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Antonio Ligabue. Visioni e tormenti dell’esilio.
9 Aprile 2017 by Ornella Massa
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Ligabue. Visioni e tormenti dell’esilio.
4 Dicembre 2016 by Ornella Massa
L’emozionante mostra in atto al Vittoriano (sala Barsini) e dedicata ad Antonio Ligabue mette da subito al centro uno degli aspetti che caratterizzerà non solo la vita ma anche l’attività artistica di Antonio Ligabue: l’esilio.
Antonio Ligabue nato a Zurigo nel 1899, dopo un’infanzia sin dall’inizio tormentata e vissuta per buona parte in povertà, una povertà che lascerà segni fisici sul suo corpo traducendosi in un rachitismo e in un’evidente malformazione cranica, nel 1919 viene allontanato dalla Svizzera e inviato a Gualtieri, in Italia, il paese di origine dell’uomo che dopo la nascita gli diede il cognome di Laccabue, da Antonio poi modificato in Ligabue per sottolineare probabilmente tutta la distanza da quel padre adottivo con cui aveva avuto limitatissimi rapporti.
L’allontanamento da quella Svizzera che era stata la sua terra per i suoi primi venti anni di vita è la prima forma di esilio che Antonio Ligabue vivrà. Ma non sarà l’unica.L’allontanamento dal cantone di San Gallo e dalla Svizzera corrisponderà anche all’allontanamento senza rimedio dalla sua madre adottiva con la quale, sebbene oscillando tra amore e odio, Ligabue era riuscito a costruire un rapporto umano dal quale traeva calore e forse anche una certa forma di sicurezza.
A Gualtieri Antonio arriverà senza sapere una parola d’italiano, incapace di capire la lingua degli altri ma anche impossibilitato a rapportarsi con il mondo degli uomini per una sua fragilità interiore e per un suo profondo disagio, si esilierà volontariamente dal paese vivendo, fin quasi alla morte, ai margini non solo del consesso umano, ma anche del nucleo abitativo. Forma di esilio resa reciproca dagli abitanti che al più riusciranno a tollerarlo, in qualche misura, nel momento in cui potranno inserirlo nella casella “matto del paese”.Le paure che si rapprenderanno in lui all’atto di questo forzato distacco rimarranno per sempre nella sua persona trasformandosi a tratti in ossessioni ed a tratti nel bisogno di elaborare rituali. Rituali per trovare calore umano ed accettazione lì dove poco riusciva ad averne dai suoi simili, e rituali apotropaici tesi a tener lontani fantasmi che si originavano nella solitudine e nel buio.
Delle diverse forme di esilio vissute da Ligabue ci parla la mostra dedicata all’artista di Gualtieri. Anche di quelle che i tanti studiosi a vari livelli della sua arte non sono riusciti ancora a scoprire.
Già perché Ligabue che da vivo fece una grande fatica ad essere considerato non solo quale artista ma soprattutto quale essere umano, è stato, dopo la morte, oggetto di studi ed interpretazioni. Si è cercato insomma di capire l’uomo attraverso la sua arte, perdendo l’occasione, almeno in parte, di conoscere l’uomo da vivo mentre dava vita alle sue opere. L’incontro con uomini quali Marino Mazzacurati, che forse più che insegnargli a dipingere gli fornì i mezzi e gli indicò la strada che gli permisero di acquisire la tecnica e la consapevolezza di sé, Cesare Zavattini che di e su di lui scrisse un poema – racconto per cercare tra le altre cose di sfumare quella sorta di perbenismo che aveva caratterizzato in parte i rapporti che da un certo momento in poi avevano circondato Ligabue, Romolo Valli, il famoso attore, che tra i primi acquistò le sue opere, hanno in qualche maniera e forse involontariamente creato una specie di fenomeno da baraccone, un uomo dalle grandi capacità artistiche rinchiuse nel corpo di un essere strambo.
