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  1. Canova: eterna bellezza

    Antonio Canova e la città di Roma: è questo il tema della mostra-evento di Palazzo Braschi, con oltre 170 opere e prestigiosi prestiti da importanti

    Le Tre Grazie – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Musei e collezioni italiane e straniere. L’esposizione racconta in 13 sezioni l’arte canoviana e il contesto che lo scultore trovò giungendo nell’Urbe nel 1779. Attraverso ricercate soluzioni illuminotecniche, lungo il percorso espositivo è rievocata la calda atmosfera a lume di torcia con cui l’artista, a fine Settecento, mostrava le proprie opere agli ospiti, di notte, nell’atelier di via delle Colonnette. A definire la trama del racconto, importanti prestiti provenienti, fra l’altro, dall’Ermitage di San Pietroburgo, i Musei Vaticani, la Gypsotheca e Museo Antonio Canova di Possagno, il Museo Civico di Bassano del Grappa, i Musei Capitolini, il Museo Correr di Venezia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le Accademie di Belle Arti di Bologna, di Carrara e di Ravenna, l’Accademia Nazionale di San Luca, il Musée des Augustins di Tolosa, i Musei di Strada Nuova-Palazzo Tursi di Genova, il Museo Civico di Asolo. Dai tesori dei Musei Capitolini a quelli dei Musei Vaticani, dalle raccolte dei Farnese e dei Ludovisi ai marmi inseriti nel contesto urbano dell’epoca, furono tantissime le opere che l’artista – rapito dal loro fascino – studiò minuziosamente, rendendole testimoni e protagoniste del suo stretto rapporto con la città.

    Amore e Psiche – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    In mostra si ripercorrono gli itinerari compiuti dallo scultore alla scoperta di Roma, sin dal suo primo soggiorno. Sorprendenti, ad esempio, le sue parole di ammirazione nei confronti del gruppo di Apollo e Dafne di Bernini, visto a Villa Borghese, e riportate nei suoi Quaderni di viaggio.
    È inoltre possibile approfondire, attraverso la presentazione di disegni, bozzetti, modellini e gessi, anche di grande formato, il lavoro dell’artista per i grandi Monumenti funerari di Clemente XIV e di Clemente XIII, e per il Monumento agli ultimi Stuart; spicca tra essi, per la grande qualità esecutiva, il marmo del Genio funerario Rezzonico concesso in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo e il modellino del Monumento Stuart della Gypsotheca di Possagno. La mostra affronta anche il rapporto tra lo scultore e la letteratura del suo tempo: una piccola sezione è dedicata alla relazione tra Canova e Alfieri, la cui tragedia Antigone, andata in scena a Roma nel 1782, presenta più di uno spunto di riflessione in rapporto alla rivoluzione figurativa canoviana. Fieramente antigiacobino, Canova abbandonò Roma all’epoca della Repubblica alla fine del Settecento per rifugiarsi nella natia Possagno. Dipinti, sculture, disegni e incisioni documentano in mostra quel momento che vide la fine provvisoria del potere temporale del papato con l’esilio di Pio VI Braschi. Canova fu

    La Danzatrice – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    incaricato di scolpire la statua di Pio VI, da collocare inizialmente sotto l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana, quindi spostata nelle Grotte Vaticane: in mostra – all’interno del palazzo edificato a fine Settecento proprio per i nipoti di Papa Braschi – è possibile ammirare un modellino per il monumento. Nell’ultima sala della mostra, uno dei marmi più straordinari di Canova: la Danzatrice con le mani sui fianchi, proveniente da San Pietroburgo. Gira sulla sua base, come Canova desiderava, per di più in un ambiente rivestito di specchi. Si ripete il mito di Pigmalione, innamorato della sua statua, Galatea, che si anima: da marmo diventa carne. Il percorso espositivo è arricchito da inedite installazioni multimediali appositamente progettate. Attraverso trenta fotografie di Mimmo Jodice che ritraggono i marmi di Antonio Canova, il pubblico può ammirare le opere dello scultore attraverso lo sguardo di uno dei più grandi maestri della fotografia. Jodice è riuscito a offrirne una rilettura del tutto inedita e sorprendente, creando una serie di immagini che si sono da subito imposte come una delle più emozionanti espressioni della fotografia contemporanea. Le immagini sono una vera e propria mostra nella mostra, offrendo un’occasione unica per accostarsi allo scultore guidati dalla

