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  1. La via alchemica degli Angeli

    Ponte sant’Angelo è il più significativo e il più bello dei ponti dell’Urbe.

    Ponte Sant'Angelo - Roma

    Ponte Sant’Angelo – Roma

    Carico di storie, leggende, miti e significati religiosi. Dall’avvento dell’era cristiana ha rappresentato il punto di congiunzione tra Roma e Pietro. Milioni di pellegrini provenienti da tutta Europa lo hanno attraversato salmodianti alla volta della basilica per riconciliarsi con Dio ai piedi della Tomba del primo papa. Soprattutto in occasione dei Giubilei.
    Oggi lo vediamo, con i suoi angeli meravigliosi, così come lo concepì Gian Lorenzo Bernini, il genio del barocco romano. Nel 1669, su incarico papa Clemente IX Rospigliosi, il grande artista progettò le dieci statue di angeli che fiancheggiano il ponte: di queste, otto furono realizzate dai suoi allievi e due dal Bernini stesso, successivamente trasferite, perché straordinariamente belle, nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Il percorso fu immaginato come una sorta di Via Crucis che conduce alla Resurrezione, attraverso pratiche di penitenza: i dieci angeli reggono gli strumenti della passione di Cristo.
    Un secolo dopo, nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, un oscuro personaggio elaborò un percorso di elevazione dell’umana natura di tutt’altro segno e significato rispetto a quello che, per secoli, ponte e castello avevano rappresentato. Ad opera soprattutto di Giuseppe Balsamo, meglio conosciuto come Alessandro, conte di Cagliostro.

    Alessandro, conte di Cagliostro

    Alessandro, conte di Cagliostro

    Sostanzialmente un avventuriero, esoterista e alchimista siciliano che non fece altro che entrare e uscire dalle prigioni di mezza Europa. Nel dicembre del 1789 fu arrestato a Roma e condotto nelle carceri di Castel Sant’Angelo, dove attese per alcuni mesi l’inizio del processo. Al collegio giudicante egli apparve colpevole di eresia, massoneria e attività sediziose. l 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell’inaccessibile fortezza di San Leo allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Fu in quei mesi di prigionia che Cagliostro elaborò la sua teoria sulla Grande Opera alchemica di ottenimento della pietra filosofale: la via alchemica si proponeva come una di quelle vie che portavano l’uomo al superamento della sua natura effimera e all’identificazione col divino. La realizzazione di questo fine costituisce la “Grande Opera”, con il quale il “fuoco segreto”, un’energia cosmica sconosciuta all’uomo nel suo stato ordinario, rende possibile la trasformazione dell’uomo e quella dei metalli.
    Accanto ai molteplici significati che ponte e castello, in perfetta simbiosi, hanno assunto attraverso i secoli, va ricordato che il ponte che conosciamo col nome “Sant’Angelo” fu costruito nel 134 dall’imperatore Andriano in funzione del suo mausoleo. Scaturito dalla mente dell’imperatore contemporaneamente alla propria tomba, esso nacque come una singolare strada semi privata che, dalla sponda sinistra del Tevere, immetteva direttamente nel grande portale d’accesso al mausoleo. In origine, dunque, fu un percorso riservato ai cortei funebri che avrebbero condotto là dentro una lunga serie di personaggi imperiali: da Adriano stesso (138) fino a Caracalla (217).

    Potaverunt me aceto - Antonio Giorgetti

    Potaverunt me aceto – Antonio Giorgetti

    Dal prenome di Adriano, il ponte fu chiamato Elio. Progettato dunque in funzione della grande tomba, nacque in stretta relazione strutturale e architettonica con quella. Adriano stesso, uomo di straordinaria capacità ed esperienze artistiche, collaborò alla stesura del progetto.
    Con l’inizio dell’era cristiana il ponte rappresentò il passaggio obbligato delle folle di pellegrini verso la tomba venerata dell’apostolo Pietro soprattutto in occasione del giubileo.
    La più famosa citazione, riferita al giubileo del 1300, è contenuta nella Divina Commedia:

    […] come i Roman per l’esercito molto,
    l’anno del giubileo, su per lo ponte
    hanno a passar la gente modo colto,
    che da l’un lato tutti hanno la fronte
    verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,
    da l’altra sponda vanno verso ‘l monte […]
    (Inferno, canto XVIII, vv. 28-33)

    La vicenda più drammatica è costituita, invece, dalle numerose vittime provocate dal crollo delle spallette, nell’anno giubilare 1450, a causa del sovraffollamento derivato anche dalle piccole costruzioni commerciali che si erano insediate sul ponte.

