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  1. Non solo Caravaggio. Alla scoperta dei capolavori di Santa Maria del Popolo

    Strano destino quello della meravigliosa basilica di Santa Maria del Popolo: ospitare una sublime e ineguagliabile rassegna di storia dell’arte italiana ed essere visitata da migliaia di turisti solo per i due capolavori di Michelangelo Merisi da Caravaggio, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, senza dimenticare l’Assunzione della Vergine di Annibale Carracci nella stessa cappella.

    Cappella Cerasi – Santa Maria del Popolo

    Ma, in vero, all’interno di questa chiesa posta all’ingresso Nord dell’Urbe, si possono ammirare opere di Raffaello, Gian Lorenzo Bernini, Sebastiano del Piombo, Andrea Bregno, Baccio Pontelli, Pinturicchio, Bramante, Francesco Salviati, Alessandro Algardi, Andrea Sansovino, Domenico Fontana, Carlo Maratta, Giuseppe Valadier.
    Questo edificio, che ha sempre avuto un ruolo centrale nelle vicende storiche della Città Eterna, fu costruita sulla tomba dell’imperatore Nerone, ospitò Martin Lutero nel suo soggiorno a Roma e conserva l’organo dove suonò il giovane Mozart. Insomma, un luogo e una storia straordinari.
    Il nucleo più antico della basilica, letteralmente inglobato nelle successive trasformazioni, è costituito dall’oratorio dedicato a Maria, costruito per volere del papa Pasquale II nel 1099.
    La tradizione vuole che Pasquale II fece costruire l’oratorio rispondendo alle richieste del popolo che voleva segno che esorcizzasse i luoghi infestati da streghe e diavoli che si davano appuntamento sulla tomba di Nerone e rendevano la vita ed il passaggio difficile ed insicuro.
    La legenda narra che Pasquale II abbia sognato Maria e che sia stata proprio la Madonna a dirgli di sradicare il pioppo, populus, sotto cui era seppellito Nerone, riesumarne i resti, bruciarli, disperderli nel Tevere ed edificare in quel luogo un oratorio a Lei dedicato.

    Alberici – Incisione del 1600 che riporta la leggenda medievale sulla fondazione del sogno di Pasquale II

    Pasquale II d’altra parte non era estraneo ai disseppellimenti. Aveva fatto altrettanto a Civita Castellana, dove aveva fatto disseppellire i resti di Clemente III e li aveva dispersi nel Tevere perché la tomba dell’antipapa era diventato oggetto di culto della popolazione locale, poiché si era diffusa la voce che da essa trasudasse un misterioso liquido profumato, attraverso il quale si potevano ottenere grazie e miracoli.
    Ma questa è un’altra storia.
    La legenda medievale legata alla fondazione della basilica di Santa Maria del Popolo ha un fondo di verità. Nell’immediatezze dell’oratorio, sulle prime propaggini del Pincio, sorgeva infatti il mausoleo dei Domizi Enorbarbi, la gens di Nerone, ed effettivamente l’odiato imperatore qui fu seppellito così come Svetonio ci riporta:
    Per i suoi funerali, che costarono duecentomila sesterzi, lo si avvolse nelle coperte bianche, intessute d’oro, di cui si era servito alle calende di gennaio. I suoi resti furono tumulati dalle sue nutrici Egloge e Alessandria, aiutate dalla sua concubina Acte, nella tomba di famiglia dei Domizi, che si scorge dal Campo di Marte sulla collina dei Giardini. Nella sua tomba fu collocato un sarcolago di porfido sormontato da un altare di marmo di Luni e circondato da una balaustra di pietra di Taso.

    Madonna in Trono con Bambino e Santi – Pinturicchio – Cappella Basso Della Rovere – Santa Maria del Popolo

    I motivi per costruire qui l’oratorio e dedicarlo a Maria pare, più realisticamente, che fossero altri. Proprio quando Pasquale II fu eletto papa, il 13 agosto del 1099, giunse a Roma la notizia della vittoria della Prima Crociata e che Gerusalemme era stata conquistata.
    Circa il nome della basilica non è ancora del tutto chiaro se quel complemento di specificazione “del Popolo” sia da intendersi un derivato dalla parola latina “populus”, il pioppo che pare fosse sulla tomba di Nerone, o sia da ricollegare al fatto che Pasquale II ebbe l’idea, dispose la costruzione dell’oratorio, ma il finanziatore dell’opera fu nella realtà il comune di Roma, e quindi, in ultima analisi, il popolo romano.
    L’iniziale cappella fu ampliata tra il 1227 e il 1241 da Gregorio IX, e poi definitivamente ingrandita e modellata nella sua forma attuale da Baccio Pontelli e Andrea Bregno per Sisto IV della Rovere. Bramante prolungò l’abside e infine Bernini, al momento di ornare la porta attigua, all’epoca di Alessandro VII Chigi, diede un’impronta barocca alla chiesa quanto alla facciata. A queste aggiunse le cornici ricurve laterali.