    Antonio Canova – Particolare – Mimmo Jodice.

    creatività di un grande artista di oggi. Poi, grazie all’apporto di Magister, un innovativo format espositivo che si prefigge l’obiettivo di promuovere la bellezza attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, rivitalizzandolo in chiave contemporanea, si può ammirare una riproduzione in scala reale del gruppo scultoreo di Amore e Psiche giacente di Antonio Canova. A partire da una scansione 3d del gesso preparatorio della scultura oggi esposta al Louvre di Parigi, un robot ha scolpito incessantemente per 270 ore un blocco di marmo bianco di Carrara di 10 tonnellate. L’installazione di grande potenza emotiva, ideata da Magister e realizzata in collaborazione con Robotor, apre una nuova sfida sui paradigmi della riproducibilità delle opere d’arte: la riproduzione è infatti da leggersi come forma di rispetto per il pensiero dell’artista ed esprime l’aspirazione contemporanea a valorizzarne ancora una volta l’estro creativo.
    Ad accompagnare l’installazione, un documentario sulla realizzazione

    Paride – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    dell’opera e un racconto video della fiaba di Amore e Psiche di Apuleio, in un percorso tra spettacolo e approfondimento, un racconto sui testi di Giuliano Pisani, con la voce di Adriano Giannini e la musica originale del violoncellista Giovanni Sollima.
    Ma chi è stato Antonio Canova? Senza dubbio il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo e l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come

    Venere – Antonio Canova – Mimmo Jodice

    oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: Teseo sul Minotauro, Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le Tre Grazie; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria.
    Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche sono scoperti e immediati: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di Teseo sul Minotauro. Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papi

    Damosseno – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di

    Orfeo – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie.

    Roma, 12 gennaio 2020

  2. Articolo

    Stelle cadenti. Jackson Pollock, Argento Verde.

    di Camille Paglia

    Dal volume “Seducenti immagini”di Camille Paglia (Società Editrice Il Mulino, Bologna 2012, pp. 294), pubblichiamo il capitolo Stelle cadenti. Jackson Pollock, Argento Verde.

    Blue Poles – Jackson Pollock – 1952.

    L’Espressionismo astratto ha conquistato il design moderno, dove è diventato un motivo decorativo consueto per qualsiasi cosa, dalla carta regalo al linoleum da cucine.
    Sorprende tuttavia che negli Stati Uniti molte persone fuori dei centri urbani guardino ancora alla pittura astratta con sospetto, come se fosse uno scherzo o una truffa. Preso atto di questa tenace scetticismo, faremmo forse bene a riconoscere che l’arte astratta è più spesso scadente che buona, e che nel corso dei decenni una quantità di goffe imitazioni ne ha compromesso il valore. Ragione di più per celebrare i capolavori di questo difficile genere.
    Jackson Pollock fu al tempo stesso beneficiario e vittima del culto americano della celebrità. Fu la prima superstar dell’arte americana, che era rimasta da sempre all’ombra di quella europea. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, divenne un simbolo del trasferimento della capitale mondiale dell’arte da Parigi a New York, dopo secoli di predominio francese. Nato in un allevamento di pecore nel Wyoming, Pollock sembra incarnare la rude indipendenza della frontiera americana. L’abbigliamento rozzo e le sue maniere brusche valsero a infrangere l’immagine stereotipata degli artisti, che gli americani, inclini al senso pratico e al conformismo, con sprezzo giudicavano spesso smidollati o snob.

    continua…

  3. Pollock e la Scuola di New York

    In mostra al Vittoriano uno dei nuclei più preziosi della collezione del Whitney Museum di New York: Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning,

    Jackson Pollock – Hans Nmuth.

