prima pagina

  1. Articolo

    I fori romani, dentro il cuore di Roma antica

    di Andrea Giardina

    Pubblichiamo un articolo di Andrea Giardina, storico di Roma Antica, apparso nella rivista National Geographic il 1 giugno 2018.
    I secoli di incuria e gli interventi del Ventennio fascista hanno profondamente cambiato il loro aspetto. Studi recenti ci dicono che i fori erano spazi chiusi da alte mura, isolati rispetto al fermento della vita

    Il Foro Romano in una rara immagine del 1911. Si ringrazia Roma Sparita.

    cittadina. Al loro interno, però, mille attività prendevano vita: c’era spazio per il sacro e il profano, il lavoro più febbrile e lo stanco chiacchiericcio degli sfaccendati.
    Ricostruire mentalmente le architetture, gli spazi, la vita che si svolgeva nella zona dei Fori di Roma, è un’impresa difficile e appassionante. Il problema più ovvio è rappresentato da ciò che manca. Ogni tanto qualcuno si diverte a calcolare quante sono le pagine perdute dei giuristi romani rispetto a quelle pervenute nel Digesto, quante le epigrafi, quanti gli storici e i poeti cancellati per sempre. Si potrebbe fare lo stesso con i resti dei Fori: quanti metri cubi di materiali – pietre, marmi, mattoni, malta – rimangono oggi degli antichi edifici romani? Il calcolo, anche se inevitabilmente approssimativo, darebbe la dimensione tangibile del nostro irrimediabile lutto.

    continua…

  2. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

    Villa Giulia, splendido esempio di villa rinascimentale suburbana, fu fatta edificare da Papa Giulio III tra il 1550 e il 1555.

    Villa Giulia

    Come sempre in questi casi la parte residenziale dell’edificio ha dimensioni relativamente modeste e strettamente connessa con il giardino costituito da terrazze collegate da scalinate scenografiche, ninfei e fontane adorne di sculture.
    La villa è il risultato dell’interazione tra tre dei più grandi artisti dell’epoca: Giorgio Vasari, l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola e lo scultore e architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati. Anche la decorazione pittorica ad affresco è di notevole pregio, e a essa avevano contribuito pittori diversi tra i quali Taddeo Zuccari.
    L’elemento caratteristico della villa era il ninfeo, in origine ricchissimo di decorazioni, alimentato da una canalizzazione dell’Acquedotto Vergine che corre in profondità e si manifesta nella fontana bassa, e che costituisce il primo “teatro d’acque” di Roma.
    L’edificio fu ampliato una prima volta nel 1912 e poi di nuovo nel 1923.
    Il Museo di Villa Giulia nacque nel 1889 per iniziativa di Felice Barnabei, un archeologo e politico italiano.

    Ninfeo di Villa Giulia

    Il primo nucleo di reperti esposti proveniva da Falerii, l’odierna Civita Castellana, capoluogo dei Falisci, un popolo che si era insediato nel territorio compreso fra i Monti Cimini ed il Tevere, territorio che era stato oggetto già nel 1880 di attente indagini topografiche e di scavi. Alle antichità di Falerii si aggiunsero via via quelle provenienti da altri centri dello stesso territorio (Corchiano, Narce, ecc.), materiali da abitati, santuari e necropoli del Lazio meridionale (Gabii, Alatri, Satricum, più tardi Palestrina), dell’Etruria (Cerveteri e in seguito Veio), dell’Umbria (Todi, Terni).
    Nella prima metà del ‘900 si vennero ad intensificare le attività di scavo nella zona di Veio e Cerveteri. I reperti archeologici qui portati alla luce, confluiscono nel museo di Villa Giulia che accentua così il carattere etrusco dei materiali raccolti ed esposti.
    Il museo diviene così il Museo Nazionale Etrusco e ancora oggi raccoglie reperti relativi ad alcune delle città etrusche più importanti, quali Vulci, Cerveteri e Veio.