    Mappa di Schedel 1493 in cui si vedono le due cappelle in testa al ponte Sant'Angelo

    Mappa di Schedel 1493 in cui si vedono le due cappelle in testa al ponte Sant’Angelo

    In memoria delle vittime Nicolò V fece costruire, alla testata del ponte verso la piazzetta, due piccole cappelle da cui settant’anni dopo dovevano trarre profitto i lanzichenecchi che sparavano contro il castello. Per questo, Clemente VII si affrettò a farle distruggere e le sostituì, nel 1535, con le statue degli apostoli Pietro e Paolo; Clemente IX Rospigliosi, nel 1669 collocò le dieci statue di angeli che recano i simboli della passione di Cristo.
    I tre archi centrali del ponte come oggi lo vediamo sono originari, mentre i due laterali furono costruiti nel 1892 per raccordare l’antica opera ai nuovi muraglioni. Vennero in tal modo sostituite le due minori arcate costruite nel 1668 in luogo delle antiche rampe originarie: queste erano sostenute da piccoli archi i quali ritornarono alla luce durante gli stessi lavori sul lungotevere.
    La sistemazione urbanistica di tutto il settore intermedio dell’antico Campo Marzio fu imperniata sul ponte Sant’Angelo. Alla sua testata sinistra furono fatti affluire tutti i principali assi viari che erano affiancati da solenni portici. L’urbanistica medievale naturalmente fu adeguata alla situazione, tanto più che il ponte fu l’unico (oltre ai ponti dell’Isola Tiberina) a non crollare. Per questo motivo anche la Via Recta che, in epoca classica arrivava al Ponte di Nerone si attestò su quello che doveva essere chiamato il “Canale di Ponte”.

    Castello e Ponte Sant'Angelo - Piranesi

    Castello e Ponte Sant’Angelo – Piranesi

    Scorrendo le storie, i miti e i simboli che si sono “depositati” lungo il ponte e, per osmosi naturale, su Castel Sant’Angelo, emerge quanto vita e morte risultino, in questa porzione di Roma, sempre inesorabilmente intrecciati. A partire dalle origini, quando il ponte introduceva gli imperatori passati a miglior vita all’interno della Mole di Adriano. E ancora, quando i pellegrini provenienti da tutta Europa, quindi “morti” spiritualmente perché in stato di peccato attraversavano il ponte in direzione della basilica di Pietro l’apostolo per riconciliarsi con Dio e quindi riacquistare la vita di grazia.
    Fino allo splendido racconto che ci fornisce la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine nel XIII secolo: nel 590 infuriava in una Roma assediata dai Longobardi un’epidemia di peste che aveva ucciso lo stesso papa Pelagio. Il nuovo pontefice Gregorio Magno ordinò una “litania settiforme”. E allora sette processioni che, partendo dalla chiesa principale delle sette regioni ecclesiastiche in cui era divisa la città, confluirono a Santa Maria Maggiore dove Gregorio esortò il popolo a seguirlo fino a San Pietro insieme con l’immagine acheoropirita della Madonna, la Salus populi romani custodita nella basilica liberiana. Mentre la processione passava sul ponte Elio, il papa vide sulla Mausoleo di Adriano l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada nella guaina; era quello il segno che, per misericordia divina, la pestilenza era finita.