    Franz Kline e gli altri rappresentati della “Scuola di New York” irrompono a Roma con tutta l’energia e quel carattere di rottura che fece di loro gli artisti – eterni e indimenticabili – del nuovo astrattismo made in USA.
    Sebbene alla “Scuola di New York” sia stata attribuita questa definizione dal sapore didattico essa era in realtà un gruppo informale di poeti, pittori, ballerini e musicisti americani attivi sulla scena newyorkese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Questi artisti non scrissero mai un vero e proprio manifesto ma trassero spesso ispirazione dal surrealismo e dai movimenti artistici d’avanguardia. Ne furono elementi espressivi l’action painting, l’espressionismo astratto, il jazz, il teatro d’improvvisazione e la musica sperimentale. Tra i poeti che ne fecero parte è bene ricordare quelli della beat generation come Gregory Corso, Allen Ginsberg e Jack Kerouac tra gli altri.
    La scelta dell’astrattismo per molti pittori è una scelta obbligata: siamo in America, in un periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Quest’ultima ha profondamente influenzato la società americana e soprattutto ha permesso il diffondersi dell’idea che fosse impossibile progettare una società su modelli utopici o razionale. Gli artisti, ed in particolare i pittori, non si sentono più in grado di progettare un’opera basata su moduli formali prestabiliti. L’arte si stacca così dalla rappresentazione reale del mondo che circonda l’artista per diventare tentativo di rappresentare il caos. Questa nuova modalità di espressione pittorica viene codificata come “espressionismo astratto”: il gesto di dipingere diviene espressione diretta dell’esperienza dell’artista.

    Gregory Corso e Allen Ginsberg.

    Nell’ambito dell’espressionismo astratto si afferma la personalità e l’ideologia di Jackson Pollock, che è certamente da considerarsi la più alta espressione dell’Action Painting, termine coniato nel 1952 da Harold Rosenberg per dare una definizione alla tecnica che lo stesso Pollock utilizzava per dipingere. Egli infatti attuava una modalità di pittura che prevedeva lo sgocciolamento del colore dal pennello, o direttamente dai barattoli, sulla tela, spesso di enormi dimensioni, stesa per terra, in maniera tale che ci si potesse lavorare contemporaneamente su tutti e quattro i lati.
    In questa maniera la tela non è più uno spazio diviso tra centro e periferia, primo piano e piani ulteriori, ma il suo spazio si allarga e può anche travalicare i bordi stessi del supporto pittorico.
    L’opera non è più progettata ma diviene il risultato di un processo continuo d’improvvisazione portato avanti in uno stato di trance, così che sia direttamente l’inconscio a creare l’opera senza alcuna intermediazione della razionalità.
    La tela che per secoli era stata interprete delle impressioni, dei sentimenti, dei racconti diviene supporto su cui l’esperienza artistica è fissata in quanto vero e proprio ritmo ed essenza vitale.
    Esemplificativo di questa esperienza è la grande tela di Pollock intitolata “Number 27” realizzata nel 1950, e presente in mostra. Sulla tela è possibile risalire al movimento che il braccio di Pollock ha effettuato per depositare la vernice e lo smalto. E’ possibile vedere con chiarezza come il colore non sia stato mai lasciato cadere a coprire completamente il fondo nero, che quindi entra in rapporto dinamico con i colori: contemporaneamente quindi si può leggere il nero come continuamente interrotto dai colori, o i colori come se fossero continuamente interrotti dal nero. Entrambe le possibilità sono vere e coesistono. Il dipinto ha anche una tridimensionalità conferita dalle colature di vernice metallizzata.

    Number 27 – Jackson Pollock.