    Assunzione della Vergine – Pinturicchio – Cappella Basso Della Rovere – Santa Maria del Popolo

    Comunque la facciata resta un efficace esempio d’architettura del primo Rinascimento, con un ordine superiore a unica campata, dominata da un rosone e coronata da un timpano, mentre l’ordine inferiore a paraste su alto zoccolo è diviso in tre campate corrispondenti ai portali. Quello di centro è sormontato da un timpano e ornato da un rilievo della scuola di Andrea Bregno, raffigurante la Vergine. Quelli laterali sono sormontati da finestre centinate.
    L’interno è diviso in tre navate da fasci di robusti pilastri e semi colonne in pietra che reggono ampie arcate la cui sommità, all’epoca del restauro barocco del Bernini, avvenuto tra 1655 e il 1609, fu elegantemente impreziosita da statue in gesso disposte in coppie e raffiguranti Sante.
    Nelle navate laterali si aprono ampie cappelle che sono veri e propri scrigni di opere d’arte. La Cappella Basso Della Rovere, prima a destra, con le pitture del Pinturicchio Storie di San Girolamo e Adorazione del Bambino, con le tombe dei nipoti di Sisto IV, i cardinali Cristoforo e Domenico della Rovere eseguiti da Andrea Bregno, con la Madonna di Mino da Fiesole e il sepolcro del cardinal De Castro di Francesco da Sangallo.

    Immacolata Concezione tra Santi – Carlo Maratta – Cappella Cybo – Santa Maria del Popolo

    La Cappella Cybo, seconda a destra, è dedicata a San Lorenzo e fu fondata agli inizi del 1500 da Lorenzo Cybo, nipote di Innocenzo III. Al tempo della sua fondazione fu completamente affrescata da Pinturicchio, mentre gli artisti della bottega di Andrea Bregno si occuparono di realizzare il resto della decorazione. Oggi la cappella può essere ammirata dopo il rifacimento voluto dal cardinale Alderano Cybo e realizzato tra il 1680 e il 1687, rinnovamento che fu apportato da Carlo Fontana. La cappella è a croce greca, rivestita di marmi verdi, ospita sull’altare un olio su muro di Carlo Maratta, l’Immacolata Concezione tra i Santi, che ebbe un tale successo da essere replicato in mosaico e posto sull’altare del transetto destro di Sant’Ambrogio e San Carlo al Corso.
    Sul fondo della cappella Cybo trovano posto i due monumenti funebri dei cardinali Lorenzo e Alderano Cybo opere di Francesco Cavallini, autor ìe anche degli angeli in bronzo dorato che sostengono la mensa dell’altare.

    Nascita della Vergine – Sebastiano del Piombo – Cappella Chigi –

    Proprio di fronte alla cappella Cybo si trova la cappella Chigi. Essa fu concessa da papa Giulio II della Rovere al grande banchiere Agostino Chigi che chiamò Raffaello a realizzare il progetto. I lavori iniziarono nel 1513, proseguirono poi sotto la guida del Lorenzetto a causa della sopraggiunta morte di Raffaello, ma si protrassero, con molteplici interruzioni, fino al seicento tanto che la cappella venne completata dal Bernini tra il 1652 e il 1656.
    Nella cupola è possibile ammirare i mosaici realizzati su disegno di Raffaello, mentre sull’altare è collocato un affresco a olio su blocchi di peperino di Sebastiano dal Piombo, la Nascita della Vergine. Le sculture sono in parte del Lorenzetto e di Raffaello da Montelupo, mentre Abcuc e l’angelo Daniele e il leone sono del Bernino, così come è Bernono a terminare i monumenti funebri di Agostino e Sigismondo Chigi conferendo loro la forma di piramide.
    Nel presbiterio, sull’altar maggiore, è posta la tavola bizantina attribuita, dalla leggenda, a san Luca, raffigurante la Madonna del Popolo.