La mostra del Vittoriano in qualche misura fa giustizia restituendo, attraverso l’esposizione delle opere, tutti i discorsi che nel corso della vita Antonio Ligabue ha cercato di fare con chi volesse ascoltarlo. I suoi dipinti coloratissimi e materici, le sue piccole dettagliatissime sculture, i disegni fitti fitti di tratti spessi e neri ed un pugno di acqueforti ci mostrano finalmente l’uomo e l’artista quasi senza alcuna intermediazione.La natura rigogliosa delle giungle di cui aveva letto nei libri dell’infanzia o le cui immagini aveva visto frequentando le biblioteche sono, da Antonio Ligabue, trasportate in un luogo geografico che non è esattamente la Bassa Padana, ma non è neppure il cantone di San Gallo in cui egli aveva vissuto i primi venti anni della sua vita.
Questo luogo geografico ambivalente, o addirittura multivalente, è un luogo dell’anima, del pensiero e del cuore in cui tutto può accadere: che un contadino coltivi la terra, che degli animali da cortile razzolino placidi, che vi si svolgano feroci combattimenti tra animali mai risolti, dove l’apparente vincitore può diventare un vinto da un momento all’altro, dove animali della quotidianità contadina (cani, conigli, galli, cavalli) possano in qualche maniera convivere con leoni, tigri, serpenti ed insetti di ogni tipo, dove ci si possano trovare abitazioni tipiche dei panorami svizzeri, o che improvvisi vi siano trasportati castelli delle fiabe.
Questa stessa natura diviene frequentemente sfondo dei suoi autoritratti. Fiumi di parole sono stati spesi su questa volontà di Ligabue di autoritrarsi. Tante sono le interpretazioni che di questa attività sono state date, cercando a tratti di farne una particolarità di questo artista, dimenticando che molti (se non tutti) gli artisti nel corso della storia si sono ritratti.
E Ligabue non è perciò diverso quando lo fa. Lo fa perché è un esercizio pittorico che può condurre allo specchio e senza, un esercizio pittorico che mostra la sua costante ricerca, la sua ferrea volontà di migliorarsi quale artista in un contesto sociale e culturale in cui certamente mancavano possibilità di raffronto e confronto. Lo fa perché vuole mostrarci la consapevolezza di sé come pittore autorevole, e lo fa con il gusto di chi vuole travestirsi, come negli stessi anni andava facendo de Chirico che si autoritraeva con la corazza, con il vestito del seicento o con il vestito nero. Attraverso l’autoritratto ed il travestimento Ligabue si da la possibilità di vivere tante vite diverse come il fantino, il motociclista, il borghese, con la consapevolezza che lui sarebbe potuto essere tutto questo ma contemporaneamente con la consapevolezza che solo alcune di queste possibilità gli sono state davvero offerte dalla vita, mentre le altre gli sono state negate dalla sua storia, dalla sua maniera di essere, ma anche dall’impossibilità degli altri di pensarlo in grado di vivere come persona.Ligabue l’artista a tutto tondo, pittore, scultore, disegnatore, incisore, che emerge con decisione dalle sale di questa mostra è stato artista profondamente consapevole di sé e delle proprie capacità. Non altrettanto consapevoli si sono mostrati i suoi contemporanei che hanno per lui voluto vedere una somiglianza con van Gogh ed ancor più con i pittori naif.
Certamente come i pittori naif Ligabue dipinge scene di vita quotidiana e scene che sembrano venire fuori da libri di favole o di racconti di grandi viaggi. Ma utilizzare questo piccolo frammento della sua grandissima produzione ed estenderlo al tutto è un’operazione quanto meno scorretta, poiché, se soprattutto nelle opere dove appaiono castelli e diligenze, si può riconoscere un cliché iconografico dal sapore popolare, negli altri temi emerge con forza una ricerca ed un linguaggio assolutamente innovativo e tipico di Ligabue, che ne fanno un artista non inscrivibile in una definizione univoca. -
Roma Pop ’60 – ’67
16 Ottobre 2016 by Ornella Massa
Negli anni Cinquanta del novecento Roma è una città in grande fermento. Nel bene e nel male. Ovunque si ricostruisce o si costruisce, Cinecittà è il luogo dove alcune fantasie possono prendere corpo, ci si può nuovamente confrontare, elaborare idee. Tutto sembra possibile.
