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  1. Claudio Imperatore. Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia.

    Claudio in nudità eroica – Museo del Louvre.

    Il racconto della vita e delle opere di Claudio, reso attraverso un allestimento originale fatto di immagini e suggestioni visive e sonore, costituisce la caratteristica saliente del percorso espositivo. La mostra guiderà i visitatori alla scoperta della vita e il regno del discusso imperatore romano, dalla nascita a Lione nel 10 avanti Cristo fino alla morte a Roma nel 54 dopo Cristo, mettendone in luce la personalità, l’operato politico e amministrativo, il legame con la figura di Augusto e con il celebre fratello Germanico, il tragico rapporto con le mogli Messalina e Agrippina, sullo sfondo della corte imperiale romana e delle controverse vicende della dinastia giulio-claudia.
    L’esistenza di Claudio è segnata da un destino singolare, che lo pone di fronte ad avvenimenti eccezionali, fatti di sangue, intrighi di corte, scelte politiche ardite. Primo imperatore a nascere fuori dal territorio italico, a Lugdunum, odierna Lione, era un candidato improbabile al comando dell’impero. Augusto, che dubitava delle sue attitudini politiche, gli avrebbe preferito di gran lunga il fratello Germanico, che tuttavia morì prematuramente in circostanze sospette. Come successore, il popolo e l’esercito avevano poi scelto Caligola, che di Germanico era il figlio, erede della fama del padre. Ma l’assassinio di Caligola, accoltellato nel suo stesso palazzo, metteva necessariamente Claudio al centro della crisi politica successiva. Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico diventava così, alla notevole età di cinquant’anni, il primo imperatore acclamato, dopo una lunga trattativa politico-economica, da un corpo militare, i pretoriani.

    Rilievo con pretoriani – Museo del Louvre.

    Anche i rapporti di Claudio con le sue quattro mogli sono segnati da congiure e vicende tragiche. La sua terza moglie, Messalina, più giovane di Claudio di 35 anni, rimane nota per i suoi molti vizi, veri o presunti, sebbene fosse la madre di Britannico, il primo erede maschio della dinastia giulio-claudia nato a un imperatore regnante. Uccisa Messalina, con il consenso di Claudio, anche il destino di Britannico fu segnato: non conseguì mai il potere, vittima adolescente del fratellastro Nerone.
    L’ultimo matrimonio di Claudio, quello con sua nipote Agrippina, gli sarà fatale. Agrippina, figlia di Germanico e sorella di Caligola, viene considerata l’artefice della sua morte, forse per avvelenamento. Alla morte di Claudio seguì la sua divinizzazione, la realizzazione di un tempio a lui dedicato sul Celio e la successione nell’impero del figlio di Agrippina, Nerone. Il percorso espositivo al Museo dell’Ara Pacis, supportato dal lavoro aggiornato di storici e archeologi, traccia un’immagine di Claudio un po’ diversa da quella cupa e poco lusinghiera trasmessa dagli autori antichi. Ne emerge la figura rivisitata di un imperatore capace di prendersi cura del suo popolo, di promuovere utili riforme economiche e grandi lavori pubblici, contribuendo con la sua legislazione allo sviluppo amministrativo dell’Impero.

    Agrippina Minore – Ritratto in bronzo.

    In mostra alcune opere di straordinario interesse storico e archeologico: dalla Tabula Claudiana, su cui è impresso il famoso discorso tenuto da Claudio in Senato nel 48 dopo Cristo sull’apertura ai notabili galli del consesso senatorio, al prezioso cameo con ritratto di Claudio Imperatore proveniente dal Kunsthistorisches Museum, fino al piccolo ma suggestivo ritratto in bronzo dorato di Agrippina Minore, proveniente da Alba Fucens e concesso in prestito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo, che testimonia l’interesse di Claudio per il territorio dell’allora Regio IV, dove realizzò l’impresa del Fucino. Una delle novità della mostra è l’esposizione, per la prima volta, del ritratto di Germanico della Fondazione Sorgente Group, opera importante che celebra il giovane e amato principe colpito da un destino avverso.
    (dal comunicato stampa della mostra)

    Roma, 24 aprile 2019.