    Apollo – Veio

    Gli Etruschi furono un popolo dell’Italia antica di lingua non indoeuropea e di origine incerta affermatisi in un’area geografica indicata con il nome di Etruria, che si estendeva, grosso modo, dalla Toscana all’Umbria fino al fiume Tevere e al Lazio settentrionale. Successivamente le popolazioni etrusche si espansero in Emilia Romagna e in Lombardia, arrivando fino al Veneto, e al sud raggiunsero la Campania.
    La civiltà etrusca influenzò notevolmente la civiltà romana con la quale si fuse al termine del primo secolo avanti Cristo. L’inizio della fusione è convenzionalmente posto con la conquista della città di Veio da parte dei Romani nel 396 avanti Cristo.
    Ancora oggi resta poco conosciuto il processo che ha portato alla formazione della civiltà etrusca così come essa si è venuta organizzando nell’Etruria, processo di formazione che va tenuto distinto dalla questione relativa alla provenienza di questo popolo, altro aspetto relativamente al quale esistono diverse teorie.
    Dagli studi condotti sui reperti giunti fino a noi, si può evincere che gli Etruschi sono probabilmente il risultato dell’interazione di popoli diversi visto che nella loro cultura compaiono elementi greci, sirio – fenici, italici, egizi, mesopotamici, urartei e indoiranici.
    E’ interessante notare che l’influenza degli antichi Grci sugli Etruschi detreminò la comparsa nella cultura di questi ultimi di una fse storico – culturale definita orientalizzante, che corrisponde circa all’VIII secolo avanti Cristo. I contatti avvennero soprattutto attraverso le colonie della Magna Grecia, ovvero con le colonie greche nell’Italia meridionale. Tra i diversi ambiti nei quali si osserva l’influenza greca certamente va annoverata la ceramica. Vi furono infatti csambi di vasellame tra Etruschi e Greci, ma anche scambi di tecniche produttive ed artistiche, con un miglioramento tecnologico nella civiltà etrusca dei forni e dei torni.

    Latona – Veio

    Un altro ambito in cui è chiara l’influenza greca è nella religione. Molte delle divinità etrusche in questo periodo vennero infatti reinterpretate e fatte corrispondere a divinità greche ad esempio Tinia venne associata a Zeus, Uni ad Era, Aita ad Ade.
    Dal litorale e dall’entroterra toscano, dove praticavano l’agricoltura ancge grazie ad opere di bonifica delle zone paludose, gli Etruschi si espansero veso nord nella Pianura Padana.
    Svilupparono sia le tecniche di estrazione che di lavorazione dei metalli, soprattutto il ferro.
    La lavorazione dei metalli fu uno degli elementi che spinse la crescita dei commerci via mare di città quali Cerveteri, Vulci e Tarquinia.
    E’ possibile che fossero di origine etrusca anche i Reti, un popolo che occupava il Trentino alto Adige.
    Se così fosse gli Etruschi oltre a controllare i traffici sul Mar Tirreno controllavano anche quelli che avvenivano verso il Nord Europa.
    In Umbria gli Etruschi fondano la città di Perugia che diviene una delle dodici lucumonie etrusche.
    I primi villaggi etruschi erano costituiti da capanne con tetto molto spiovente in paglia o argilla. Le città si distinguevano dagli insediamenti italici perché non erano disposte a caso ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio alcune città erano poste in cima ad alture così da poter controllare ampie zone sottostanti terrestri o ampi bracci di mare, oppure sorgevano in territori fertili ed estreamente adatti all’agricoltura, come nel caso di Veio e Tarquinia.
    La città sorgeva intorno ad una coppia di assi viari orientati nord – sud (cardo) ed est – ovest (dcumano), un assetto urbanistico che risultò rivoluzionario rispetto a quello adottato dai greci e che successivamente divenne modello per molte altre civiltà tra cui quella romana.