    Altare maggiore – Santa Maria del Popolo

    In realtà la tavola lignea è del XIII secolo, è attribuita al Maestro di San Saba e fu collocata sull’altare maggiore di Santa Maria del Popolo per volere di Gregorio IX. Sull’arcone stucchi dorati raccontano la leggenda della fondazione della chiesa così come la descrive la tradizione medievale.
    Nello spazio deputato al coro, dietro l’altare, sono i due capolavori di Andrea Sansovino: i sepolcri dei cardinali Girolamo della Rovere e Ascanio Sforza. Questi due sepolcri a foggia di arco trionfale rappresentano il punto di passaggio tra due stili, tra il quattrocento e il cinquecento. In entrambi i sepolcri, il defunto è raffigurato dormiente.
    L’ambiente del coro fu interamente progettato e realizzato da Bramante che chiamò a Roma Guillaume de Marcillat perché realizzasse le preziose vetrate dipinte a grisaille.
    Bramante realizzò l’opera su commissione del cardinale Ascanio Sforza in due fasi: una più antica corrispondente all’arcone a lacunari e all’abside con catino a conchiglia databile ai primi anni del suo soggiorno romano, 1500 circa, e una più tarda, riferibile al pontificato di Giulio II, verso il 1505-1509, in cui la volta a crociera originaria fu trasformata in volta a vela. Gli affreschi della volta sono del Pinturicchio.

    Sepolcro di Giovanni Battista Gilseni – Santa Maria del Popolo

    La cupola della chiesa è probabilmente la prima costruita a Roma, dopo il modello di tutte, rappresentato dal Pantheon. Accanto alla porta principale sta un curioso monumento funebre con il ritratto dipinto del defunto e una marmorea immagine della sua decomposizione, con il motto “neque hic vivus, neque illic mortuus”, cioè «Né qui vivo, né là morto».

    Roma, 29 gennaio 2017

  2. La lingua dei Romani. Il più vistoso monumento alla civiltà della parola umana

    La lingua più parlata al mondo? Il latino. “Non solo quel che resta del latino ecclesiastico né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari” ha scritto l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis.

    Iscrizione dell’edicola dei suonatori di strumenti in bronzo

    “Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di parlanti latino”.
    A questa lingua bellissima sono stati dedicati molti libri non specialistici. Ad esempio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini, professore di letteratura italiana all’Università di Oxford. Secondo lo studioso, il latino è, molto semplicemente, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo. In latino, un pensatore rigoroso e tragicamente lucido come Lucrezio ha analizzato la materia del mondo; il poeta Properzio ha raccontato l’amore e il sentimento con una vertiginosa varietà di registri; Cesare ha affermato la capacità dell’uomo di modificare la realtà con la disciplina della ragione; in latino è stata composta un’opera come l’Eneide di Virgilio, senza la quale guarderemmo al mondo e alla nostra storia di uomini in modo diverso. Gardini incoraggia il lettore a dialogare con una civiltà che non è mai terminata perché giunge fino a noi, e della quale siamo parte anche quando non lo sappiamo. Una lingua, quella latina, tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità con la forza che solo le cose “inutili” sanno meravigliosamente esprimere.

    Iscrizione a Fannius, un membro degli Ubii, le guardie del corpo germaniche dell’imperatore Nerone

    Il latino ha rappresentato durante gli ultimi tremila anni la più autentica espressione della nostra civiltà. È stata non solo la lingua dei nostri antenati Romani, come Plauto e Terenzio, Cicerone o Virgilio, Seneca e Plinio, oppure ancora di Stazio e Quintiliano, Marziale o Tacito, Svetonio e Gellio, o più tardi di Ausonio e Claudiano, Ammiano Marcellino, Ambrogio o Agostino, ma con autori come Boezio e Cassiodoro, Gregorio di Tours ed Isidoro di Siviglia, il latino riuscì a sopravvivere alla caduta dell’Impero Romano, e poté rimanere in uso durante tutto il Medioevo, come lingua del diritto, della filosofia e della teologia, avendo il suo apice espressivo in Tommaso d’Aquino.
    Il latino risorse con una nuova forza nel Rinascimento, nella straordinaria fioritura delle arti e delle scienze, come mezzo eterno di comunicazione tra tutte le nazioni, con accenti e suoni tanto diversi come nell’olandese Erasmo, il polacco Copernico, il francese Cartesio, l’inglese Newton, il tedesco Leibniz o lo svedese Linneo, tutti uniti nella comune lingua, il latino.
    A dispetto della ricchezza della nostra cultura millenaria, molti sono stati portati a credere che il latino sia morto con l’ultimo dei Romani. Non è esattamente così, poiché essa è “una lingua che ancora ci parla”, per dirla con le parole di Eva Cantarella, storica dell’antichità e del diritto antico.
    Il Museo Nazionale Romano, di cui le Terme di Diocleziano fanno parte, raccoglie un patrimonio unico al mondo con circa 10.000 iscrizioni, che accompagnano il lungo cammino della civiltà romana dalla nascita della città di Roma fino alla fine dell’impero e rappresentano oggi un potente mezzo per illustrare gli aspetti sociali, politico-amministrativi, economici e religiosi del mondo antico. La raccolta, formata da collezioni storiche, come quelle del Museo Kircheriano, e dai reperti provenienti dai grandi interventi per la costruzione di Roma Capitale, si arricchisce ancora oggi dei materiali rinvenuti nel territorio dell’area comunale romana.