  2. Gita di Pasquetta: dall’Isola Tiberina e al Ghetto ebraico

    L’Isola Tiberina, un territorio di modeste proporzioni 300 metri di lunghezza per 80 di larghezza, è tuttavia trasfigurata dalla leggenda: essa sarebbe nata sui depositi di grano dei Tarquini gettati nel Tevere dai Romani in rivolta perché volevano la loro

    Isola Tiberina – Giovan Battista Pitanesi.

    cacciata, o, per la sua forma, da una nave incagliata, prescelta dal serpente di Esculapio, trasformazione animale di Esculapio stesso, per arrivare esattamente in quel punto del Tevere, e far costruire proprio lì ai Romani un tempio dedicato al dio guaritore più importante della cultura greca.
    Sollecitati proprio da questo racconto misterico l’isola, in realtà originatasi dall’azione erosiva esercitata dal Tevere e da due o tre suoi affluenti sulle propaggini più estreme del colle Capitolino, fu foggiata in antico a forma di trireme – se ne vedono alcuni ruderi della poppa sul fianco settentrionale, retrostante alla chiesa di San Bartolomeo – e rimase consacrata al dio della medicina Esculapio, il cui culto fu introdotto a Roma nel 291 avanti Cristo, e a cui fu dedicato un tempio costruito effettivamente proprio sull’isola.
    Il tempio fungeva da vero e proprio ospedale, come testimoniano numerose iscrizioni che parlano di guarigioni miracolose avvenute presso il tempio, i numerosi ex voto e le dediche alla divinità. Gli ammalati venivano curati soprattutto con l’acqua.
    Il tempio di Esculapio non era però l’unico che era stato costruito sull’Isola Tiberina, poiché sono stati identificati i resti del tempio di Veiove, di Fauno e il tempio Tiberino dedicato al dio Tevere.
    Il carattere sacro e quello legato alla cura degli infermi sono due aspetti dell’Isola Tiberina che permangono nel corso del passare del tempo. Così, sul tempio di Esculapio, in epoca cristiana, fu edificato, sin dall’anno Mille, un santuario – ricovero per prestare aiuto e cure ai poveri.

    Moneta antica che ricorda l’episodio del serpente di Esculapio.

    Nella seconda metà del Cinquecento, la struttura fu trasformata in “fabbrica della salute” ovvero in un’organizzazione basata sull’opera non più meramente assistenziale ma in cui operavano medici e infermieri. Nel 1585, fra Pietro Soriano grazie all’intervento di papa Gregorio XIII, vi fondò una confraternita di soccorso ai malati secondo la regola di San Giovanni di Dio, chiamati popolarmente Fatebenefratelli, che introdusse innovazioni sanitarie particolarmente rivoluzionarie al tempo, come ad esempio l’allettamento di ciascun paziente in un singolo letto a lui riservato e la suddivisione dei malati in relativi reparti specializzati a seconda della loro patologia. La struttura fu già molto importante durante l’epidemia a Roma della peste del 1558, ma lo fu in particolare durante l’epidemia di colera, nel 1832, per l’efficacia delle cure prestate alla popolazione. Nonostante l’ospedale avesse mantenuto la sua autonomia anche sotto la dominazione francese, a seguito degli eventi dopo la breccia di Porta Pia, nel 1878 fu sottratto all’ordine religioso dei Fatebenefratelli, per tornarvi nel 1892. Alla fine dell’Ottocento l’ospedale fu rinforzato contro le piene del Tevere con una serie di muraglioni di contenimento. Ma è soprattutto dopo gli ammodernamenti e gli ampliamenti del 1992 che l’ospedale acquisì le caratteristiche di una moderna struttura sanitaria. Il nome “San Giovanni Calibita Fatebenefratelli” è stato assegnato all’ospedale nel 1972.
    La vocazione medica dell’Isola è confermata anche dalla presenza dell’Ospedale Israelitico, proprio accanto alla chiesa di San Bartolomeo. Le origini di questo secondo ospedale risalgono al 1600 e il suo scopo fu di provvedere un minimo di assistenza sanitaria agli ebrei di Roma, privati, dalle norme sulla reclusione nel ghetto, dell’accesso agli ospedali di allora. Dopo il 1884 l’amministrazione comunale decise di dare in concessione alla comunità ebraica per un ospedale, il vecchio convento vicino alla chiesa di San Bartolomeo.
    Nel 1834 durante l’epidemia di colera le autorità del tempo, temendo la diffusione del contagio, concessero solo temporaneamente l’istituzione di un lazzaretto per gli ebrei di Roma, sito nel Palazzo Cenci.

    Mappa Lanciani, 1983. In alto a sinistra si vede l’altra isola che si trovava accanto all’Isola Tiberina.