    Alla fine dell’azione artistica rimarranno impressi sulla tela sei colori: bianco, nero, giallo, verde oliva, grigio e rosa pallido.
    La trama è indecifrabile e tesa a coprire l’immagine che Pollock stesso aveva immaginato, per volere e per dichiarazione esplicita dell’artista: “velare l’immagine, la quale diventa oscura e misterica”.
    Lo stesso Pollock insistette molto perché la sua maniera di dipingere, a metà tra danza, trance e performance fosse documentata con immagini fotografiche e video e il suo desiderio nel 1951 trovò nel regista tedesco Hans Namuth colui che lo attuò.
    Grazie alle foto e ai brevi filmati di Namuth, ancora oggi restiamo affascinati e colpiti da come Pollock lavorasse alla pittura, stravolgendola rispetto ai canoni ordinari. E tra questi documenti diviene un cult il video, girato sempre da Hans Namuth nello suo studio a Spring: Pollock all’opera mentre lavora e danza intorno alla grande tela srotolata in terra.
    Pollock diviene così leggenda. Artista tra i preferiti dell’iconica collezionista Peggy Guggenheim che di lui ebbe a dire: «Era un uomo contraddittorio. Così timido e difficile da presentare alla gente e nervoso. Arrivava sempre sbronzo e per questo non avrebbe potuto farcela da solo».
    La mostra in corso al Vittoriano, curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice è divisa in 6 sezioni, permette di ammirare più di 50 capolavori, e diviene così un susseguirsi di colori vividi, armonia delle forme, soggetti e rappresentazioni astratte che immergono e guidano i visitatori in un contesto artistico unico e originale: quello dell’espressionismo astratto.
    In mostra, quindi, c’è il frutto di una “rivoluzione” nata nel maggio del 1950, quando il Metropolitan Museum di New York organizzò un’importante mostra di arte contemporanea escludendo la cerchia degli “action painter”. La decisione scatenò la rivolta degli esponenti del movimento e proprio in questo clima d’insurrezione e stravolgimento sociale l’espressionismo astratto divenne un segno indelebile della cultura pop, attraverso il particolare connubio tra espressività della forma e astrattismo stilistico, elementi che influenzarono sensibilmente tutti gli anni ’50 del Novecento.

    Four Darks in Red – Mark Rothko – 1958.

    L’Action painting, ovvero la “pittura d’azione”, diventa così sinonimo d’innovazione, trasformazione, rottura degli schemi e del passato e questa straordinaria mostra permette di riscoprire non solo il fascino di tale movimento, ma anche di rivivere emozioni e sentimenti propri di quegli artisti che hanno reso unico un capitolo fondamentale della storia dell’arte, che vede in Pollock certamente una delle punte più limpide e alte.
    Pollock nasce a Cody, Wyoming, nel 1912. Le cronache riferiscono di un’infanzia difficile e itinerante, per i continui spostamenti della famiglia tra California e Arizona ai tempi della Grande Depressione, quando il padre di Pollock era costretto a cercare lavoro dove capitava. Il giovane Jackson ha un carattere ribelle, ingestibile sia per la famiglia che per la scuola, poco incline al rispetto delle regole e afflitto sin dall’adolescenza da ripetuti problemi di alcolismo: eppure, quando dipinge, è evidente a tutti il suo strepitoso e prematuro talento.
    Alla metà degli anni Trenta incontra e si innamora di Lenore Krasner – anche lei artista – che sposerà solo nel 1945. Quindi la coppia si trasferisce a Springs, Long Island, e la Krasner si dedica alla carriera del marito, diventando la sua principale promoter. Ed è qui, in un nuovo studio ampio come un capannone industriale, che Pollock potrà scoprire il “dripping”, lo sgocciolamento, e farne la sua propria modalità espressiva. Dai filmati e dalle foto a disposizione di questi atti creativi Pollock appare completamente immerso nell’atto stesso, senza soluzione di continuità tra l’uomo, l’artista, il sentire e l’espressione. L’artista si muove al ritmo della musica jazz e la creazione dell’opera entra a far parte dell’opera stessa.
    L’ultimo periodo della vita del pittore del Wyoming fu il più difficile. L’esistenza complessa, fin dall’infanzia, turbata da problemi psichiatrici e di alcol continuava. Tra 1948 e 1950, periodo d’intensa attività, anche la rivista “Life” si domandò, retoricamente, se fosse lui l’artista americano più famoso, accostandolo ai grandi maestri europei quali Picasso, Miró, Rouault, Matisse.

