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  1. ROMA BRUCIA! Il giallo dell’incendio di Nerone

    Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico fu il quinto imperatore della dinastia giulio-claudia. Successe al padre adottivo Claudio nel 54 e governò circa quattordici anni, fino al suicidio, avvenuto all’età di 30 anni.

    Nerone a Baia – Jan Styka

    Divenuto imperatore a 17 anni, sua madre Agrippina lo affidò agli esponenti più influenti dei circoli dell’Urbe: la milizia pretoriana, rappresentata dal prefetto del pretorio Burro, ed il Senato, nella persona di Seneca, il maggiore pensatore di quello stoicismo che costituiva l’ideologia per eccellenza dell’aristocrazia ostile al dispotismo. I primi anni di impero di Nerone furono pertanto contraddistinti da un netto ritorno alla collaborazione col Senato e alla prevalenza degli interessi e dei punti di vista della nobilitas. D’altra parte, lo stesso Seneca non era nativo dell’Italia ma della provincia della Spagna, e la sua filosofia non era originaria di Roma, ma del mondo greco-ellenistico. Anche l’educazione di Nerone, dunque, fu tutta imbevuta di cultura greca, né tardò molto che il discepolo andasse ben oltre il suo maestro, accendendosi di una morbosa infatuazione appunto per gli ideali dell’ellenismo greco-orientale. Il fantasma della monarchia greco-orientale, che già aveva suggestionato la mente di quel Caligola, di cui Nerone era nipote, o di quell’Antonio, di cui tanto Caligola che Nerone erano in qualche modo discendenti, tornò dunque a rivivere, non appena il giovane imperatore si fu liberato della tutela dei maestri, assumendo direttamente il potere.

    Nerone vestito da donna – Emilio Gallori

    E così rinacquero le forme tipiche del dispotismo ellenistico, coi suoi deliri di grandezza, il suo sfarzo spettacoloso, destinato ad abbagliare le folle, la sua trasformazione della persona del sovrano in un Nume, salvatore del genere umano, le sue dilapidazioni a scopo demagogico. L’imperatore di Roma, tra lo scandalo dell’aristocrazia senatoria, declamava versi, si atteggiava a poeta, scendeva nel circo a farsi applaudire dalla plebaglia. Una sua riforma finanziaria, destinata ad importanti ripercussioni nella vita interna dell’Impero, abbassando il rapporto di cambio fra oro e argento, avvantaggiava notevolmente i ceti più modesti, a svantaggio dei patrimoni della nobilitas. Ma Nerone, mentre si atteggiava a benefattore dell’umanità, al modo dei Tolomei d’Egitto o dei Seleucidi di Siria, agghiacciava Roma con delitti di un’efferatezza inaudita: dall’avvelenamento del fratellastro Britannico, all’uccisione della stessa madre Agrippina e poi a quella di sua moglie Ottavia, per convolare a nuove nozze con una seconda moglie, Poppea, destinata in seguito ad essere uccisa anch’essa.
    Tanto sangue spiega perché, quando nel 64 dopo Cristo gran parte di Roma andò distrutta in un incendio, la voce pubblica accusasse Nerone di avere egli stesso appiccato il fuoco all’Urbe.

    Incendio di Roma – Robert Hubert

    Il rovinoso incendio scoppiò la notte tra il 18 e il 19 luglio nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, secondo Tacito, sei secondo Svetonio, propagandosi in quasi tutta la città. Delle quattordici regiones che componevano la città, tre, la III Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la XI Circo Massimo, e la X Palatino, furono totalmente distrutte, mentre in altre sette rimanevano solo pochi ruderi rovinati dal fuoco. Erano salve solo le regiones: I Capena, V Esquiliae, VI Alta Semita e XIV Transtiberim. I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme a circa quattromila insulae e centotrentadue domus. Gli scavi condotti nelle aree maggiormente interessate dall’evento hanno spesso incontrato strati di cenere e materiali combusti, quali evidenti tracce dell’incendio. In particolare sono stati rinvenuti, in alcuni casi, frammenti di arredi metallici parzialmente fusi, a riprova della violenza delle fiamme e delle elevatissime temperature raggiunte. Al sesto giorno, l’incendio si sarebbe arrestato alle pendici dell’Esquilino, dove erano stati abbattuti molti edifici per fare il vuoto davanti all’avanzata delle fiamme.

    Roma prima e dopo l’incendio del 64 dopo Cristo.