Il peggio, la guerra, gli sventramenti sono alle spalle, la società italiana si avvia a quello che verrà chiamato il boom economico.
C’è una gran voglia di vita, sembra urgente raccontare e raccontarsi, confrontarsi ed anche litigare, mostrarsi al mondo. Alcuni dei luoghi della città divengono, più o meno a caso, quale punto d‘incontro da artisti ed intellettuali. Nasce ora, ad esempio, il mito di Via Veneto con i relativi paparazzi. Farsi vedere in Via Veneto, magari colti da uno scatto fotografico, vuol dire certamente la consacrazione alla notorietà. Via Veneto resta ancora oggi nell’immaginario comune, non solo italiano, come il luogo de La Bella Vita per eccellenza.
Ma quasi in contrapposizione con via Veneto c’è la zona di Piazza del Popolo a farla da maggiore. Qui tra i bar e i ristoranti a costo contenuto è possibile davvero incontrare una cospicua fetta del mondo intellettuale italiano, scrittori, poeti, pittori, scultori, impresari, critici d’arte che alla fine segneranno profondamente un’epoca.
Ciascun gruppo aveva il suo luogo preferito d’incontro, ma facilmente i gruppi sciamavano da un locale all’altro mescolandosi e confrontandosi variamente dando origine ad insolite associazioni.
Tra questi luoghi – incontro c’è il caffè Rosati in Piazza del Popolo, che diviene quasi un polo alternativo ai locali di Via Veneto. Frequentatori assidui del bar sono Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo, ma anche uomini politici come Sandro Pertini.Ma la Piazza del Popolo e il caffè Rosati divengono, tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta, luogo di ritrovo di giovani artisti, piuttosto squattrinati, che spesso abitavano nelle zone periferiche della città, come Cinecittà. Erano pittori e scultori, ma tra di loro anche poeti, che dopo essersi ritrovati in piazza si sedevano al caffè Rosati per discutere. Da qui le interminabili discussioni proseguivano alla galleria d’arte “La Tartaruga” fondata da Plinio de Martiis in Via del Babuino. Alla galleria, che era un punto di riferimento in città per tutto quello che atteneva l’arte contemporanea d’oltralpe e d’oltreoceano, i giovani artisti avevano l’occasione di confrontarsi con artisti stranieri e con critici d’arte. Successivamente (negli anni sessanta) anche la galleria si trasferì in Piazza del Popolo.
Per questa consuetudine di ritrovarsi in piazza del Popolo il gruppo di giovani pittori fu indicato con il nome di Scuola di Piazza del Popolo, usando una definizione sostanzialmente poco corretta. I giovani artisti Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano, Renato Mambor, Sergio Lombardo e Giosetta Fioroni (unica donna del gruppo) non diedero mai vita infatti ad una scuola di pittura o di arte, ma ebbero, soprattutto nella fase iniziale, un confronto serrato su quello che potesse essere la pittura in un’Italia che si riprendeva dalla guerra si avviava verso il boom economico.
Un gruppo di artisti diversissimi, liquidati rapidamente come artisti pop, il pop si affermava contemporaneamente in America con Warhol e non solo, ma che con il pop americano avevano però poco a che fare.Mancavano i riferimenti consumistici tipici della pop art (barattoli di zuppa o simili) da ripetere in maniera seriale, perché erano proprio gli italiani nelle loro case a consumare poco cibo in scatola e mancava il mercato a cui quella serialità era di fatto destinata.
Gli artisti italiani della Scuola di Piazza del Popolo si muovono a lungo, in una sorta di limbo che sta tra arte ed artigianato, creando dei pezzi unici che non hanno in quel momento alcun mercato, ma che non sono forse già più sperimentazione.