    Ercole – Veio

    Le città erano spesso protette da mura ciclopiche in argilla o tufo o pietra calcarea in cui si aprivano porte.
    Moltissime delle informazioni sulle abitazioni e sulla vita quotidiana degli Etruschi sono state ricavate dallo studio delle necropoli, le “città dei morti” sempre poste al di fuori della cinta muraria. Le necropoli sono sempre composte da sepolture ipogee, ovvero da ambienti sotterranei sovrastati da un tumulo, che riproducevano la disposizione delle abitazioni con arredi, vasi, stoviglie, armi, gioielli, ecc…. Ognuna di queste tombe si articolava in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del defunto. Gli affreschi alle pareti delle tombe riproducevano scene di vita quotidiana.
    Gli Etruschi credevano nell’esistenza di una vita dopo la morte che era una prosecuzione della vita terrena.
    Altre tombe erano ricavate all’interno di cavità naturali preesistenti. Le tombe a edicola erano costruite completamente a livello della strada. Erano a camera unica ed avevano la forma di un tempio in miniatura, ma in pratica avevano una forma molto simile a quella delle abitazioni con tetto a doppio spiovente.
    Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia sono esposti i reperti tra i più famosi provenienti dalle città etrusche quali il Sarcofago degli Sposi proveniente da Cerveteri e risalente al VI secolo avanti Cristo. Il Sarcofago degli Sposi, capolavoro dell’arte etrusca in terracotta, fu trovato nel 1881 in una tomba della Banditaccia, allora di proprietà dei Principi Ruspoli, dai quali Felice Barnabei, il fondatore del Museo, lo acquistò rotto in più di 400 frammenti. Formato da una cassa a forma di letto da convito (kline) e da un coperchio con la rappresentazione di una coppia coniugale semidistesa a banchetto, alla moda orientale, il sarcofago è in realtà un’urna cineraria destinata ad accogliere le ceneri di due defunti.

    Sarcofago degli Sposi – Cerveteri

    L’uomo con il busto nudo e il resto del corpo coperto dal mantello cinge con gesto amoroso le spalle della donna, abbigliata con cappello e calzature con la punta rialzata; entrambi nelle mani tenevano vasi o altri oggetti da mensa, non conservati. Nella rappresentazione della coppia a banchetto, tema tanto frequente nei monumenti funerari, è colto un momento importante della vita aristocratica etrusca, che esaltava il rango e l’opulenza e rifletteva antichi ideali e forme rituali derivate dal mondo greco omerico. L’opera, modellata in un unico momento, ma tagliata verticalmente in due metà per evitare danni durante la cottura, in origine doveva essere ravvivata da forti colori di cui resta traccia sulle gambe del letto conviviale, colori che in parte si conservano nel sarcofago gemello, anch’esso da Cerveteri, al Museo del Louvre di Parigi dal 1863. L’attenzione dello scultore è concentrata sulle teste dalla nuca molto arrotondata, sui volti dall’ovale sfinato con gli occhi allungati, mentre la struttura dei corpi è nascosta da un panneggio dalle linee fluide, di grande raffinatezza anche nei dettagli. Datato tra il 530 e il 520 a.C., il sarcofago mostra caratteri stilistici propri di quella corrente artistica cosiddetta ionica che, avviata da artigiani provenienti dalle città greche dell’Asia minore, domina in Etruria nella seconda metà del VI secolo.
    Da Veio, in terracotta policroma risalente anch’essa al VI secolo avanti Cristo provengono la statua di Apollo e quella di ercole, affrontati nella contesa per la cerva cerinite dalle corna d’oro sacra ad Artemide/Diana, che costituisce una delle dodici fatiche di Ercole.