    Tuttavia scoppiarono altri incendi in luoghi aperti e le fiamme fecero questa volta meno vittime, ma distrussero un maggior numero di edifici pubblici. Questo seconda fase dell’incendio sarebbe divampato a partire da alcuni giardini di proprietà di Tigellino, prefetto del pretorio e amico dell’imperatore: questa origine avrebbe, secondo Tacito, fatto nascere altre voci, sul desiderio dell’imperatore di distruggere la città di Roma totalmente per poter poi fondare una nuova città e darle il suo nome.Oggi è noto che dopo un vasto incendio focolai molto importanti possono covare sotto la cenere e riprendere con vigore a bruciare anche quando tutto sembra essere risolto. Non è quindi improbabile che ciò sia accaduto anche a Roma e che Tigellino non fosse consapevolmente coinvolto nella cosa.Dopo che l’incendio era divampato nuovamente e aveva distrutto altre parti della citta, visto che le voci di un coinvolgimento diretto dell’imperatore andavano rafforzandosi, Nerone scelse, per liberarsi dall’accusa, un mezzo tra il demagogico e il criminoso, egli cercò infatti nei Cristiani un capro espiatorio da offrire alla furia popolare. Questi erano ormai una comunità consistente all’interno della città e non godevano della benevolenza dei cittadini a causa del loro rifiuto a conformarsi ai riti religiosi romani. Questa differenza era talmente evidente che anche Tacito nei suoi scritti non mostra

    Quo Vadis – Locandina del film del 1913.

    alcuna benevolenza nei loro confronti dicendo che essi costituivano “una setta invisa a tutti per le loro nefandezze”. Il tentativo di Nerone di spostare l’attenzione da se però non sortisce grandi effetti tanto che lo stesso Tacito riporta: “ma né l’opera degli uomini, né le largizioni dell’imperatore né i sacrifici agli dei diminuiva l’infamia che l’incendio fosse stato suscitato dolosamente. Così Nerone per far tacere le voci presentò come colpevoli, e condannò con supplizi fuori dal comune coloro che per le loro fastidiose azioni erano odiati e il volgo chiamava Cristiani. Colui dal quale deriva il nome, Cristo, era stato condotto al patibolo da Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; e, repressa per il momento quella esecrabile superstizione, si espandeva non solo per la Giudea, origine di quel male, ma anche per Roma stessa, dove i mali più vergognosi convergono e vengono celebrati”. Quindi, nonostante il tentativo di trovare nei Cristiani il capro espiatorio, le voci di un coinvolgimento diretto di Nerone non si placarono.

    Le fiaccole di Nerone – Hendrik Siemiradzki – Cracovia.

    Le cronache, comunque, riportano che nella notte dell’incendio, Nerone, che si trovava ad Anzio, sarebbe tornato in città quando le fiamme ormai lambivano la sua residenza, che egli aveva costruito per congiungere il palazzo sul Palatino e gli Horti Maecenatis, e non sarebbe riuscito a salvarla. Si sarebbe però occupato di soccorrere i senzatetto, aprendo i monumenti e i giardini di Agrippa sul Campo Marzio, allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare viveri dai dintorni. Tali provvedimenti, emessi, secondo Tacito, per ottenere il favore popolare, non avrebbero tuttavia ottenuto lo scopo, a causa della diffusione di una voce, secondo la quale l’imperatore si era messo a cantare della caduta di Troia, davanti all’infuriare dell’incendio visibile da una torre, oggi scomparsa, posta negli Horti di Mecenate e, successivamente, identificata erroneamente con la Torre delle Milizie.
    Secondo Tacito, prima sarebbero stati arrestati quanti confessavano e quindi, su denuncia di questi, ne sarebbero stati condannati moltissimi, ma, ritiene lo storico, l’imperatore li condannava a morte non tanto a causa per il loro coinvolgimento nell’aver causato l’incendio, quanto per il suo “odio del genere umano”.

    Una martire cristiana – Hendrik Siemiradzki – Varsavia.