    Jackson Pollock – Hans Namuth.

    Di fatto è proprio la sua vita sregolata e assurda a interrompere prematuramente una sfolgorante carriera: l’11 agosto 1956, dopo l’ennesima notte brava, Pollock si schianta al volante della propria auto. Con lui muore una giovane donna, un’altra resta gravemente ferita.
    Sono passati oltre sessant’anni dalla sua morte, eppure il mito di Pollock resta inscalfibile e sempre attuale: a lui e alla sua arte è dedicata tutta la prima sezione della mostra romana.
    Ma la mostra non è solo Pollock. Nella seconda sezione – Verso la Scuola di New York – ci si sofferma sulla generazione di pittori in America che si allontana dal realismo e dalla figurazione, vedendo nell’astratto il segno di un tempo nuovo come Arshile Gorky, William Baziotes, Robert Motherwell, tra i fondatori della “Scuola di New York”, Clyfford Still, Mark Tobey, Richard Pousette-Dart e tanti altri come Bradley Walker Tomlin tra i precursori, fin dai primi anni Quaranta, del nascente “Espressionismo astratto”.
    La Terza sezione si concentra su Kline. I suoi dipinti di grandi dimensioni modulati prevalentemente sul bianco e nero, più raramente di altri colori. Kline, insieme a Pollock, Rothko e de Kooning è considerato tra i massimi interpreti della “Scuola di New York”.

    Pollock e la Scuola Americana – Una foto della mostra.

    Nella Quarta sezione – “Dall’Espressionismo astratto ai Color Field”, la pittura si dirige rapidamente verso la smaterializzazione. Nella Quinta sezione, dedicata a Willem de Kooning, l’artista sempre vicino all’Action Painting, ma mai completamente espressionista astratto, pur abbracciandone i principi teorici non abbandona la figurazione. Resta famoso soprattutto per la serie Woman I, ciclo dedicato alla figura femminile. Mentre nella sesta e ultima sezione dal titolo “Mark Rothko” il focus è sul pittore dall’approccio lirico e mistico. Nei suoi quadri ci sono pennellate estese di colore che tracciano soprattutto rettangoli luminosi e vibranti.

    Roma, 9 dicembre 2018

     

  4. Andy Warhol, quando il quotidiano diventa eterno

    La vera essenza di Warhol in mostra al Vittoriano. Un’esposizione che con oltre 170 opere traccia la vita straordinaria di uno dei più acclamati artisti della storia.

    Autoritratto – Andy Warhol.

    Un’esposizione interamente dedicata al mito di Warhol, realizzata in occasione del novantesimo anniversario della sua nascita che parte dalle origini artistiche della Pop Art: nel 1962 il genio di Pittsburgh inizia a usare la serigrafia e crea la serie Campbell’s Soup, minestre in scatola che Warhol prende dagli scaffali dei supermercati per consegnarli all’Olimpo dell’arte. Seguono le serie su Elvis, su Marilyn, sulla Coca-Cola.
    L’esposizione, con le sue oltre 170 opere, vuole riassumere l’incredibile vita di un personaggio che ha cambiato per sempre i connotati non solo del mondo dell’arte ma anche della musica, del cinema e della moda, tracciando un percorso nuovo e originale che ha stravolto in maniera radicale qualunque definizione estetica precedente.
    Sembra facile organizzare storicamente la vicenda artistica di Andy Warhol. Ma non lo è. Per sintetizzare, si possono rintracciare tre periodi: fino al 1960 c’è un Warhol illustratore; la stagione pop dal 1960 al 1969, segnata dall’attentato subito da Valerie Solanas 3 giugno 1968; la pausa senza pittura; 1972-1987 l’ultima stagione, probabilmente la più grande.
    L’Andy Warhol illustratore è la preistoria. Un affacciarsi al mondo senza ancora avere l’idea su dove e come portare l’affondo. La fase pop è la più radicale e in un certo senso “fondamentalista” nell’azzeramento di qualsiasi soggettivismo espressivo: il colpo che invecchia tutta l’arte del 900 è il ciclo delle zuppe Campbell, esposte nel 1962 a Los Angeles, cui segue l’approdo alla meccanizzazione con le serigrafie dei “200 dollari”.