    Sette Contro Tebe (frammento) – Pyrgi

    Le statue facevano parte dell’apparato decorativo del tempio di Apollo. Di questo complesso decorativo facevano parte anche una statua di Hermes/Mercurio di cui giunge una splendida testa, e Latona con il piccolo Apollo in braccio, rappresentata forse nell’atto di colpire il serpente pitone per allontanarlo da Delfi.
    Da Pyrgi, l’antico porto di Cerveteri, proviene l’altorilievo in terracotta con la raffigurazione dei mito dei Sette contro Tebe, risalente al V secolo avanti Cristo e facente parte della decorazione del così detto tempio A dedicato a Leucotea – Ilizia, ovvero l’etrusca Uni.
    Dal così detto tempio B di Pyrgi provengono anche le lamine d’oro risalenti alla fine del VI secolo avanti Cristo, che costituiscono la più antica fonte storica dell’Italia preromana. Due delle lamine sono in lingua etrusca, mentre la terza è in fenicio. Il testo etrusco più lungo e quello fenicio hanno lo stesso contenuto pur non essendo l’uno la traduzione letterale dell’altro. Questa coppia di lamibe è un documento importante per la comprensione dell’etrusco.

    Lamine d’oro – Pyrgi

    Le due lamine riportano la dedica di un “luogo sacro” alla dea fenicia Astarte, assimilata alla dea etrusca Uno, da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio designa re di Caere. Segue nell’iscrizione fenicia la motivazione della dedica: in ringraziamento dell’aiuto ricevuto dal donatore tre anni prima, in occasione della sua ascesa al potere. Nell’iscrizione etrusca più breve è ricordato lo stesso personaggio per alcune azioni rituali nel medesimo luogo sacro.

    Roma, 9 febbraio 2019

  3. Il Monte de’ Cocci a Testaccio

    È certamente la più curiosa delle alture di Roma. Ai Sette Colli originari, l’espansione edilizia degli ultimi due secoli ha aggiunto molte altre colline;

    Il Monte dei Cocci in una ripresa aerea.

    e a tutte queste vanno aggiunti quelli che si possono definire i «monti archeologici»: modesti dislivelli provocati dall’accumulo di residui di antichi edifici quali il Monte Giordano, Monte Savello, Monte Citorio e Monte Cenci. Tuttavia Monte Testaccio, che è anch’esso un’altura artificiale, ha ben differente origine.
    Infatti, con la sua altezza di 54 metri sul piano circostante e con il suo perimetro di circa un chilometro, il Monte dei Cocci altro non è che un accumulo di anfore abbandonate e sistematicamente ammucchiate in un ben definito luogo di scarico. Dalla fine dell’età repubblicana a quella imperiale, il naturale approdo sul Tevere venne trasformato in un vero e proprio porto mercantile detto Emporium, grazie all’azione di due edili nel 193 avanti Cristo, Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo. Il porto fu dotato di horrea, ovvero di un esteso sistema di magazzini, di cui faceva parte anche la Porticus Aemilia i cui resti oggi possono essere visti tra gli edifici del quartiere Testaccio.

    Una ricostruzione degli horrea.

    Le operazioni di smistamento avvenivano nei pressi del porto. Le merci che potevano essere conservate venivano inviate ai magazzini, altre raggiungevano le botteghe della città dopo essere state spostate in anfore di dimensioni ridotte che potevano essere caricate sui carri, rispetto a quelle che venivano utilizzate sulle imbarcazioni provenienti dalle diverse aree di produzione.
    In particolare subivano questo trattamento le merci come l’olio, il vino e il pesce. Le anfore contenenti vino potevano essere riutilizzate in città, ad esempio per la raccolta delle urine necessarie per il funzionamento delle fulloniche, ma quelle contenenti olio e pesce no, e per questo le testae, anfore in latino, di risulta dovevano venivano accantonate con una particolare tecnica che prevedeva un regolare accatastamento dei cocci, frapponendo ai vari strati di materiale abbandonato degli strati di terreno e soprattutto calce che dessero consistenza alla costruzione, ed eliminassero il cattivo odore che si sarebbe generato dalla decomposizione dei residui organici.

    Zone di produzione di olio e grano nell’antica Roma.