    L’Isola Tiberina in antico era accompagnata da un’isola più piccola, più vicina al Ghetto Ebraico, ancora presente nella mappa di Rodolfo Lanciani tracciata nel 1893 poco prima della costruzione dei muraglioni che la faranno sparire.
    L’Isola Tiberina ospitò le prime popolazioni italiche che si attestavano sui colli della Riva Sinistra del Tevere e ne condivise le sorti. Essa fu perciò da subito inclusa in questa parte della città, rimanendo ancora oggi esclusa dal Trans Tiberim, visto che anche amministrativamente essa appartiene al Rione Ripa che, all’altezza del Teatro di Marcello, prosegue lungo la sponda tiberina fino all’Aventino e ai limiti del Testaccio.
    La forma di nave trireme fu accentuata ponendo un obelisco al centro dell’isola con funzione di albero maestro, successivamente sostituita da una colonna con la croce. Dell’obelisco sono conservati dei frammenti al Museo Nazionale di Napoli.
    La colonna invece fu detta “infame” perché ad essa era affissa, il 27 agosto di ogni anno, una tabella nella quale venivano indicati i nomi di coloro che non partecipavano alla messa nel giorno di Pasqua.
    L’uso perdurò fino al 1870 e tra i nomi illustri che finirono sulla colonna infame ci fu, nel 1834, quello del pittore di Trastevere Bartolomeo Pinelli. Questi si offese molto non tanto perché il suo nome era apparso nella lista dei miscredenti, quanto perché nella medesima lista egli era indicato quale “miniaturista” e non quale “incisore”.
    Un po’ di tempo dopo un carro andò a sbattere contro la colonna che per questo si spezzò in più parti. Solo nel 1869, per volere di Pio IX, la colonna fu sostituita con quella attuale.
    Per accedere all’Isola Tiberina, si attraversano due antichissimi ponti: il Fabricio e il Cestio. I due ponti sono i più antichi di Roma che giungono non modificati e ancora in uso fino a noi. Il Ponte Fabricio è il più antico ponte di Roma giunto fino a noi. L’attuale, costruito nel 62 avanti Cristo da Lucius Fabricius, curator viarum come è detto dalle due iscrizioni poste sulle due grandi arcate, sostituì uno in legno che lo precedette. Esso è detto anche “dei Quattro Capi”, grazie alle erme quadricipiti inserite nella balaustra, simulacri di Giano Quadrifronte, e che probabilmente

    Isola Tiberina – Caspar van Wittel – 1685.

    avevano il ruolo di sorreggere la balaustra in bronzo fatta rimuovere dal papa Innocenzo XI. Nel Medioevo il ponte Fabricio fu anche detto “Pons Judeorum” perché prossimo alla riva abitata dagli ebrei e sulla quale venne in seguito delimitato il Ghetto.
    Il ponte Cestio che oggi può essere attraversato è invece stato costruito nel 370 dopo Cristo e ne sostituisce uno a due fornici che risaliva al 46 avanti Cristo. Nel Seicento il ponte Cestio era detto “ponte ferrato” a causa delle numerose catene di ferro che tenevano ancorato i molini presenti sul fiume.
    Sulla sinistra de ponte Fabricio si leva la tozza torre che fu prima dei Pierleoni – quando vi stette Matilde di Canossa – per passare, in seguito, i Caetani che vi risiedettero fino al XV secolo.
    In fondo ad una piazzetta tranquilla si innalza la chiesa di San Bartolomeo, eretta alla fine del X secolo dall’imperatore germanico Ottone III e rimodernata nel 1624, dopo la piena rovinosa del 1557. La facciata è notevole per la ricerca di movimento mediante la contrapposizione di una zona inferiore a una superiore con finestre sormontate da un timpano molto pronunciato. All’interno, va segnalata la Cappella dell’Università dei Mugnai: si riferisce all’attività dei mulini fluviali a ruota che, fino al 1870, si addensavano soprattutto nei pressi dell’Isola Tiberina. E, nella navata destra, la Cappellina di San Carlo decorata da Antonio Carracci. Il bel campanile del 1113 è uno dei più armoniosi campanili romanici di Roma.

    Ghetto di Roma.

