

    Filippo IV d’Asburgo, detto anche Filippo il Grande, fu re di Spagna dal 1621 fino al 1665, anno della sua morte, ma fu anche sovrano dei Paesi Bassi spagnoli, del Portogallo e di Algarve fino al 1640.

    Filippo IV – Diego Velasquez

    In realtà sotto questo titolo di re di Spagna, Filippo IV nascondeva molte altri titoli. Egli, infatti, era anche: re di Napoli, re di Sicilia, re di Sardegna e duca di Milano, il che spiega, almeno in parte, la relazione strettissima esistente tra Filippo IV medesimo e molti degli stati europei, ed in particolare l’Italia.
    In Italia la relazione si espandeva ufficialmente su territori molto estesi come il Regno delle Due Sicilie e Milano, ma anche attraverso influenze più mediate e velate come quello sul Principato di Piombino, che attraverso Nicolò I Ludovisi metteva di fatto il Principato sotto l’influenza del regno di Filippo IV.
    La relazione con l’Italia fu quindi strettissima e questa si esplicò non solo attraverso relazioni politiche ma anche attraverso relazioni culturali che legarono in modo particolare la monarchia spagnola all’Italia del Seicento.
    La relazione culturale scaturiva dal fatto che Filippo IV fu anche un grandissimo mecenate e collezionista d’arte, e inviò a Roma insieme a Rubens anche Diego Velasquez, di cui di fatto era il patrono, in almeno due occasioni, tra il 1629 e il 1631 e poi tra il 1648 e il 1651, con il compito di acquistare opere per la decorazione dell’Alcazar, del Buen Retiro di Madrid e di altri palazzi reali.
    L’opera di collezionismo svolta da Filippo IV verso l’Italia, si avvalse anche di altri uomini di cultura quali il legato papale Francesco Barberini e dei suoi viceré e ambasciatori quali Manuel de Acevedo y Zuniga, che era ambasciatore a Roma, o Antonio Alvarez de Toledo y Beaumont che era ambasciatore a Napoli.
    Grazie all’attività di Filippo IV e dei suoi collaboratori e intermediari durante il suo regno, e poi anche durante il regno del suo successore, Carlo II, affluirono nella Collezione Reale opere che provenivano dai più vivaci centri artistici italiani del Seicento quali Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Milano.

    La tunica di Giuseppe – Diego Velasquez

    E’ questo il motivo per cui troviamo oggi nella collezione del Patrimonio Nacional, donazione che la Corona Reale, nella persona di Isabella II, ha fatto nel 1885 allo Stato spagnolo ovvero al popolo spagnolo, le opere non solo di tutti i più grandi artisti del barocco italiano, quali Caravaggio, Bernini, Guido Reni, Carracci, Giambologna, Algardi, ma anche artisti minori e soprattutto quel gruppo di artisti un po’ speciali del barocco italiano che si formarono, vissero ed oprarono a Napoli, tra i quali si possono ricordare Massimo Stanzione, Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Micco Spadaro e l’artista spagnolo di nascita, ma che potremmo definire napoletano per tutta la vita, Jusepe de Ribera.
    La mostra dal titolo “Da Caravaggio a Bernini, Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna” delle Scuderie del Quirinale, presenta al pubblico una collezione di opere che normalmente sono difficilmente visibili al pubblico, anche spagnolo, a causa della loro particolare collocazione.
    La mostra diventa anche un’occasione unica per ammirare alcune opere credute a lungo diperse o erroneamente attribuite nel corso dei secoli e che sono state restaurate per l’occasione.
    Tra le opere esposte alcune sono di grande fascino quali il Crocefisso del Bernini,