    San Michele Arcangelo - Raffaello da Montelupo

    San Michele Arcangelo – Raffaello da Montelupo

    Da quel momento la Mole di Adriano sarebbe stata chiamata Castel Sant’Angelo e il ponte, Ponte Sant’Angelo. Lo storico Cesare D’Onofrio, basandosi su documenti, ha ricostruito il probabile processo mentale che ha condotto all’elaborazione di questa leggenda. La litania settiforme divenne una consuetudine nel medioevo, ma il centro di raccolta non fu più Santa Maria Maggiore: era subentrata la basilica di San Pietro in Vaticano. Siccome i salmodianti dovevano necessariamente passare per il ponte Sant’Angelo e sotto la Mole Adriana (allora chiamata Castello di Crescenzio per via dei Crescenzi, la famiglia che ne era divenuta proprietaria) sulla cui cima vi era l’oratorio dedicato a San Michele, e forse una statua dell’Arcangelo, qualche fedele avrà cominciato a immaginare una scena miracolosa ricordandosi della celebre orazione che Gregorio Magno aveva pronunciato durante l’epidemia esortando i fedeli alla processione: «Il dolore ci convinca alla conversione, e la pena che stiamo soffrendo dissolva la durezza del cuore, come dice il profeta: “La spada è arrivata fino all’anima… Ecco tutto il popolo è trafitto dalla spada dell’ira celeste… sotto la spada di così grande avversità divina noi dobbiamo insistere con lamenti pressanti». La leggenda si radicò così profondamente che durante l’epidemia del 1348 si rifece la processione con l’immagine della Madonna della chiesa dell’Ara Coeli: «mentre si stava avvicinando al ponte di San Pietro (l’attuale Sant’Angelo), la statua marmorea dell’angelo sulla cima del Castello, mostrando riverenza a tale immagine, varie volte s’inchinò» narra un anonimo quattrocentesco. «Più di sessanta persone degne di fede, giurando sui sacramenti, affermavano di aver visto ciò con i propri occhi corporei, all’immagine gridando ad altissima voce misericordia». Dalla leggenda nacque la tradizione iconografica dell’angelo che rinfodera la spada.

    San Michele Arcangelo - Peter Anton von Verschaffelt

    San Michele Arcangelo – Peter Anton von Verschaffelt

    Dalla fine del tredicesimo secolo doveva esserci, sulla sommità del Mausoleo una scultura raffigurante l’arcangelo Michele con la sua spada. Non risalente ai tempi di Gregorio Magno ma a un periodo successivo alla formazione della leggenda. A quella scultura succedette verso la metà del Quattrocento un’altra che fu frantumata il 29 ottobre del 1497 dallo scoppio di una polveriera sistemata imprudentemente nell’ex cappella e colpita da un fulmine durante il temporale. Quale fosse l’atteggiamento dell’angelo in quelle prime sculture non sappiamo. Conosciamo la statua di Raffaello di Montelupo che venne innalzata nel 1544 e rimossa due secoli dopo, nel 1747, per essere sostituita dall’attuale, realizzata da Peter Verschaffelt. Nelle giornate di forte vento le ali spiegate dell’arcangelo Michele, ondeggiano dolcemente a significare la sua invisibile presenza tra le nubi di Roma, inter nubes.

  2. Quadraro. Il quartiere ribelle

    Il Quadraro è un quartiere di Roma, posto nel quadrante sud – est, che oggi sollecita sentimenti contrastanti: molti non sanno nemmeno identificarlo nel più ampio settore del Tuscolano e almeno altrettanti lo immaginano, senza forse esserci stati e solo sulla scorta del racconto, come desolato e pericoloso, abitato da cittadini se non violenti certamente un po’ fuori dal comune.

    Gente di Quadraro - David "Diavù" Vecchiato

    Gente di Quadraro – David “Diavù” Vecchiato

    In realtà gran parte di questo immaginario è dovuto all’oblio in cui dal 10 aprile 1944 il quartiere è stato fatto più o meno consapevolmente cadere.
    Una rimozione collettiva e si potrebbe dire storicizzata non solo del quartiere e della sua gente, ma anche dei relativi fatti che a quel 10 aprile portarono e che lasciarono un segno indelebile nel Quadraro.
    Tutto il quadrante della città che si disponeva e si dispone intorno alla Casilina e che si estende fino alla Tuscolana, fu zona chiave durante l’occupazione nazista: la Casilina soprattutto era percorsa dai convogli tedeschi che potavano munizioni e rifornimenti alle truppe che stavano difendendo la Linea Gustav. Cassino, Monte Maio, Esperia, tutto il basso Lazio insomma e i territori confinanti potevano essere raggiunti da Roma percorrendo la Casilina.
    La Resistenza romana fu particolarmente impegnata in questa parte della città. Non solo i partigiani del CLN, ma anche Bandiera Rossa operarono in questa parte della città, con operazioni di attacco alle forze tedesche, di assalto alle colonne dei convogli, con l’obiettivo certamente di impedire che i rifornimenti arrivassero verso la linea Gustav, in primis Monte Maio avamposto di difesa di Monte Cassino, ma con l’obiettivo anche di ridistribuire i viveri così sottratti alla popolazione ridotta alla fame.