    Tacito racconta infatti, sempre negli Annali, la maniera in cui si svolgeva la condanna dei malcapitati: “Quelli che andavano a morire erano esposti anche alle beffe. Alcuni erano coperti dalle pelli di animali e morivano dilaniati dai cani, altri erano crocifissi, altri ancora erano invece arsi vivi come se fossero torce per illuminare le tenebre, al calare del sole. Nerone si era portato quello spettacolo nei suoi giardini e inventava giochi circensi, con l’abito da auriga, incalzando in mezzo alla plebe con il suo carro. Onde sorgeva la commiserazione, sebbene verso gente colpevole e che meritava tali pene, perché era sacrificata non per utilità pubblica, ma per la ferocia di uno solo”.

    Roma, 29 ottobre 2017

  2. Trasteverine per caso, Trasteverine per forza

    17 Trastevere è uno dei quartieri antichi di Roma che ha ceduto molto del suo carattere alla modernità e alla contemporaneità del “mordi e fuggi”.

    Lina Cavalieri

    Chi cammini oggi per le vie del quartiere incontra ristoranti, trattorie, bar, negozi finti alternativi e botteghe storiche che spesso, loro malgrado, di storico non hanno più nulla. Difficile è, per chi cammini oggi, nelle vie strette del quartiere cogliere il suo aspetto medievale quasi inalterato e rintracciare l’essenza della sua storia.
    Questa storia, per caso o perché davvero l’origine dei Trasteverini è diversa da quella dei Monticiani, come la tradizione vuole che sia, spesso coincide con la storia di donne che qui sono nate, hanno lottato o semplicemente sono passate e, in qualche maniera, trasteverine sono diventate. Alcune hanno finito con il lasciare al quartiere il cuore, la ribellione indomita e la vita.
    Sarà forse pure per il carattere combattivo che da sempre è riconosciuto agli abitanti di Trastevere, ma queste donne, che si possono incontrare passeggiando per le sue strette vie, attraversano il tempo e lo spazio e ripropongono spesso, oggi, questioni che risolte ed antiche non sono, ma che restano attuali.

    Giorgiana Masi – Tano d’Amico

    Donne diverse eppure simili nelle loro istanze di libertà e di uguaglianza. Giovani e moderne come Giorgiana Masi, la cui vita fu stroncata manifestando per affermare un diritto di tutti: quello di poter manifestare in piazza il proprio dissenso senza rischiare di essere uccisi per questo. Si chiede in pratica l’abrogazione dei trentasei articoli della Legge 152, meglio nota come “Legge Reale”.
    Donne come Giuditta Tavani Arquati, sposa per amore a 14 anni, e rivoluzionaria da sempre e per sempre. Giuditta immaginò e volle un mondo libero e più giusto per se, per i suoi figli e per tutte le generazioni successive e per questo idea di società repubblicana e libera organizzò la lotta al Papa re preparando la via, in quel lontano 1867, alla conquista della città di Roma.
    La figura e l’azione di Giuditta Tavani Arquati rimasero così impresse nella memoria non solo di Trastevere, ma dell’intera città di Roma, che fu fondata, il 9 febbraio 1887, un’Associazione che portava il suo nome. Questa Associazione fu sciolta nel 1925 dal governo fascista, per tornare a nuova vita solo dopo la Liberazione.

    La Fornarina – Raffaello Sanzio

    Alcune donne di Trastevere passano poi dalla storia al mito come Lina Cavalieri, ma ancor più come La Fornarina di Raffaello, tanto mitica che molti studiosi del pittore, ancora oggi, dubitano della sua esistenza ritenendola una sorta di summa di tutte le donne affascinanti e seducenti che entrarono nella vita dell’artista e condivisero con lui i piaceri che lo portarono ancor giovane alla morte. Il fascino della seduzione de La Fornarina, Trasteverina per antonomasia, quale simbolo di tutte le donne, ancora oggi emana dal dipinto che la rappresenta e soggioga chiunque si fermi ad ammirarlo.
    Sarà per tutte le storie femminili che l’attraversano, ma Trastevere diviene, per caso o per forza, il luogo naturale dove approdano due realtà femminili per eccellenza: la Casa Internazionale delle Donne e l’Archivio dell’Unione Donne Italiane (UDI).
    L’UDI nasce nel 1944 – 1945 dai gruppi di difesa delle donne e subito s’impegna per realizzare il tessuto polito e sociale necessario alla riuscita della campagna per il diritto al voto delle donne. Il 31 gennaio 1945 fu emanato il decreto legislativo che conferiva il diritto di voto alle Italiane che avessero almeno 21 anni con eccezione delle prostitute schedate che lavorassero fuori dalle case dove era loro concesso di esercitare la loro professione.