    Attraversato il Ponte Fabricio e un tratto del Lungotevere de’ Cenci, ci s’immette nel Ghetto ebraico, luogo di vicende dolorose degli ebrei romani.
    A Roma, come altrove, gli ebrei avevano vissuto sempre in una comunità riunita in ambito ristretto: nell’antichità risiedevano a Trastevere e, successivamente, nel XIII e XIV secolo si erano raccolti al Rione Sant’Angelo, presso l’Isola Tiberina, ricca allora di attività mercantili.
    Il 12 luglio del 1555 il papa Paolo IV Carafa, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani e ordinò l’istituzione del ghetto, chiamato anche “serraglio degli ebrei”: Identificò a questo scopo una regione sempre nel rione Sant’Angelo, accanto al Teatro Marcello. Nella bolla papale oltre a specificare che gli ebrei dovevano risiedere nel ghetto e che nel ghetto non ci potesse essere più di una sinagoga, veniva anche deciso che essi dovessero portare un distintivo di “colore glauco” che li rendesse facilmente riconoscibili. Per gli uomini questo segno di riconoscimento fu un cappello giallo, per le donne una pezza di stoffa da portare sopra gli abiti. Molte delle restrizioni fissate dalla bolla di Paolo IV saranno poi riprese dalle leggi razziali emanate in Italia durante il Governo Fascista nel 1938. Inoltre l’obbligo a risiedere dentro il quartiere che, fino al 1848, possedeva delle vere e proprie mura con porte che erano aperte al mattino e richiuse la sera, fece sì che gli edifici nel tempo divenissero sempre più alti, collegati tra loro da ponti che facilitavano la fuga in occasione delle “incursioni” dei gentili, come ad esempio quelle che avvenivano durante il Carnevale romano. Il ghetto aveva quindi per lati maggiori il Tevere e il Portico d’Ottavia, mentre uno dei lati minori attraversava la piazza Giudea e l’altro raggiungeva dal fiume la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria.

    Via Rua – Ghetto di Roma – Ettore Roesler Franz.

    Dall’emissione della bolla papale l’atteggiamento dei papi fu altalenante; alcuni papi cercarono di alleviare le condizioni di vita degli ebrei romani, altri papi inasprirono l’atteggiamento nei confronti della comunità. Gregorio XIII, che fu papa alla fine del Cinquecento, ebbe un atteggiamento ambivalente: se da un lato cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica dall’altro la vessò istituendo le “prediche coatte”. Queste si svolgevano di sabato e avevano l’obiettivo di indurre gli Ebrei di Roma alla conversione. Le prediche coatte si tennero su di un arco molto lungo, erano tenute in luoghi diversi tra i quali la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, la chiesa di San Gregorio al Ponte Quattro Capi e nel Tempietto del Carmelo.
    Sisto V, Felice Peretti, fu un papa che cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica permettendo anche un ampliamento del ghetto, che arrivò a occupare una superficie di tre ettari. Un simile atteggiamento di maggiore disponibilità fu assunto anche da Paolo V Borghese, papa nella prima metà del 1600, il quale per sancire in qualche maniera il rispetto che la chiesa di Roma avrebbe portato alla comunità ebraica fece collocare nella piazza delle Scole una fontana nella quale il motivo araldico del drago alato dei Borghese si univa al candelabro con i sette bracci. Altri papi come Pio V e Clemente VIII furono decisamente più intransigenti.
    Uno spiraglio alle condizioni di estrema povertà della comunità ebraica si aprì una prima volta a seguito dell’occupazione francese di Roma del 1798 e la conseguente proclamazione della Prima Repubblica Romana, quando le porte del ghetto furono finalmente aperte e gli ebrei poterono uscire. In piazza delle Cinque Scole per sancire questo momento fu eretto un “albero della libertà”, ma la libertà durò veramente poco visto che meno di due anni dopo, con la cacciata delle truppe francesi, le condizioni di vita tornarono ad essere quelle di sempre. Di nuovo nel 1848 sembrò che le cose per la comunità ebraica potessero cambiare. Infatti Pio IX

    16 ottobre 1943. Rastrellamento nel Ghetto di Roma.