    Un accumulo di tale entità e altezza fu reso possibile dalla presenza di una strada principale e di due stradelle che potevano essere percorse da carri trainati da muli ricolmi di cocci e di anfore frammentate. Funzionari chiamati curatores supervisionavano la rottura delle anfore e il loro trasporto fino alla cima della collina.
    Ma questa, che è a tutti gli effetti una enorme discarica, conserva al suo interno moltissime informazioni archeologiche, che investono diversi ambiti della ricerca storica. Ad esempio, attraverso i tituli picti, note scritte a pennello o a calamo con il nome dell’esportatore, indicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti durante il viaggio, la data consolare, e che si ritrovano sulle anse, è stato possibile ricostruire non solo le vie dei commerci, ma anche la struttura stessa della catena commerciale e le relative regole. Le informazioni contenute nei tituli picti hanno, quindi, contribuito a scrivere la storia del commercio nell’antica Roma.

    Bollo betico del III secolo dopo Cristo con riferimento ad una famiglia che commerciava in olio.

    Altre informazioni ricavate dagli studi, ancora in corso, sui cocci riguardano i cultivar di olivo che venivano utilizzati in epoca romana e la provenienza dell’olio, con una predominanza dell’olio spagnolo, soprattutto dalla regione della Betica, e dell’olio di origine africana.
    Ogni anfora conteneva circa 70 litri di olio importato dalla Spagna meridionale o dall’Africa del Nord e si è stimato che con le anfore accumulate a formare il Monte Testaccio siano stati trasportati a Roma circa 1,75 miliardi di litri di olio d’oliva, che veniva poi distribuito gratuitamente ai cittadini romani come parte del sussidio alimentare.
    E’ stato calcolato che il consumo di olio di oliva fosse di circa 50 litri pro capite all’anno, e bisogna immaginare che in ogni villaggio, città o accampamento dell’impero esistesse una montagnola di cocci di anfore d’olio simile a quella del Monte dei Cocci.
    I Romani furono i primi che fecero dell’olio un prodotto agricolo destinato alla vendita internazionale e alcun autori latini, come Catone e Columella, scrissero dell’olivo e della sua coltura, arrivando a identificare 20 cultivar diverse e a distinguerne i livelli di qualità: così l’oleum viride,

    Olive carbonizzate ritrovate a Pompei.

    l’olio verde preparato da olive acerbe era il migliore, seguiva poi l’oleum maturum, ovvero quello ricavato da olive mature, e infine c’era l’oleum cibarium preparato a partire da olive ormai guaste e che corrisponde al nostro olio lampante.
    Vasti oliveti vennero piantati dai Romani nell’Africa del Nord e accanto a questi sorsero enormi frantoi in grado di trattare enormi quantità di olive.
    Furono istituite borse merci in ciascun porto per fissare il prezzo dell’olio e si formare delle corporazioni per la sua commercializzazione. Si distinguevano: gli olearii, che erano dei venditori al dettaglio, i diffusores e i mercatores che invece operavano su scala più vasta.
    Un prodotto di tale importanza venne utilizzato come merce di scambio. Ad esempio Giulio Cesare volendo punire la città fenicia nell’attuale Libia Leptis Magna per aver preso parte alla resistenza contro  l’invasione romana, le inflisse di versare a Roma una quantità di olio di oliva pari a 1.067.800 litri.

    Torchio per olive del II secolo dopo Cristo – Volubilis – Marocco.

    L’olio divenne l’equivalente del petrolio di oggi. Settimio Severo, ad esempio, apparteneva ad una famiglia di Leptis Magna che si era arricchita proprio producendo e commercializzando olio, e poco dopo la sua ascesa al trono, chiese ai cittadini di Lepis Magna una donazione volontaria annua di un milione di libbre di olio di oliva, che poi egli distribuì gratuitamente al popolo della città di Roma.
    Si ritiene che il monte abbia funzionato come discarica per un lungo periodo di tempo, almeno dal 140 dopo Cristo fino alla metà del III secolo. Poi, nel corso dei secoli successivi, il motivo dell’accumulo dei cocci fu dimenticato, tanto da far sorgere intorno al colle numerose leggende per giustificare la sua origine: chi sosteneva fossero i risultati degli errori di lavorazione delle vicine botteghe di vasai, chi asseriva fossero i resti delle urbe cinerarie traslate dai colombari della via Ostiense, mentre una leggenda raccontava che la collina fosse stata formata dei resti del grande incendio di Roma nel 64 dopo Cristo. Per secoli il monte fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché a causa del suo utilizzo come discarica non era ritenuto meritevole di particolare menzione. Il nome mons Testaceum appare per la prima volta in un’iscrizione databile al VII secolo circa, conservata nel portico della chiesa romana di Santa

    Una bottiglia di olio e un pane carbonizzato provenienti da Pompei.