    Marilyn – Andy Warhol.

    Il terzo Warhol invece sembra liberarsi dall’ossessione di un’artificialità del prodotto artistico. La sua arte torna a respirare, la pittura stesa con grandi spugne torna ad essere stesa sulla tela. Dopo il raggelamento pop si sente un’aria di nuova libertà. L’artista si lascia andare e vengono fuori i capolavori: il ciclo dei Teschi, meravigliosi nei loro preziosismi; le due tele della serie Ladies and gentleman, travestiti neri che sbucano dal meraviglioso calice giallo del loro vestito. Straordinarie anche i due Rorschach, grandi tele a motivo decorativo, che Wharol realizzò equivocando il metodo terapeutico di uno psichiatra svizzero.
    Storicizzare vuol dire anche capire da quale storia si generi ogni opera di Andy Warhol. Purtroppo il compito non è semplice perché l’arte contemporanea è stata monopolizzata dalla “critica”, che gioca ad alzare cortine fumogene sulla storia, e non è mai possibile trovarne invece una storia. Che si capisce dei Mao, se non si percepisce il rovesciamento che Warhol ne fa in coincidenza del viaggio di Nixon a Pechino, quando il simbolo della contestazione dell’Occidente diventa preziosa sponda anti Unione Sovietica? È un ribaltamento simbolico spiattellato in faccia al mondo che i cinesi non hanno ancora digerito, nelle mostre in Cina questa serie non può essere esposta.
    Andy Warhol va aggirato: lui ti fa stare sempre sulla sua superficie, quando invece sta lavorando in profondità. Quindi va sempre scovata questa profondità, senza cadere nell’errore opposto di caricarla di significati. Warhol è pittore nato visivamente sulle icone della chiesa cattolica ortodossa di Saint George di Pittsburg, che per tutta la stagione pop dipinge icone, eternizzando i prodotti simbolo della civiltà consumista. L’icona è per principio piatta, non vuole la profondità, perché la profondità è tutta e solo nel pensiero e nella preghiera accesa in chi la guarda. L’icona non ha nessuno sviluppo narrativo. È solo replica di un prototipo. L’artista degli anni pop segue lo stesso procedimento, ed evita ogni profondità. Eppure nella piattezza delle sue superfici intercetta note profonde. Il tema della morte ad esempio, che affiora plateale nelle Electric Chair, o nei disastri stradali; ma è sempre il tema della morte che rende iconica la sua Marilyn Monroe, non solo perchè la realizza dopo il suo suicidio, ma perché la palpebra semiabbassata sul “sole” biondo del suo volto, è un’implacabile nota tragica, che trova la sua forza nella replica

    Andy Warhol. Copertine che hanno fatto epoca.

    ossessiva, martellante, seriale di quel prototipo. Così si capisce che la serialità di AW non è solo esito di un’arte che si è adeguata come tutto ai processi di produzione meccanica. La serialità è il dispositivo che nella ripetizione produce un effetto equivalente alla profondità.
    Senza recinti. Disse Keith Haring: «Era lui che aveva mosso le cose in modo da rendere possibile anche a me di essere artista Era il primo che dava la possibilità di essere artista pubblico nel vero senso della parola, un artista della gente». La funzione di Warhol è in questo enorme allargamento del “recinto” dell’arte. Un qualcosa di molto simile all’abbattimento di quei recinti. In modo molto americano, diceva che c’è una chance per tutti. “Intanto falla” (l’arte), è il suo slogan. Poi, dopo di lui, sono stati alzati altri recinti protettivi, architettati in alleanza tra mercato e intellettualismo critico. Un nuovo accademismo à la page. Warhol non ci sarebbe stato: non era uno da selezioni preventive.

    Roma, 29 ottobre 2018