    per un certo periodo del suo pontificato sembrò ispirarsi alle idee repubblicane, e questo per gli ebrei si tradusse nel fatto che le mura del ghetto vennero abbattute. La libertà sembrò diventare ancora più concreta durante la Repubblica Romana del 1849, ma il ritorno del papa dopo la sconfitta della Repubblica spense di nuovo le speranze. Pio IX inasprito da quanto era accaduto, considerando la comunità ebraica in parte responsabile dell’esperienza della Repubblica, emanò leggi repressive nei confronti della comunità che riguardarono anche la libertà con cui gli ebrei potevano muoversi all’interno della città, sebbene le mura del ghetto non esistessero più. Si dovrà attendere l’unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale per avere un’equiparazione reale tra gli ebrei e gli altri romani. Ma anche questa sarà una parentesi che dal 1871 durerà in buona sostanza fino al 1938, quando Mussolini sceglierà di seguire Hitler sulla scelta discriminatoria nei confronti degli ebrei. L’episodio certamente più grave della storia della comunità ebraica a Roma sarà quello che si compirà il 16 ottobre del 1943 durante l’occupazione nazista della città. In questa data i Tedeschi, al comando di Kappler, in poche ore alle prime luci del mattino rastrellarono e deportarono ad Aschwitz milleduecentocinquantanove Ebrei di tutte le età. Di questi ritornarono a Roma in sedici di cui quindici uomini e una sola donna Settimia Spizzichino, che da subito scelse di testimoniare l’orrore che aveva vissuto.
    Dalla storia tragica degli Ebrei romani alla lieta nota del restauro di uno dei

    Veditori di pesce al Portico di Ottavia – Ettore Roesler Franz.

    monumenti più importanti che proprio al Ghetto fanno bella mostra di sé: il Portico di Ottavia, restituito da poco tempo all’ammirazione dei romani e dei visitatori. Si tratta del grandissimo portico quadrato che Augusto fece ricostruire, tra il 33 e il 23 avanti Cristo sul portico di Quinto Cecilio Metello Macedonico dedicandolo alla sorella Ottavia. All’interno del portico sorgevano due templi, quello di Giunone Regina e di Giove Statore, mentre facevano parte del portico stesso la biblioteca, che raccoglieva testi latini e greci, dedicata alla memoria di Marcello, figlio di Ottavia e la Curia Octaviae.
    Nell’80 dopo Cristo il complesso subì danni in seguito ad un incendio e fu probabilmente restaurato da Domiziano. Ancora nel 203 dopo Cristo, il portico e i templi furono ricostruiti e nuovamente dedicati da Settimio Severo e Caracalla, dopo le distruzioni dovute a un altro incendio. A seguito del terremoto del 441 dopo Cristo le colonne del propileo d’ingresso vennero sostituite dall’arcata tuttora esistente. Intorno al 770, a partire dal propileo d’ingresso, fu edificata la chiesa di “San Paolo in summo circo”, detta poi Sant’Angelo in Pescheria.
    La visita si conclude al Teatro di Marcello, i cui imponenti resti mostrano l’affascinante stratificazione di successive edificazioni nelle varie epoche. Il teatro, iniziato da Cesare, fu compiuto da Augusto tra il 13 e l’11 avanti Cristo e dedicato alla memoria dell’amatissimo Marco Claudio Marcello, suo nipote e genero prediletto, quest’ultimo era infatti figlio della sorella Ottavia e marito di sua figlia Giulia, morto non ancora ventenne nel 23 avanti Cristo e per il quale Virgilio scrisse i suoi famosi versi di rimpianto: «[…] Ohi, ragazzo degno di pianto: se mai rompessi i tuoi fati, tu resterai Marcello. Gettate gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e colmi l´anima del nipote almeno con questi doni e faccia un inutile regalo […]».

    Ricostruzione del Portico di Ottavia.

    L’imponente e severo monumento, che non di rado fu preso a modello dagli artisti del Rinascimento, era costituito da due ordini di quarantuno arcate ciascuno, coronati da un attico; la cavea, che si apriva ove attualmente è il giardino di Palazzo Orsini, poteva contenere circa quindicimila spettatori.
    Nell’era cristiana molti dei teatri romani caddero in disuso e questa sorte toccò anche al teatro Marcello, tanto che nel 370 parte del travertino della facciata che guardava verso il Tevere sembra che fu utilizzato per un restauro del ponte Cestio, mentre altro materiale di pertinenza della facciata si accumulava e veniva poi ricoperto dalle piene del Tevere stesso, dando origine a quello che oggi si chiama Monte Savello.
    Nel Medioevo ciò che era ancora in piedi del teatro veniva trasformato in una fortezza che appartenne prima ai Pierleoni, poi ai Faffo e quindi ai Savelli che tra il 1523 e il 1527 vi fecero costruire da Baldassarre Peruzzi i due piani del palazzo, il quale acquistò così forma definitiva e nel 1712 passò agli Orsini.
    Nell’area compresa tra il teatro di Marcello e il portico di Ottavia svettano le tre colonne angolari del tempio di Apollo Sosiano, eretto nel 433 avanti Cristo e rifatto nel 179 quando lo stesso dio viene indicato con l’appellativo di Apollo Medicus. Il nome Sosiano deriva invece dal nome del console Gaio Sosio che lo ricostruì, nel 34 avanti Cristo, forse a causa di un suo trionfo. I lavori furono interrotti a causa tra Ottaviano e Antonio, per riprendere l’anno dopo quando Augusto si riconciliò con Sosio.