    Gino Scarano - David "Diavù" Vecchiato

    Gino Scarano – David “Diavù” Vecchiato

    La collaborazione tra partigiani e gente era perciò strettissima. In cambio la gente copriva la fuga dei partigiani, aiutava la lotta e sosteneva la resistenza e ospitava disertori che si sottraevano alla giustizia militare, non senza la collaborazione dei tanti parroci del territorio che non si tirarono in dietro.
    Il tessuto sociale e la condivisione delle stesse istanze e degli stessi bisogni, insieme ad una conoscenza del territorio ed una sua particolare conformazione geologica fece si che presto questa parte della città diventasse un luogo dove più semplice era nascondersi.
    «Vuoi sfuggire ai nazisti? Rifugiati in Vaticano o vai al Quadraro»: così si diceva a Roma nei mesi terribili dell’occupazione. La fama di questo spicchio a sud-est della città veniva addirittura paragonata all’extraterritorialità vaticana.
    Il bisogno di ribellione, la necessità di tornare liberi, dei suoi cittadini stavano poi in tanti atti di opposizione al regime in cui i combattenti erano consapevoli di esporre la propria persona al rischio di morte.

    Okurimono - Fin Dac - Quadraro

    Okurimono – Fin Dac – Quadraro

    Tra questi un episodio, mai completamente chiarito nella dinamica e che nel tempo ha assunto quasi la connotazione del mito, ne spiega il carattere indomito: era il 10 aprile del 1944, quando un gruppo di tedeschi in divisa cominciò a provocare Giuseppe Albano, il celeberrimo Gobbo del Quarticciolo – figura volutamente descritta come ambigua ed ambivalente dopo la guerra, una sorta di Robin Hood sottoproletario, un po’ rapinatore e un po’ partigiano – seduto ai tavoli dell’osteria “Da Giggetto” al Tuscolano insieme con i suoi amici. Lui non si fece pregare e sparò ai tre nazisti.
    Più probabilmente il Gobbo, che per due mesi con la sua banda aveva dato filo da torcere ai Nazisti nel quadrante Centocelle Quarticciolo, si ritrovò solo per caso insieme ai tre soldati tedeschi e per paura di essere riconosciuto e portato in galera, sparò per primo, uccidendoli.

    Numero dei probabili deportati durante il Rastrellamento

    Numero dei probabili deportati durante il Rastrellamento

    L’episodio non è mai stato chiarito nel dettaglio e non si sa quanto esso abbia influito sulla decisione di Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, di impartire una lezione esemplare alla popolazione del quadrante sud – est della città. Lezione che si tradusse nel rastrellamento del “Nido di Vespe”, il nome che i Nazisti usavano per indicare il Quadraro.
    Presa la decisione il 17 aprile 1944 l’esercito tedesco entrò nel quartiere e arrestò più di 900 uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni, che furono deportati in Germania per lavorare nell’industria bellica. Alla fine della guerra, un numero imprecisato (chi dice 2 chi dice 200) di abitanti del quartiere fece ritorno a casa dopo un estenuante viaggio fatto per lo più a piedi.
    E per ironia della sorte o solo per incuria statale, lunga fu la battaglia che consentì a queste persone il riconoscimento del loro status di deportati e solo tardivamente al Quadraro sarà conferita la Medaglia d’oro al valor civile.

    Particolare del monumento che commemora il Rastrellamento

    Particolare del monumento che commemora il Rastrellamento

    Passeggiare per le vie del Quadraro restituisce ancora oggi, in un quartiere ancora romanissimo sebbene multietnico, lo spirito di quella comunità che non accettò di farsi schiacciare dal nazifascismo. E permette anche di respirare, a ridosso di una strada così affollata e trafficata come la Tuscolana, una certa aria intima, di paese, che fa di questo quartiere una nuova isola da scoprire navigando attraverso l’arcipelago urbano.
    La visita che proponiamo sarà l’occasione di ricordare la storia del quartiere, ma anche di incontrare la straordinaria vitalità artistica di oggi, che prende forma e colore sui muri piccoli delle case del quartiere. Muri che ricordano tele e che nel loro insieme costituiscono il M.U.Ro, il Museo Urban di Roma, una delle prime esperienze di museo all’aperto dopo quella storica di Fausto delle Chiaie all’Ara Pacis.
    Il racconto del quartiere si appoggia quindi ai tanti straordinari murales realizzati da artisti qui confluiti da diversi paesi, che prestano gratuitamente il loro contributo a favore di un quartiere che vive quotidianamente immerso in un progetto di arte visiva che rispetta la sua identità e racconta la sua storia. M.U.Ro. è un progetto ampiamente condiviso e principalmente autoprodotto grazie ai contributi dei soci sostenitori, alle aste delle opere che gli artisti hanno appositamente realizzato e ad una serie televisiva andata in onda su Sky Arte.