    Le 21 donne della Commissione Costituente

    In questa legge non si faceva però menzione della possibilità delle donne di essere elette, diritto che verrà conquistato con il decreto n. 74 del 10 marzo 1946. Questo decreto faceva seguito ad un telegramma composto dall’UDI l’11 febbraio 1945 ed indirizzato al ministro Bonomi, nel quale si chiedeva l’eleggibilità delle donne. Con questo decreto erano eleggibili le donne italiane a partire dal loro venticinquesimo anno di età.
    Le donne italiane diventavano in questa maniera cittadine con pieni diritti.
    Le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate a votare si svolsero il 10 marzo 1946, mentre le prime elezioni politiche fu il Referendum istituzionale per decidere la forma di governo tra Monarchia e Repubblica, che si svolse il 2 giugno 1946.
    Gli effetti del decreto che sanciva la cittadinanza con pieni diritti per le donne si fecero sentire già nelle elezioni per l’Assemblea Costituente dove furono elette 21 donne, di cui cinque, Maria Federici, Angela Gotelli, Nilde Jotti, Teresa Noce e Lina Merlin, faranno parte della Commissione per la Costituente incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione repubblicana.
    A conclusione dei lavori verrà varata nel 1948 la Costituzione Italiana che all’articolo tre recita:
    “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
    E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

    Le donne per la prima volta al voto nel 1946

    Stabilendo per le donne pari diritti e pari dignità sociale in ogni campo.
    Per un lungo periodo di tempo l’UDI è l’associazione che, per definizione, in Italia rappresenta le donne e che viene percepita come allineata e complementare alla Sinistra.
    Con il IX Congresso, tra il 1981 e il 1982, l’UDI rimette in discussione la propria organizzazione e si rinnova totalmente senza abbandonare i temi che da sempre la hanno caratterizzata. Così la nuova azione politica dell’UDI è stata ripensata in funzione di due realtà presenti nella società italiana: le donne giovani e le immigrate.
    L’UDI dispone di un Archivio costituito da tutti quei documenti che testimoniano le fatiche che le donne hanno dovuto affrontare per sottrarsi al patriarcato, agli usi e costumi e al senso comune.
    L’Archivio comprende 6000 fascicoli, 1374 manifesti, 3000 fotografie, una collezione di giornali d’epoca, e una documentazione cartacea che copre gli anni che vanno dal 1944 al 2000.

    Manifestazione organizzata dall’UDI

    Aprirà l’archivio, per le socie e i soci di Roma Felix, Rosanna Marcodoppido. Rosanna fa parte dal 1974 dell’UDI. E’ stata per molti anni la vicepresidente dell’Associazione Nazionale degli Archivi dell’UDI. Ha organizzato seminari e convegni sull’esperienza storica femminile, sulle radici del Patriarcato e gli stereotipi sessisti, sui legami d’amore. E’ impegnata nella rete cittadina “Io decido” e nel movimento “Non una di meno”. Numerosi suoi articoli sono apparsi su alcuni giornali e riviste femministe.

    Roma, 2 aprile 2017

  3. I colori della Garbatella

    Della Garbatella si potrebbe parlare per ore. Quartiere romano fin dentro le ossa, se ne innamorò addirittura il Mahatma Gandhi che, di ritorno da Londra per perorare la causa

    I colori della Garbatella

    I colori della Garbatella

    dell’indipendenza indiana, fece tappa a Roma. E, assillato dagli enormi problemi di sovrappopolazione dell’India, espresse il desiderio di vedere con i propri occhi il quartiere di cui tutto il mondo parlava, per via di quello che in Europa all’epoca si raccontava, ovvero che il governo fascista aveva realizzato proprio qui uno straordinario esperimento di edilizia popolare. Peccato che la propaganda del regime nascondesse la verità, ed anche al Mahatma venne fatto vedere solo ciò che conveniva.

    Il luogo vantava una storia possente: la parte più antica del quartiere abitato fu realizzata sulla così detta Rupe di San Paolo, ovvero da una collina piuttosto possente formatasi a causa delle esondazioni del Tevere in epoche antichissime e dominante la basilica di San Paolo fuori le Mura, in una zona semidisabitata, coperta di vigne e pascoli di pecore.
    La zona era oggetto di pellegrinaggi già a partire dal Medioevo.