D’altra parte i giovani pittori hanno da misurarsi con tutto quello, e non è poco, che li ha preceduti: il liberty come per la Fioroni, il futurismo come per Mario Schifano, la metafisica, ma anche Michelangelo come per Tano Festa, il rinascimento come per Giosetta Fioroni.
Di tutto questo gli artisti, almeno alcuni sentiranno la necessità di fare tabula rasa, così molti di loro (Mambor, Tano Festa, Uncini, Schifano) produrranno le serie dei monocromi sperimentando la combinazione tra la pittura acrilica (a volte anche in bomboletta spray) e i supporti e rivelando come le superfici in questa interazione posso cambiare quasi dematerializzandosi.
D’altra parte i supporti sono i più disparati, la tela certo, ma anche lastre di metallo o cemento. Tutto può essere utilizzato, la lezione di Burri è stata compresa a pieno.
E quindi via all’arte povera di Ceroli alle foreste di plexiglas di Gino Marotta, ai lunghi bachi da seta fatti di scovolini per la polvere di Pino Pascali.
E dall’oggetto quotidiano alla vita quotidiana il passo in definitiva è breve: Ecco quini la serie di opere di Sergio Lombardo intitolate “Gesti Tipici”, che nascevano proprio da immagini prese dai quotidiani dell’epoca. Inizialmente Lombardo utilizzò solo immagini di personaggi famosi come De Gaulle, Kennedy o Mao Tse Tung, aiutandoli ad entrare nell’immaginario degli Italiani, ma successivamente anche i gesti quotidiani della gente comune fu oggetto della sua indagine.
L’esperienza dei “Gesti tipici” durerà solo pochi anni, dal 1961 al 1964. Inizialmente saranno opere in bianco e nero e successivamente a colori.Qualsiasi materiale può essere quindi utilizzato per fare arte, poiché l’arte, come già ha mostrato Burri, è in qualche misura contenuta già dentro gli oggetti. Mimmo Rotella interpreta questo aspetto dedicando una gran parte della sua arte ai collage. Volti, situazioni frammenti della città prendono corpo dai brandelli dei manifesti che si ricompongono sulla tela.
L’altro protagonista è senza dubbio la città e i suoi simboli da comporre e da scomporre in un gioco di cubi come per Renato Mambor o nelle fotografie di Luca Maria Patella.
E come trascurare la guerra che più di tutte è forse il simbolo del novecento? La guerra del Vietnam e le armate americane che in Italia erano un passato recentissimo si affacciano nell’arte di questi autori che hanno un occhio partecipe alla realtà.
La visita alla mostra Roma Pop ’60 – ’67 è l’occasione per vedere raccolti in un unico luogo artisti alla fin fine diversissimi ma che hanno esplorato rimandandosi continuamente il testimone uno dei momenti più interessanti dell’arte italiana del novecento. -
I Macchiaioli. Le collezioni svelate.
24 Aprile 2016 by Ornella Massa
La grande mostra ospitata dal Chiostro del Bramante raccoglie più di 110 opere, che costituiscono
una possibilità unica di vedere raccolti in uno stesso luogo quadri che sono per lo più in collezione privata e che, in molti, sono stati un punto di partenza fondamentale per molta della pittura italiana del Novecento.
La mostra ha anche un altro grandissimo pregio: quello di ricostruire le collezioni di cui le opere esposte facevano originariamente parte, restituendo quindi un ulteriore piano di lettura della pittura dei macchiaioli.