    Maria in Cosmedin mentre l’originario nome di epoca romana è ignoto.
    Sfruttate per secoli sono state le proprietà isolanti dell’argilla di cui il monte risulta costituto. Così lungo le pendici del colle artificiale sono state scavate numerose grotte al cui interno la temperatura si attesta tutto l’anno intorno ai 10°C. I locali scavati tra i cocci vennero adibiti a cantine, dispense e stalle e successivamente, a partire dal Medioevo, furono sede di osterie. In epoca più moderna i grottini furono adibiti a ristoranti e locali notturni.
    Probabilmente per la sua posizione decentrata rispetto alla città il Monte dei Cocci venne, sin dal Medioevo, utilizzato quale scenario per alcuni momenti del Carnevale Romano, costituiti da giochi crudeli e cruenti a carico di animali. Si allestivano qui infatti delle vere e proprie tauromachie, di cui la più popolare era la così detta “ruzzica de li porci”.

    La Ruzzica de li porci a Monte Testaccio.

    In questa occasione carretti di maiali vivi venivano lanciati giù dalla collina e quando si sfracellavano in basso il popolo dava la caccia ai frastornati animali. Dal XV secolo, trasferito il carnevale in via Lata per volontà di papa Paolo II, il monte divenne il punto di arrivo per la Via Crucis del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Golgota. Il corteo in questo caso partiva da una casa oggi scomparsa a Via Bocca della Verità, che ancora nell’Ottocento conservava il nome di “Locanda della Gaiffa”, quindi passava per la casa dei Crescenzi che diveniva la casa di Pilato, proseguiva per Santa Maria in Cosmedin, e attraversando l’arco di San Lazzaro, arrivava sulla cima del monte dove veniva simulata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni.
    Più tardi sarà meta privilegiata delle “ottobrate romane”, le tipiche feste romane, che vedevano sfilare verso le osterie e le cantine del Testaccio i carretti addobbati a festa delle “mozzatore”, le donne che lavoravano

    Il poeta improvvisatore a Testaccio nel mese di Ottobre – Bartolomeo Pinelli.

    come raccoglitrici d’uva nel periodo della vendemmia: tra canti, balli, gare di poesia, giochi e chiacchiere, ci si rinfrancava dal lavoro e soprattutto si “innaffiava” il tutto con il vino dei Castelli Romani, conservato nelle cantine scavate alle pendici del monte. Un esplicito riferimento a monte Testaccio è contenuto nella novella El licenciado Vidriera dello scrittore Miguel de Cervantes raccolta nell’opera Novelle esemplari pubblicata nel 1613. «Cosa volete da me ragazzi, testardi come mosche, sporchi come cimici, coraggiosi come pulci? Sono forse io il Monte Testaccio a Roma che mi gettate contro cocci e tegole?»
    Occorre tuttavia attendere fino al settecento perché al monte e ai reperti lì accatastati venga riconosciuto valore archeologico: l’abitudine dei romani di prelevare materiale dalle pendici del colle stava mettendo in pericolo l’abitabilità dei locali sottostanti tanto da muovere le autorità, nel 1742, a emettere un editto a tutela «…di un’antichità così celebre». A tale divieto, per le stesse motivazioni, si aggiunse due anni dopo la proibizione di pascolare armenti sul monte Testaccio.

    Ottobrata a Testaccio – Bartolomeo Pinelli.