    Portico di Ottavia – Giovan Battista Piranesi.

    Accanto a questo tempio infine sorgeva quello di Bellona, dea della guerra italica a cui fu dedicato il tempio nel 296 avanti Cristo. Il tempio si trovava fuori dal pomerium e in vicinanza delle mura, per questo motivo ospitò diverse riunioni del Senato quando a queste partecipavano personaggi stranieri, appartenenti ad ambascerie di altri popoli, o comandanti militari qualora essi fossero in armi ad esempio perchè dovevano partire per la guerra.

    Roma, 26 marzo 2018

  3. Il primo luogo di culto cristiano nel cuore Foro Romano: la basilica dei Santi Cosma e Damiano

    A pochi passi dal Foro Romano, dal Palatino e dal Campidoglio, quasi defilata su un lato di via dei Fori Imperiali, ecco la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano.

    Santi Cosma e Damiano – Interno.

    La struttura architettonica appare oggi composita per le vicende legate alle pagine della sua storia. Durante il grande incendio di Roma del 64 dopo Cristo la maggior parte degli edifici pubblici del lato Nord del Foro Romano andò distrutta e, dopo la vittoria nella guerra giudaica, l’imperatore Vespasiano realizzò qui il Foro della Pace, un grande complesso con tempio, giardino, fontane e un’aula rettangolare, la Biblioteca Pacis. All’inizio del IV secolo, l’imperatore Massenzio innalzò, a fianco della Biblioteca, l’imponente Basilica, con aula rotonda e ingresso monumentale sul Foro Romano, ancora visibile anche dall’interno della chiesa, coperta con una delle più grandi cupole realizzate a Roma nell’antichità. L’antica porta di bronzo, aperta sulla Via Sacra, è tra i pochi esempi conservati da allora e mantiene anche oggi la sua funzione. Secondo la tradizione, la rotonda era anticamente chiamata Tempio di Romolo, in memoria del figlio di Massenzio, morto all’inizio del IV secolo. Con la caduta dell’Impero Romano, sia la biblioteca che la

    Porta di bronzo dell’aula rotonda dell’edificio costruito da Massenzio.

    rotonda sono state abbandonate, seguendo la sorte di tutti gli edifici di culto pagano decretata dall’editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio II. Nel 526 papa Felice IV ottenne dal re Teodorico di poterne disporre e decise di unire i due edifici e di convertirli a uso religioso. Sorse così il primo luogo di culto cristiano nell’area del Foro Romano, da secoli dedicata alle funzioni civili e alla celebrazione del potere imperiale, vero simbolo della civiltà romana pagana. Il pontefice dedicò la chiesa ai Santi Cosma e Damiano, i due medici originari dell’Asia Minore che subirono il martirio nel 303 a Egea, e per questo motivo è conosciuta anche come “Basilica beati Felicis“. Le loro reliquie furono poi trasportate a Roma e disposte sotto l’altare inferiore della chiesa. Nel Medioevo la basilica dei Santi Cosma e Damiano era riconosciuta come uno dei principali centri di assistenza ai poveri e ai pellegrini a Roma. Una parte importante della vita spirituale della basilica fu la devozione mariana, iniziata nei tempi del papa Gregorio Magno, 590-604. L’edificio fu ampliato sotto Sergio I, 695, e Adriano I, 772, finché, nel 1512, venne affidato dal cardinale Alessandro Farnese ai Francescani del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, i quali effettuarono una serie di restauri e di ampliamenti. Ma fu nel 1632, sotto Urbano VIII, che la chiesa fu totalmente rinnovata su disegno dell’architetto camerale Luigi Arrigucci, il quale decise, a causa del carattere malsano e acquitrinoso in cui versava il Foro Romano, di rialzare il pavimento di ben 7 metri, creando così una chiesa inferiore e