    Crocefisso – Gianlorenzo Bernini

    commissionato per il Monastero di San Lorenzo all’Escorial, esposto per pochissimi anni e sostituito da quello di Domenico Guidi allievo dell’Algardi. Crocefisso a lungo ritenuto copia di bottega e solo recentemente attribuito con certezza al Bernini.
    O ancora il modello della Fontana dei Quattro Fiumi, sempre del Bernini, probabilmente inviata a Filippo IV per motivi diplomatici, proprio da Nicolò I Ludovisi principe di Piombino, che aveva anche fatto da mediatore tra Bernini ed Innocenzo X, deciso in un primo tempo a non servirsi dell’artista troppo legato al suo predecessore Urbano VIII.
    Un regalo del genere può forse apparire strano, ma bisogna considerare che, al di là dell’implicito valore pubblico e primario di approvvigionamento idrico della città, la realizzazione della Fontana dei Quattro Fiumi aveva un preciso significato politico che Innocenzo X Pamphilj voleva sottolineare e sancire. Detto significato politico fu ed è in definitiva riassunto dalla scelta di porre in cima all’obelisco della fontana la colomba con il ramo di ulivo nel becco. Colomba che è scelta non solo perché essa è nel simbolo araldico di Innocenzo X ma, soprattutto, perché il papa si sentiva attore principale se non unico della ritrovata pace in Europa durante il suo pontificato.
    Durante il pontificato di Innocenzo X fu infatti firmata la pace di Vestfalia, che segnava la risoluzione della guerra dei Trent’Anni, guerra durante la quale il regno di Filippo IV si era particolarmente esteso. La colomba posta in alto sull’obelisco, si erge sui quattro spigoli di esso riunificandoli, e poiché su ogni spigolo di fatto c’è uno dei Continenti allora conosciuti, il messaggio era ed è che il papa aveva operato per l’unità e l’armonia dell’intera Terra.
    Oltre opere che sono portate per la prima volta all’attenzione del grande pubblico la mostra permette di guardare e conoscere un ampio gruppo di artisti che costituiscono il fulcro del barocco napoletano. Massimo Stanzione, Mattia Preti, Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Micco Spadaro e Jusepe de Ribera, spagnolo di nascita ma napoletano per la vita, furono artisti che ebbero modo di confrontarsi direttamente o indirettamente con Caravaggio, che fecero propria la sua lezione sulla luce, sulla bellezza, sulla rappresentazione del vero e la reinterpretarono in alcuni casi facendo emergere una sorta di anima nera che probabilmente Caravaggio non aveva avuto il tempo o il coraggio di far emergere.

    San Gerolamo penitente – Jusepe de Ribera

    Nascono così i dipinti dei tanti Santi eremiti di Jusepe de Ribera: per lo più anziani dalla magrezza esasperata di cui dovevano essere piene le strade dei Quartieri Spagnoli dove lo Spagnoletto, soprannome dovuto alla bassa statura del de Ribera, visse praticamente tutta la vita.
    Ma la rappresentazione dei fatti, anche quando questi sono tratti dalla Bibbia, solo attraverso le emozioni ed i sentimenti come nel Luca Giordano de L’asina di Balaam, non può bastare e tante sono le innovazioni e le reinterpretazioni che i pittori napoletani introducono allontanandosi da quel caravaggismo un po’ di maniera che era stato in qualche modo cristallizzato da Bartolomeo Manfredi. Così un dipinto che arriva alla fine di quel seicento barocco, come la Cattura di Cristo di Luca Giordano, è forse il dipinto che più si allontana dalla lezione di Caravaggio, pur rimanendo saldamente legato alla lezione di Bernini.

    Roma, 2 luglio 2017

  3. Il Bernini giovane: la chiesa di Santa Bibiana

    Costeggiando il lato destro lungo la via Giolitti, in un contesto oggi sconvolto dal terrapieno ferroviario e dagli edifici della stazione Termini, è inserita la Chiesa di Santa Bibiana, la prima architettura progettata e costruita da Gianlorenzo Bernini a metà degli anni venti del 1600 per volere di Urbano VIII Barberini.

    Santa Bibiana – Giovan Battista Falda, 1669

    La chiesa sorge sui resti di una piccola basilica paleocristiana voluta da Papa Simplicio nel V secolo, e dedicata, per suo volere, alla giovane martire Bibiana, che sarebbe stata vittima della persecuzione anticristiana dell’imperatore Giuliano l’Apostata, 361-363, che ostacolò la fede cristiana nonostante la libertà di culto proclamata da Costantino nel 313.
    Il governatore Apronio avrebbe mandato, quindi, a morte i genitori della giovane, Fausto e Dafrosa, cercando successivamente di costringere Bibiana e sua sorella Demetria all’apostasia.
    Demetria morirà sotto tortura e Bibiana sarà flagellata a morte.
    Proprio all’inizio del pontificato di Urbano VIII, 1623, furono ritrovate le spoglie della giovane martire. Egli commissionerà il lavoro al giovane Bernini, obbligandolo a diventare un architetto e a ricostruire la chiesa dandogli un’impronta moderna, a raffigurare la Santa sull’altare maggiore, ma soprattutto ad essere il regista della campagna d’immagine che avrebbe lanciato il suo pontificato.