  3. La Suburra di Roma Felix

  4. Incontri in ….. Trastevere

    Trastevere è uno dei quartieri più noti di Roma. I turisti fanno un “must” della visita al quartiere.

    Piazza Santa Maria in Trastevere

    Piazza Santa Maria in Trastevere

    E’ una necessità, quasi obbligo, camminare per le sue vie ed entrare, quindi, nella cartolina nella quale esso è stato incastonato quasi a viva forza. Una cartolina in cui però Trastevere perde quasi completamente la sua vera natura. Non quella architettonica. Trastevere rimane una delle zone di Roma che più ha mantenuto il suo legame con i secoli passati, lambito solo dal profondo rinnovamento che la città subì all’indomani dell’annessione all’Italia Unita.
    Camminando tra le sue vie è facile riconoscere l’impostazione medievale, le vie strette e tortuose, i resti architettonici di epoca romana spesso incastonati nei muri più moderni. La trasformazione è stata quasi tutta sociale. Essa è iniziata verso la fine degli anni cinquanta del novecento, agli inizi del boom economico e non si è più fermata.
    Il quartiere operoso, produttivo grazie alle manifatture, notissima quella degli arazzi che si trovava dentro il grande complesso di San Francesco a Ripa, o quella dei tabacchi, tradizionalmente in Piazza Mastai, o grazie ai mulini alimentati dalle acque che venivano giù con forza dal Gianicolo, lascia il posto al quartiere cartolina dove il Rugantino ed il Meo Patacca, da personaggi del mondo reale che riassumono in se un certo spirito del popolo, divengono vuoti stereotipi.

    Nuccia accetta Meo Patacca come suo sposo - Tavola di Bartolomeo Pinelli

    Nuccia accetta Meo Patacca come suo sposo – Tavola di Bartolomeo Pinelli

    Anche in questo Trastevere va incontro ad un cambiamento che è quasi a se stante rispetto a quello del resto della città. D’altra parte esso corrisponde all’originale Transtiberim, la parte della città al di là del fiume, lì dove si estendevano i campi coltivati e dove viveva una miscellanea di popoli, un “meltin’ pot”, come diremmo oggi. Gente operosa che svolgeva numerosissime attività.
    E’ nel Transtiberim che si trovavano i campi che il popolo romano donò a Muzio Scevola e a Cincinnato, e sempre qui si trovavano gli Horti di Cesare, giardini che Cesare stesso legò con un testamento al popolo romano.
    Il Transtiberim era il fuori città, escluso dalla città quadrata fondata da Romolo, da qui non passarano mai le Mura Serviane, ma solo, molto più tardi, le Mura Aureliane. Ma il Transtiberim era fondamentale per il controllo del guado del Tevere e le genti diverse che abitavano le sponde del fiume dovettero trovare un accordo, che passò attraverso guerre e aspri confronti, ma alla fine venne costruito il ponte, il Sublicio, dalla fondazione mitica. IL Sublicio collegò tra loro le due sponde e le relative genti, ma quelle del Transtiberim rimasero comunque diverse e, nel tempo, diedero origine ad un popolo minuto che fece delle molteplici attività artigianali e commerciali la propria ragione di vita. Chi viveva qui, infatti, faceva il vasaio, lavorava l’avorio, il cuoio, faceva l’ebanista o il mugnaio poiché dai tempi più antichi lungo le pendici del Gianicolo e giù fino al Tevere qui c’erano i mulini.
    Il carattere del luogo era decisamente popolare, come testimoniato dai culti che nel Transtiberim si praticavano, ma un popolo dal carattere internazionale se è vero che le testimoniante indicano la presenza di due estese comunità straniere: una siriana e l’altra ebraica.