    Soffitto a cassettoni della chiesa dei santi Cosma e Damiano.

    una superiore. I Francescani, nello stesso periodo, commissionarono a Orazio Torriani l’edificio conventuale che si sviluppa sulla destra della chiesa. Originariamente l’accesso, quindi, avveniva dalla Via Sacra, attraverso il bellissimo portale del Tempio di Romolo: una vetrata, situata all’interno della chiesa, permette tuttora di ammirare la rotonda, posta all’interno della porta bronzea, che aveva funzione di atrio. L’ingresso attuale, invece, è posto su un lato della chiesa su via dei Fori Imperiali, attraverso un atrio sul quale si affaccia un tratto della parete in blocchi in opus quadratum dell’antica Biblioteca Pacis. L’interno della chiesa, a schema basilicale classico di tipo costantiniano, è a navata unica e presenta ora, al posto dell’originario soffitto a capriate lignee, una copertura impreziosita da una serie di cassettoni dipinti e dorati con lo stemma di Urbano VIII Barberini, tre api dorate su fondo azzurro, e con la Gloria dei Santi titolari. L’altare del presbiterio è ornato con una Madonna con Bambino dipinta su tavola da un anonimo romano del XIII secolo, mentre l’abside e l’arco trionfale presentano un complesso musivo tra i più belli e più antichi di Roma, insieme a quelli di Santa Pudenziana, Santa Prassede, San Clemente e Santa Maria Maggiore. Nel catino absidale, Gesù si eleva al centro su un cielo blu solcato da nuvole variopinte, che ricordano quelle del mosaico del catino absidale di Santa Pudenziana, circondato dai Santi Pietro e Paolo, vestiti di bianco, che introducono Cosma e Damiano, in atto di offrire corone gemmate, e Felice IV che presenta il modello della chiesa. Il volto di Felice IV si deve però a un rifacimento seicentesco. Completano la scena musiva San Teodoro con una corona e un’iscrizione in caratteri dorati con il loro nome. Più in

    Particolare del mosaico dell’abside della chiesa dei Santi Cosma e Damiano.

    basso, nella fascia inferiore, le dodici pecore convergenti al centro verso l’agnello che rappresenta Cristo stesso e che poggia le zampe sul monte dal quale originano i quattro fiumi del Paradiso. Questa porzione del mosaico è su fondo oro. Il tema trattato e le scelte compositive e rappresentative sono caratteristiche dell’arte musiva dell’epoca bizantina, presente anche a Ravenna nella decorazione della Basilica di Sant’Apollinare in Classe.

    Roma, 23 febbraio 2019

  4. Foro Romano: tra Scipione e Cesare

    Foro Romano, atto terzo. Dopo i due appuntamenti dedicati all’età arcaica, la visita proposta attraverserà il cuore monumentale dell’antica Roma

    Basilica Sempronia – ricostruzione.

    durante i secoli della Repubblica: dalla costruzione delle grandi basiliche consolari alla realizzazione del Comizio dove si decisero le sorti dello Stato. I templi, i portici, gli spettacoli, il grande piano monumentale cesariano e i lavori di Silla e Cesare.
    Dall’età regia fino all’avvento dell’età medievale, la valle del Foro è stata teatro di eventi e sede di istituzioni di importanza tale da aver determinato a più riprese il corso storico della civiltà occidentale, e da aver influenzato in modo preponderante le basi politiche, giuridiche culturali e filosofiche del pensiero occidentale.
    Nel 210 avanti Cristo Tito Livio racconta che nel corso della festa dei Quiquatri, una festività romana dedicata a Minerva, con consacrazione delle armi a Marte e celebrata il 19 marzo, cinque giorni dopo le idi di marzo, scoppiò un incendio intorno al Foro in più punti. Contemporaneamente vennero distrutte dal fuoco sette botteghe, in seguito sostituite da altre cinque e da nuove botteghe per gli argentari. Vennero poi aggrediti dal fuoco alcuni edifici privati, in quanto non vi erano in quell’area ancora le basiliche. Furono incendiate anche le

    Basilica Emilia – situazione attuale.