    Villino De Renzi

    Villino De Renzi

    Da qui infatti, proprio alle spalle della Basilica di San Paolo fuori le Mura, prendeva avvio un tracciato antichissimo, una bretella che metteva in collegamento quella che poi diventò la Via Ostiense con quella che poi sarà chiamata Via Appia (anch’esse vie molto antiche percorse già prima dei romani), quella che divenne Via delle Sette Chiese.
    Lungo la via, che collegava importantissime basiliche per i pellegrini, erano anche presenti estesi insediamenti catecombali e luoghi di devozione minore ma non meno importanti, come la piccola chiesa di Santa Eurosia o quella dedicata ai Santi Felice ed Adautto.
    E lungo questa via  il 18 febbraio del 1920 re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra del futuro quartiere operaio che avrebbe dovuto essere anche punto di partenza di una vera e propria rivoluzione urbanistica e industriale di questo quadrante della città, e che ebbe, invece, un terribile arresto proprio con l’avvento del governo fascista, poco dopo la marcia su Roma.
    Il quartiere inizialmente costruito sul modello della “città giardino” immersa nel verde, lascerà il posto a ben altro tipo di costruzioni che nel migliore dei casi si ispireranno a modelli architettonici precedenti dando vita a quello che oggi viene detto “barocchetto romano”.
    Accanto agli edifici realizzati dai migliori architetti dell’epoca: Gustavo Giovannoni, Innocenzo Sabbatini, Costantino Costantini, Marcello Piacentini, Mario De Renzi, sorgeranno poi edifici anonimi e dall’aspetto fatiscente.

    Una scritta storica sui muri della Garbatella

    Una scritta storica sui muri della Garbatella

    Parallelamente il quartiere assume anche una nuova destinazione d’uso: non più quartiere operaio, ma quartiere destinato ad accogliere i molti che vivevano in centro da una vita e che si vedono abbattere la casa per far spazio alle vie della Roma capitale, oppure a quelli che l’hanno persa a causa del rincaro degli affitti.
    Il culmine di questo processo, che molti abitanti storici della Garbatella ancora oggi percepiscono e descrivono come una vera e propria “deportazione”, fu la costruzione degli Alberghi Suburbani (Rosso, Bianco e Giallo) che andranno a definire quella che oggi è piazza Eugenio Biffi. Strutture all’epoca iper – moderne in un contesto sostanzialmente rurale, che finiranno con il divenire quasi dei luoghi di detenzione coatta per chi sarà costretto ad abitarvi.

    Teatro Palladium - Garbatella

    Teatro Palladium – Garbatella

    La visita che proponiamo toccherà i due “momenti” della Garbatella: si partirà dal teatro Palladium, progettato da Innocenzo Sabbatini nel 1927, e da qui si proseguirà verso il poggio chiamato Pincetto, un vero unicum architettonico, con i suoi lotti abitativi della prima ora, ingentiliti da curatissimi giardini.
    Ma la passeggiata sarà l’occasione per raccontare la storia della Garbatella, delle sue trasformazioni, per entrare in qualcuno dei lotti e cercare di ricostruirne il ruolo e l’aria che vi si respirava. Sarà anche l’occasione per incontrare personaggi ed esperienze che hanno attraversato il tempo e che sono ancora oggi testimonianza di una solidarietà umana ed anche politica che sopravvive nel tempo e si attualizza.

  4. Alle pendici del Palatino. La Roma delle origini, delle chiese greche e del primo Natale cristiano

    Alle pendici del Palatino, tra il Circo Massimo e Piazza della Bocca delle Verità si ergono le chiese di Sant’Anastasia, San Teodoro, San Giorgio al Velabro e Santa Maria in Cosmedin.

     