    Santa Bibiana – Gianlorenzo Bernini

    La facciata è composta da un portico a tre arcate alternate da paraste ioniche, sormontate da un nicchione centrale rettangolare con timpano e fiancheggiato da due ali a coronamento orizzontale con balaustra, ognuna aperta da una finestra. L’interno è a tre navate, separate da otto colonne di spoglio con capitelli corinzi e compositi tardo-antichi, sopra i quali corre la trabeazione.
    Bernini decise di conservare l’impianto dell’antica basilica, ma chiuse le finestre della navata centrale, aggiunse due cappelle ai lati e ricostruì la zona absidale, dove pose la statua di Bibiana. Bibiana è rappresentata un attimo prima di ricevere il martirio, abbracciata alla colonna dove sarà flagellata a morte, che si conserva ancora oggi a sinistra del portale centrale, protetta da una grata disegnata dallo stesso Bernini, grata identica a quella che sotto la statua nasconde il sarcofago in alabastro di età costantiniana che custodisce il corpo di Bibiana.
    Bibiana ha in mano la palma simbolo del martirio e ai suoi piedi un cespuglio di quella che era nota nel 1600 come “l’erba di Santa Bibiana”, un’erba ritenuta miracolosa, che cresceva in prossimità della chiesa.
    Le pareti della navata centrale furono decorate con affreschi che raccontano gli episodi della vita di Santa Bibiana: a destra quelli eseguiti da Agostino Ciampelli, pittore tardo-manierista; a sinistra quelli eseguiti da Pietro da Cortona, un giovane pittore toscano. Anche questo un debutto e alla sua prima collaborazione con Bernini.
    Di Ciampelli sono gli “angeli musicanti” in controfacciata.

    Roma, 17 giugno 2017

  4. Artemisia

    di Giuseppe Frangi

    Artemisia Gentileschi è un’artista soffocata dalla curiosità che la circonda.

    Giuditta e la fantesca – Artemisia Gentileschi

    La vicenda dello stupro subito da un amico del padre Orazio, anche lui pittore, sembra averne definito il profilo non solo biografico ma anche artistico.
    Ogni suo quadro viene letto in rapporto a quel drammatico fatto; in particolare la frequenza di soggetti di carattere biblico in cui donne come Giuditta o Dalila fanno giustizia di uomini è interpretato come vendetta per la violenza subita.
    La mostra in corso in queste settimane a Roma a Palazzo Braschi rende invece finalmente giustizia ad Artemisia come pittrice, grazie ad un approccio molto scientifico, senza concessioni al gossip. Una mostra da non perdere.
    Resta però aperta una questione affascinante: che cosa significava essere donna e voler essere pittrice in una società come la Roma di quell’inizio ‘600? Vero che Artemisia era figlia di un artista e quindi questa “anomalia” trova una mezza spiegazione.
    Tuttavia la sua avventura contiene comunque qualcosa di sfidante.

    Giuditta che decapita Oloferne – Artemisia Gentileschi

    Questo Autoritratto, conservato nelle raccolte reali inglesi, è bellissimo perché aiuta a rispondere a quella domanda (purtroppo non è arrivato per la mostra che pur è completissima di opere): si vede Artemisia messa di tre quarti, con la mano destra sollevata verso la tela mentre con la sinistra tiene la tavolozza.
    Il quadro rappresenta un’allegoria della pittura ed è affascinante capire come Artemisia abbia costruito quest’immagine in cui lei non guarda frontalmente come se fosse davanti ad uno specchio e in cui non rovescia la figura, in quanto la vediamo comunque dipingere con la destra.
    Come può aver catturato un’immagine così? Gli autoritratti al maschile in genere sono sempre degli esercizi a volte straordinari di narcisismo. Sono prove in cui si afferma con forza l’autocoscienza dell’essere artisti. Artemisia invece ha un sguardo diverso, molto femminile: al centro non mette se stessa ma ciò verso cui sta guardando, con un occhio teso, quasi commosso.
    La linea di forza del quadro porta infatti fuori dal quadro, là sulla sinistra dove qualcuno o qualcosa è in posa.

    Maddalena – Artemisia Gentileschi

    La ragione e il fondamento della pittura secondo Artemisia non stanno quindi nelle capacità espressive dell’artista, quanto nell’attrattiva che la realtà esercita su di lui.
    Tutto nel quadro accompagna questa sensazione: lo sguardo concentrato, il volto che ruotando si allunga, l’orientamento di tutto il corpo che si sporge oltre la tela per meglio guardare, la capigliatura molto semplice e dimessa di chi ha cose più interessanti da fare che non agghindarsi in vista dell’autoritratto. È una vera allegoria della pittura, che ci dice come essa sia un esercizio di stupore più che una prova di forza.

    Roma, 4 marzo 2017