    Le prime organiche ricerche archeologiche sul monte furono condotte a partire dal 1873 da Heinrich Dressel cui si deve la valorizzazione storica del sito e un imponente lavoro di catalogazione dei cocci e di classificazione delle anfore, sulla base dei bolli e dei tituli picti rinvenuti su alcuni di essi.
    Durante l’assedio di Roma del 1849, su monte dei cocci fu posizionata una batteria di artiglieria che da tale altezza prendeva agevolmente e insistentemente di mira i francesi accampati vicino alla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Similmente, durante la seconda guerra mondiale, sulla cima del colle fu installata una batteria antiaerea posizionata su basamenti di cemento, i cui resti sono ancora visibili.

    Roma, 20 gennaio 2019

  4. Sepolcri repubblicani di via Statilia

    Via Statilia ricorda l’antica gens romana che in questa zona ebbe molti possedimenti nella zona Est dell’Esquilino. Alcuni suoi membri erano seguaci di una setta neopitagorica dedita ai culti misterici per la cui celebrazione avevano anche costruito una basilica ipogea, ritrovata nel 1917 al di sotto di Porta Maggiore.
    L’attribuzione dell’edificio sotterraneo alla gens Statilia è un’idea consolidata. Per alcuni archeologi si tratterebbe della tomba di Tito Statilio Tauro, luogotenente di Augusto e console nell’11 dopo Cristo; per lo storico francese Jérôme Ernest Joseph

    Rilievo Funerario di Via Statilia, oggi conservato presso il Museo della Centrale di Montemartini.

    Carcopino, il monumento apparteneva invece ad un omonimo membro della gens Statilia, il quale – citato in giudizio da Agrippina, madre di Nerone, con l’accusa di superstizione e pratiche magiche – nel 53 dopo Cristo preferì darsi la morte. I culti neopitagorici erano destinati a pochi “eletti” e spesso venivano confusi con riti stregoneschi. All’importante gens apparteneva anche Statilia Messalina, moglie di Nerone.
    Un anno prima della scoperta della basilica neoplatonica, furono rinvenuti, tra via di Santa Croce in Gerusalemme e via Statilia alcuni Sepolcri Repubblicani, risalenti al 100 avanti Cristo circa e interrati nel secolo successivo.
    Via Statilia ricalca in parte l’antica Via Coelimontana  in parallelo all’Acquedotto Neroniano, fatto costruire nel 52 dopo Cristo, che diramandosi dall’Acquedotto Claudio nella vicinissima Porta Maggiore e, piegando verso sud all’interno di Villa Wolkonsky, sul terrapieno sovrastante i sepolcri, e proseguendo per via Domenico Fontana e per Via di Santo Stefano Rotondo e inglobando l’Arco di Dolabella, portava l’acqua nella zona della Domus Aurea andando ad alimentare un grande ninfeo nei pressi del Tempio del Divo Claudio, Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. L’Acquedotto Neroniano fu poi prolungato da Domiziano per portare acqua alla dimora imperiale del Palatino.
    All’atto della scoperta, la zona dei Sepolcri era – ed è tuttora – sormontata da una

    Ritrovamento dei Sepolcri di Via Statilia alla fine dell’Ottocento. Si ringrazia RomaSparita.

    collina, su cui si trova la già citata Villa Wolkonsky, oggi sede dell’Ambasciatore Britannico, che ricopriva totalmente il complesso archeologico. Poichè la zona della Villa ha uno status di extraterritorialità, non è stato possibile proseguire gli scavi che forzatamente terminano nei contrafforti del poderoso muro di cinta. All’interno della Villa Wolkowsky corrono ben trentasei arcate dell’acquedotto Neroniano e tutta l’area ha un’estensione di undici ettari e, all’interno sono stati trovati molti resti archeologici esposti ora in due serre presso l’ingresso della villa.
    Tornando ai Sepolcri Repubblicani tra via Statilia e via di Santa Croce in Gerusalemme, il più antico è probabilmente quello che mostra la facciata costruita in blocchi di tufo, nella quale si apre una porta centrale rettangolare, rinforzata con un restauro moderno in mattoni; questa è fiancheggiata da due scudi rotondi, ricavati dagli stessi blocchi della facciata. La camera funeraria interna è piccolissima, tagliata in parte nella roccia e ricoperta con una volta irregolare in opera cementizia. L’iscrizione ricorda che proprietari ne erano Publius Quinctius, liberto di Tito e libraio, la moglie Quinctia e la concubina Quinctia Agathea e che il sepolcro non sarebbe dovuto passare agli eredi, “Sepulcr(um) heredes ne sequatur“. La mancanza del cognome e l’aspetto ancora piuttosto antico del monumento permettono di datarlo intorno al 100 avanti Cristo, o poco prima.