    San Giorgio al Velabro dall'arco di gaino - Anton Smith Plitoo

    San Giorgio al Velabro dall’arco di Giano – Anton Smith Plitoo

    Al Foro Olitorio, San Nicola in Carcere sta incastonata tra i templi dedicati a Giunone Sospita, a Giano e a Spes: tutte chiese, queste, che “parlano greco”. Il motivo è dato dal fatto che tra il VII e l’VIII secolo, ai tempi della dominazione bizantina, si stabilirono a Roma monaci greci fuggiti dall’iconoclastia, il movimento religioso sorto nella chiesa di Bisanzio, contraria ad ogni forma di culto delle immagini sacre e propugnatore della loro distruzione. L’area in questione, da sempre, aveva ospitato popolazioni straniere, soprattutto greche, per via degli scambi commerciali sulle rive del Tevere. Qui i monaci scampati alle persecuzioni iconoclaste avevano fondato le diaconie, vale a dire ospizi per pellegrini, poveri e malati. Nel corso del tempo, quelle diaconie si sarebbero trasformate in edifici di culto, o sarebbero state inglobate nelle chiese già esistenti. Quelle chiese sarebbero poi state intitolate a santi orientali.
    Accanto a questo motivo di grande interesse, ce n’è un altro d’immenso fascino: vale a dire il mito delle origini di Roma e del suo abitato. Basti pensare che Ottaviano, nel 42 a.C. si era fatto costruire una grande casa sul Palatino rivolta all’Aventino. Casa che, tredici anni dopo, fece interrare per edificarvi sopra una dimora-santuario degna del suo nuovo status di Augusto, principe di un impero universale. La sua imponente casa dominava l’antico approdo sul Tevere, dove, secondo la leggenda, avevano attraccato le navi di eroi greci e dove erano sorti i primi culti di Fauno al Lupercale. Augusto si considerava a tutti gli effetti erede dei re aborigeni del Lazio – Pico, Fauno e Latino – e soprattutto di Enea e della famiglia albana dei Giulii, in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare.

    Piazza Bocca della Verità - Ettore Roesler Franz

    Piazza Bocca della Verità – Ettore Roesler Franz

    Inoltre la tradizione voleva che nei paraggi paludosi del Velabro fossero stati ritrovati i gemelli Romolo e Remo. Il mito di fondazione dà quindi il via ad una capillare ricerca archeologica e, dopo gli scavi condotti nel 2007 dalla soprintendenza archeologica, a sedici metri di profondità nei sotterranei della chiesa di Sant’Anastasia, alcuni studiosi, in particolare Andrea Carandini, si sono persuasi di aver finalmente rintracciato il Lupercale, cioè il luogo dove la celeberrima lupa avrebbe allattato Romolo e Remo.
    Nel volume La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale (Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, pagg. 284) Carandini ha proposto un’ipotesi affascinante: nel IV secolo d.C. la domus Augusti aveva ospitato sul suo avancorpo rivolto al Circo Massimo la chiesa di Sant’Anastasia, sorellastra di Costantino, l’imperatore che con l’Editto di Milano del 313 aveva concesso la libertà di culto ai cristiani. Egli si era poi occupato della data della festa di Pasqua durante il Concilio di Nicea (325 d.C.) e aveva patrocinato, subito dopo, l’istituzione del Natale, fissato al 25 dicembre e celebrato per la prima volta proprio nella chiesa di Sant’Anastasia, probabilmente nel 363.
    Dunque: «alle pendici del Palatino si erano succeduti natali, epifanie e fondazioni tra Romolo, Augusto e Cristo», scrive Carandini.
    Nel IV secolo, Costantino aveva fatto edificare le prime costruzioni cristiane, riservate al culto, lontane dal centro di Roma per non turbare la suscettibilità della maggioranza dei romani ancora legata alle divinità pagane. Salvo una: Sant’Anastasia.

    Lupercale - Palatino

    Lupercale – Palatino

    Secondo un catalogo delle chiese di Roma dell’VIII secolo, solo due chiese si trovavano nell’ordine davanti a Sant’Anastasia: il Laterano e la seconda basilica sul Cispio che prenderà il nome di Santa Maria Maggiore. La posizione in terza fila stupisce, visto che oggi la chiesa è quasi dimenticata, ma in antico la sua importanza era legata al fatto che la sua posizione centralissima, alle radici del Palatino verso il Circo Massimo, ne fece la parrocchia (titulus) della corte e dei palazzi palatini, dei quali era segnacolo prospicente.
    La chiesa alle pendici del Palatino fu dotata anche di battistero, caratteristica unica che condivideva con San Giovanni in Laterano, San Pietro e Santa Maria Maggiore.
    Fino alla fine del V secolo Sant’Anastasia era però indicata come titulus Anastasiae. Fu il trasporto delle reliquie da Sirmium (l’attuale Sremska Mitrovica in Serbia, fu un’importante città della Pannonia romana) a Costantinopoli e poi a Roma che trasformarono il titulus Anastasiae in titulus Sancta Anastasia, ovvero in chiesa.
    Come si è detto fu Costantino a stabilire la data del 25 dicembre quale giorno della nascita di