    carceri, il mercato del pesce e l’atrio della Regia. Il tempio di Vesta venne a fatica salvato, grazie soprattutto a tredici schiavi, che furono subito dopo riscattati a spese pubbliche e liberati. L’incendio continuò notte e giorno e non vi fu alcun dubbio che non fosse stato doloso, considerando che il fuoco era stato appiccato contemporaneamente in più luoghi.
    Di attività edilizia di una certa importanza al Foro si ebbe dopo la fine della Seconda Guerra Punica. Con le guerre contro gli Stati ellenistici Roma allarga il suo dominio anche al settore orientale del Mediterraneo, che diviene ormai un lago romano. Le necessità urbanistiche della capitale trovano evidente corrispondenza nell’intensa attività edilizia, che trasforma così in pochi decenni l’aspetto del Foro. Sorgono, nel II secolo avanti Cristo, ben quattro basiliche: Emilia, Porcia, Sempronia, Opimia, e vengono ricostruiti interamente i templi della Concordia e dei Castori, per ricordare solo i maggiori.
    La Basilica Sempronia venne costruita dal censore Tiberio Gracco nel 169 avanti Cristo. Per poter costruire la basilica Tiberio Gracco dovette comprare la casa di Publio Cornelio Scipione Africano che sorgeva proprio in questo luogo. Scavi recenti condotti nei sotterranei della Basilica Giulia hanno permesso di identificare i resti di una ricca domus databile tra il III e il II secolo avanti Cristo. Gli studiosi ritengono quindi che i resti di questa domus possano essere quelli della domus di Scipione Africano di cui parla priorio Livio.

    Basilica Emilia – ricostruzione.

    All’inizio del I secolo avanti Cristo, Silla regolarizzò lo sfondo verso il Campidoglio, fornendo alla piazza un fondale monumentale. Nello stesso tempo venne costruito il Tabularium, edificio destinato a ospitare gli archivi pubblici dello Stato: gli atti pubblici più importanti dell’antica Roma, dai decreti del Senato ai trattari di pace. Unica superstite delle basiliche repubblicane. la Basilica Emilia ci si presenta oggi nell’aspetto assunto in seguito ai numerosi restauri imperiali. Fondata dai censori del 179 avanti Cristo, M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore – al secondo dei quali spetta in realtà la costruzione – essa prese in un primo tempo il nome di Basilica Fulvia. Dopo i restauri, dovuti a vari membri della gens Aemilia, essa avrebbe assunto il nome di Basilica Pauli. Secondo un’ipotesi recente, la sua costruzione sarebbe dovuta a Emilio Paolo nel corso della censura del 159 avanti Cristo La basilica non era altro che uno spazio coperto, destinato, nella cattiva stagione, a svolgere le funzioni che erano proprie del Foro: e quindi a ospitare i tribunali e tutte quelle attività economiche che in periodo più favorevole si svolgevano all’aperto. Il più ampio spazio possibile veniva coperto a mezzo di file di colonne e pilastri, destinati a sostenere la copertura, così che ne originava una serie di navate.

    Fregio della Basilica Emilia – I secolo avanti Cristo – Punizione di Tarpea e Rito nunziale.

    Le basiliche Porcia e Sempronia furono sostituite dalla Giulia, costruita per ordine di Cesare e terminata da Augusto. Inoltre sotto Cesare si ebbe un radicale spostamento della Curia Giulia, che al posto dell’antico rituale orientamento secondo i punti cardinali, venne orientata verso gli assi del contiguo Foro di Cesare. La Curia era una sorta di templum, era cioè di un’area ritualmente delimitata dagli auguri, e quindi orientata secondo i punti cardinali, come testimoniano, oltre agli scrittori antichi, i resti conservati. Deve il suo nome alle assemblee dei “curiati”, cioè dei cittadini ponderati in base al censo, che si svolgevano nel Comizio; qui si affacciava la prima curia di Roma, la Curia Hostilia, edificata secondo la leggenda da Tullo Ostilio, terzo re di Roma. Dopo essere stata danneggiata da un incendio nel 52 avanti Cristo venne restaurata. Ma come detto sopra, sarà Giulio Cesare a dare inizio ai lavori di realizzazione del Foro di Cesare che interessarono tutta quest’aerea: sia i Rostra che la Curia vennero costruiti in posizione più scenografica, con impianto più monumentale. L’edificio fu terminato da Augusto il 28 agosto del 29 avanti Cristo. Restaurata sotto Domiziano nel 94, venne rifatta di nuovo da Diocleziano, in seguito all’incendio del 283 durante il regno dell’imperatore Carino. Nella Curia si trovava anche l’altare della Vittoria.

    Roma, 20 febbario 2019