    Santuario Isiaco - Gianicolo

    Santuario Isiaco – Gianicolo

    Le testimonianze sono la presenza di templi, come quello isiaco sulle pendici del Gianicolo, oggi incluso in villa Sciarra, e l’identificazione del cimitero ebraico più antico di Roma, scoperto in prossimità di Porta Portese. E sempre nel Transtiberim che è stata identificata la sinagoga più antica, quella a cui faceva riferimento la comunità ebraica prima che fosse creato il ghetto medievale.
    Ma non solo popolo abitava il Gianicolo e le sue pendici, ma anche una certa aristocrazia. Così sembra che l’attuale Villa Farnesina occupi in tutto o in parte la villa di Clodia, celebre come Lesbia di Catullo, e così pure che qui sorgesse la villa di Agrippa.
    A testimoniare poi il ruolo importante di controllo sui traffici fluviali, ben prima che sorgesse il porto di Ripa Grande, qui fu costruito il grande porto fluviale romano con i suoi estesi magazzini, e qui sono stati identificati i resti dei Castra Ravennatium, ovvero l’acquartieramento dei marinai di Classe, che probabilmente svolgevano funzioni di polizia portuale, oltre a curare la preparazione delle naumachie.
    Il rione, nella fase storica, era attraversato da due strade entrambe antichissime e percorse già dall’uomo primitivo.
    Quella detta Via Campana, che si dirigeva verso sud, e che successivamente sarebbe divenuta la via Portuensis, che permetteva alle antiche tribù e poi alla città di Roma di collegarsi alle saline alle foci del Tevere e quindi al mare, e la seconda che creava una comunicazione con l’Etruria e che sarebbe poi diventata la via Aurelia, il cui primo tratto corrisponde proprio a Via della Lungaretta.
    Intorno a questi due assi viari si costituì il rione che crebbe in maniera irregolare, con vie strette e tortuose, assetto urbanistico che si consolidò nel Medioevo e che ancora oggi permane.

    Via della Lungaretta 1946

    Via della Lungaretta 1946

    Tra le casupole spiccavano le due chiese più antiche di Santa Maria in Trastevere e di San Crisogono.
    Santa Maria in Trastevere divenne il cuore del rione dopo l’intervento di Giulio II che fece aprire un nuovo asse viario che corrisponde a Via della Lungara – Via della Scala, a cui si aggiunse un terzo asse viario voluto da Paolo V, che è Via San Francesco a Ripa che collega Santa Maria in Trastevere con San Francesco a Ripa.
    Il carattere popolare continuò a permanere e il rione non fu residenza di cardinali e vi risiedette solo una modesta nobiltà. Anche dopo l’unità d’Italia, gli urbanisti di Roma capitale volsero il loro sguardo altrove e il quartiere rimase sostanzialmente fedele a se stesso custodendo al suo interno una sorta di enclave della romanità più vera.
    L’unico intervento significativo dopo l’unità fu, nel 1886, l’apertura del Viale del Re, poi Viale del Lavoro, oggi Viale Trastevere. La via avrebbe dovuto servire di collegamento tra la stazione ferroviaria (quella che oggi si trova in piazza Ippolito Nievo) e via Arenula, ma la costruzione del Ponte Garibaldi ritardò, e la stazione fu declassata a favore di Roma Termini. Alla stazione di Piazza Ippolito Nievo restò solo il compito di smistamento delle merci, almeno fino agli anni trenta del novecento, quando perse anche questa funzione.
    Oggi il quartiere è preda di un turismo e di una frequentazione che ne hanno alterato profondamente il carattere e soprattutto il tessuto sociale.

    Madonna de Noantri

    Madonna de Noantri

    Ciò nonostante esso è in qualche maniera alla ricerca della sua passata identità con la riscoperta di una certa romanità che passa anche attraverso il recupero di una festa dal nome significativo: la Festa de Noantri dedicata alla Madonna de Noantri.
    Una romanità, quella trasteverina, che si rifà o che comunque ha le sue radici in quelle genti del Trans Tiberim e che, per questo motivo, profondamente diversa dalla romanità di altri quartieri della città, come quella che ancora oggi può respirarsi alla Garbatella, che trova le sue radici in una condizione sociale in qualche misura più moderna.
    Trastevere è, quindi, un’altra delle isole dell’arcipelago Roma e passeggiare tra le sue vie consente di imbattersi in luoghi, come la casa di Ettore Fieramosca, e personaggi dalle storie particolari alcuni dei quali ammantati di leggenda. Qui, nel Trans Tiberim, sono nati Rugantino e Claudio Villa, Bartolomeo Pinelli e Alberto Sordi, ma anche donne diversamente affascinanti che, se pur non sono di nascita trasteverine, lo divennero per assidua frequentazione come Giuditta Tavani Arquati e Lina Cavalieri, che D’Annunzio definì: “la massima testimonianza di Venere in Terra”.