Personaggi come Cristiano Banti, Diego Martelli, Rinaldo Carnielo, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni, Mario Galli, Enrico Checcucci, Camillo Giussani, Mario Borgiotti si comportarono, nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli inizi del Novecento, come veri e propri mecenati. Uomini di affari e imprenditori, come ad esempio Ettore Sforni, padre di Gustavo, era socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli; poi c’erano anche gli “addetti ai lavori”, come il critico d’arte Diego Martelli e lo scultore veneziano Rinaldo Carnielo. Insomma, un gruppo di uomini accomunati dalla passione per la pittura dei Macchiaioli. Spesso amici veri degli artisti di cui acquistarono le opere anche per sostenerli nei momenti difficili.Pittori come Giovanni Fattori, che avevano sofferto di difficoltà economiche per tutta la vita, poterono continuare a dedicarsi alla pittura “a macchia” solo grazie all’intervento, all’aiuto e all’ospitalità di questi collezionisti. Per Fattori fondamentale fu l’ospitalità offertagli da Diego Martelli a Castiglioncello, dove realizzò moltissime opere dedicate alla Maremma toscana. Nella collezione di Martelli confluirono anche alcune opere di Zandomenichi, il più impressionista dei macchiaioli: egli se ne andò a Parigi e lì rimase per tutto il resto della sua vita. E quelle di artisti francesi, come Camille Pisarro. Ciò rende la collezione di Diego Martelli, così come presentata nell’ambito della mostra, un’ulteriore occasione imperdibile per un confronto diretto tra la pittura impressionista e la pittura “a macchia”, che può essere considerata la visione italiana dell’impressionismo o, ancora meglio, l’interpretazione italiana dell’impressionismo.
Un impressionismo che in Italia non passò indenne attraverso la luce mediterranea, ma soprattutto attraverso il verismo e le grandi trasformazioni storiche e sociali che l’Italia dell’Ottocento visse e man mano che la corrente dei macchiaioli andava definendosi e che queste collezioni andavano costituendosi.
E’ necessario sottolineare che la mostra compie, quindi, una duplice operazione: quella di raccogliere in un unico luogo i massimi esponenti della pittura “a macchia”. E quella di ricostruire collezioni smembrate e disperse tra collezioni private e in parte raccolte dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
Casa Sforni, ad esempio, nei pressi di Piazza Savonarola a Firenze, fu uno degli indirizzi più esclusivi del collezionismo fiorentino a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sin dal 1885 vi abitò una facoltosa famiglia originaria di Milano.Si è già detto che Ettore Sforni fu socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli. Egli insieme alla moglie Rachele fece della sua casa una suntuosa dimora alto borghese che favorì le inclinazioni artistiche del loro secondogenito Gustavo, a sua volta pittore, collezionista, intellettuale, imprenditore, mecenate.
Nel 1913 Gustavo Sforni pubblicò un lussuoso volume monografico dedicato a Giovanni Fattori, per i tipi di una casa editrice da lui stesso creata, la S.E. L.F. (Società Editrice Libraria Fiorentina), un ricordo ed un omaggio al grande pittore macchiaiolo da poco scomparso.
La grande collezione d’arte di Casa Sforni, che comprendeva oltre le opere dei macchiaioli, alcune sculture di Rodin e di Medardo Rosso, i kakemoni e le sculture orientali, e ancora opere di Utrillo, di Degas, di Cézanne e di Van Gogh, andò dispersa dopo l’occupazione tedesca del 1943 ed oggi è testimoniata solo da alcune fotografie risalenti al 1920.
In mostra si trovano opere oltre che di Giovanni Fattori e Federico Zandomenichi, anche di tutti gli artisti – Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, TelemacoSignorini, Giovanni Boldini, Cristiano Banti, Vito D’Ancona, Adriano Cecioni, Vincenzo Cabianca – provenienti da più parti d’Italia, che diedero vita alla così detta “pittura a macchia”, uno dei più importanti movimenti pittorici nell’Europa di metà Ottocento.
La mostra è l’occasione per vedere anche opere che sono esposte in pubblico per la prima volta come “La pittrice” di Borrani e la luminosissima, splendida “Oliveta a Settignano” di Telemaco Signorini, artista di cui Edoardo Bruno raccolse almeno sette opere, a partire dal prezioso “Cimitero di Solferino” del 1859, molto rappresentativo delle prime ricerche formali dell’artista intorno alla “macchia”.