    Costantino - Musei Capitolini

    Costantino – Musei Capitolini

    Cristo. Probabilmente questa data fu fissata in accordo con il vescovo di Roma, Silvestro, e fu scelta per affiancare il Natale di Cristo, a quello del Sole Invitto, essendo il 25 dicembre pochi giorni dopo quello del solstizio d’inverno (che cade ogni anno o il 21 o il 22 dicembre) e comunque il primo giorno in cui si apprezza l’aumento della durata del girono rispetto alla notte.
    Nei primi secoli del cristianesimo non esisteva una tradizione stabilita e unitaria relativa al giorno della nascita di Cristo, che, sostanzialmente, la Chiesa delle origini non festeggiava.
    Solo nel secondo quarto del IV secolo emerse un documento che attestava l’esistenza a Roma del Natale, fissato il 25 dicembre: è la Depositio Martyrym del calendario di Filocalo, abbozzo del calendario liturgico databile al 336 d.C. La nuova festa romana si diffuse poi in Africa, in Italia e in Oriente, così che in poco meno di un secolo era presente nell’intero mondo cristiano.
    Fu probabilmente papa Sisto III ad introdurre il costume di celebrare, poco dopo la mezzanotte del 24 dicembre, una prima messa nella basilica di Santa Maria Maggiore. Quindi il vescovo di Roma si recava a Sant’Anastasia, dove prima del sorgere del sole, celebrava la seconda messa di Natale. Infine egli celebrava una terza messa in San Pietro al sorgere del sole.
    In questa maniera veniva rispettata la tradizione introdotta da Costantino secondo la quale il primo Natale era stato celebrato presso il titulus Anastasiae.
    L’itinerario ispirato al mito delle origini e alla “grecità” di quest’area di sublime bellezza, conduce quindi alla chiesa di San Teodoro (san Toto, per i romani), posta lungo la suggestiva strada omonima, che corrisponde, per il primo tratto, all’antico Vicus Tuscus, che proseguiva per l’attuale Via dei Fienili. I legami antichissimi di questa chiesa, intitolata a un santo soldato orientale, col mondo greco-bizantino si sono saldati definitivamente il 1° luglio del 2004, quando papa Giovanni Paolo II la concesse alla comunità greco-ortodossa di Roma, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo II. A pianta circolare.

    La bandiera di San Giorgio - Musei Capitolini

    La bandiera di San Giorgio – Musei Capitolini

    La chiesa fu costruita sugli horrea di Agrippina, depositi annonari rimasti in funzione anche in epoca medievale. Della costruzione originaria resta la parte absidale con il mosaico databile al VII secolo che ricorda notevolmente quello dell’abside della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Sembra inoltre che fino al secolo XVI sia stata qui custodita la Lupa bronzea proveniente dall’antico Lupercale. Per molto tempo si è ritenuto che si trattasse di quella che oggi si trova ai musei capitolini, che invece studi accurati hanno dimostrato essere un’opera etrusca cui venne aggiunta dal Pollaiolo, nel XV secolo, il gruppo dei gemelli.
    A San Teodoro succede la bellissima chiesa di San Giorgio al Velabro, che col suo appellativo ricorda che qui, si estendeva una palude soggetta alle ricorrenti piene del Tevere, dove la tradizione colloca il ritrovamento della cesta che aveva trasportato Romolo e Remo.

    San Giorgio al Velabro - dopo l'attentato

    San Giorgio al Velabro – dopo l’attentato

    La chiesa è certamente anteriore al VI secolo e ricorda l’insediamento di una colonia greca. Lo stesso titolare, San Giorgio, è un martire della Cappadocia; esso dovette essere molto venerato a Roma se vecchi racconti collegano a questa chiesa le devozioni ufficiali di Cola di Rienzo e se lo stesso tribuno, muovendo all’occupazione del Campidoglio nel 1347, spiegava una bandiera che raffigurava il santo cavaliere nell’atto di trafiggere il drago. San Giorgio al Velabro – le cui linee romaniche sono state ripristinate attraverso un restauro del 1928 – presenta una pianta basilicale con le navate divise da due file di sedici colonne di spoglio, in marmo e in granito. La facciata, il campanile e il portichetto, devastati il 26 luglio del 1993 dall’esplosione di un’autobomba quale attentato di mafia, e in seguito restaurati, appartengono ad un rifacimento del XII secolo.