    Sepolcro di Publius Quinctus – Sepolcri di Via Statilia.

    Proprio i legami intercorsi tra questi personaggi, deducibili sia dall’onomastica sia dalla qualifica di uxor, moglie legittima, e di concubina, convivente, quest’ultima aggiunta in un secondo momento, permettono di ricostruire in via ipotetica la storia di questo nucleo familiare. Il rapporto tra Publius Quinctius e Quinctia nacque probabilmente come coabitazione senza rilievo giuridico tra due schiavi alle dipendenze dello stesso padrone: Titus Quinctius, e fu trasformato in nozze legittime quando la coppia acquisì con lo stato di liberti la capacità di contrarre un matrimonio legalmente riconosciuto. Solo allora Publius Quinctius liberò la schiava Agathea, insieme alla quale lui e la moglie costruirono il sepolcro, commissionando ad un’officina lapidaria l’iscrizione che sanciva il loro diritto alla proprietà. Dopo la morte di Quinctia, Publius Quinctius iniziò a vivere con Agathea in concubinato, una forma di convivenza stabile, ma giuridicamente illegittima, che differiva dal matrimonio perché mancava dell’affectio maritalis, ovvero la reciproca volontà delle parti di vivere come marito e moglie per la durata dell’intera esistenza. Nonostante questa premessa, la lunga durata dell’unione dei due liberti è provata dall’iscrizione sulla facciata in cui la qualifica di concubina fu aggiunta in coda all’onomastica della donna.

    Iscrizione dei Quinctiii – sepolcri di Via Statilia.

    Il sepolcro seguente viene denominato “Sepolcro Gemino”, ossia doppio, in quanto è costituito da due vani, con celle ed ingressi distinti, ma con il prospetto e la parete divisoria in comune. La facciata è decorata con due gruppi di busti raffiguranti 5 defunti, una donna e due uomini a sinistra, due donne a destra, liberti delle famiglie Clodia, Marcia ed Annia. Il fatto che l’iscrizione si presenti alquanto rimaneggiata, con caratteri in parte erasi e che riporti i nomi di 6 persone, fa ritenere che non sia quella primitiva: a parte il nome di Anneo Quincione, gli altri quattro furono probabilmente aggiunti in un secondo momento. La presenza del cognome fa propendere per una data successiva rispetto al sepolcro precedente, probabilmente intorno all’inizio del I secolo avanti Cristo Più o meno contemporaneo segue un colombario, del quale rimangono scarse tracce, e poi un monumento ad ara, ampliato in un secondo momento in opera reticolata e che l’iscrizione assegna a due “Auli Caesonii“, probabilmente due fratelli, e ad una Telgennia. L’intero complesso di tombe risulta essere molto importante perché permette di seguire da vicino il passaggio dal tipo di tomba a camera, la più antica, quella di Publius Quinctius, al monumento isolato, il più tardo, quello dei Caesonii, passaggio che avviene appunto tra la fine del II e gli inizi del I secolo avanti Cristo. Immediatamente di fronte ai sepolcri è l’ingresso a una piccola area sotterranea in cui è possibile vedere i resti di due antiche condutture d’acqua, già in origine sotterranee, costituite da blocchi di tufo scavati al centro e incastrati l’uno nell’altro.

    Roma, 25 novembre 2018.