    Iscrizione funeraria di Gaio Pompeio Procolo

    Le iscrizioni sono della natura più varia. Accanto a quelle legate al mondo funerario, come quella per Gaio Pompeio Procolo, terzo figlio di Gaio, che apparteneva dalla XVIII Legio dell’esercito romano dove ricopriva, come ci informa l’epigrafe, il ruolo di praefectus fabrum, il cui compito era di comandare e coordinare il genio militare, possiamo ricordare quella molto particolare che è l’orazione funebre per la liberta Allia Potestas. La lastra fu rinvenuta in più parti durante gli scavi per un parcheggio in un’area presso Via Pinciana alla fine dell’Ottocento, un’area che appariva occupata da un vasto sepolcreto che si estendeva a raggiungere gli Horti Sallustiani.
    La datazione del testo è controversa ma da una serie di considerazioni, non ultima il fatto che nel testo stesso si dice Allia Potstas fu cremata, l’ipotesi più accreditata suggerisce una datazione non successiva alla fine del II secolo o all’inizio del III secolo dopo Cristo. L’autore del testo, generalmente riferito come Allio, dimostra una certa abilità compositiva, dimostra di avere una certa abilità nell’uso dell’esamero e del pentamero, e di conoscere Ovidio, della cui influenza è pervaso tutto il poema.
    Nel testo si descrivono innanzitutto le virtù di Allia che era “forte, morigerata, parsimoniosa, irreprensibile, custode fidatissima, curata in casa, fuori casa curata quanto basta, ben nota a tutti, era la sola che potesse badare a tutte le faccende; faceva parlare poco di sé, era sempre immune da critiche.

    Poema sepolcrale dedicato ad Allia Potestas

    La prima a scendere dal letto, per ultima vi andava a dormire dopo aver posto in ordine ogni cosa; mai senza ragione la lana si allontanò dalle mani, nessuna le fu superiore nel rispetto e nei sani costumi”. Quindi segue una descrizione della donna: carnagione chiara, occhi belli, capelli dorati, seni piccoli e gambe tanto belle che al confronto Atlanta avrebbe dovuto nascondere le sue. E poi i versi che hanno forse maggiormente attratto la critica perché Allia Potestas “mentre era in vita mantenne l’affetto tra due giovani amanti, cosicché divennero simili all’esempio di Pilade e di Oreste: una sola casa li accoglieva, avevano un’unica anima. Dopo la sua morte ora quegli stessi invecchiano separati l’uno dall’altro; ciò che una tale donna costruì, ora parole offensive danneggiano”.
    L’autore del testo è triste ed amareggiato per la morte di Allia. Spera che questi versi possano essere un dono gradito alla defunta “egli, che vive senza di te, è come se vedesse da vivo i propri funerali. Al braccio porta di continuo il tuo nome, unico modo per trattenerti con sé, unita all’oro, POTESTAS ….. In luogo tuo, per mia consolazione, tengo un’immagine, che venero religiosamente e molte ghirlande le sono offerte, quando verrò da te, (la tua statua) mi seguirà, compagna (nel sepolcro)”.
    C’è un’iscrizione proveniente dall’edicola dei suonatori degli strumenti in bronzo che si trovava nell’area del santuario, attribuito alle Curiae Vetres, del Palatino dopo la sua sistemazione in età augustea. In questa fase il santuario viene corredato da una platea di accesso e da un’ampia gradinata in travertino che saliva verso il Palatino. In questi spazi i suonatori di strumenti in bronzo, impiegati nelle principali cerimonie pubbliche, cominciano ad innalzare statue ai principi, da Augusto a Tiberio, a Claudio a Nerone e a sua madre Agrippina.
    Per ospitare queste statue verrà costruita un’edicola, con fronte colonnato, addossata alla parete del temenos del santuario, da cui proviene l’iscrizione conservata.

    Forma Urbis di Via Anicia

    Tra i reperti più interessanti, un frammento di mappa catastale della città di Roma, risalente alla prima metà del II secolo dopo Cristo, rinvenuto a Trastevere, nei pressi della via Anicia. Insieme alla Forma Urbis Severiana, la celebre grande pianta dell’età di Settimio Severo, questo frammento è uno dei pochi e preziosi esemplari di planimetrie antiche. In scala 1:240, riproduce la zona del Campo Flaminio, lungo il Tevere, nei pressi dell’attuale Piazza delle Cinque Scole: sono riconoscibili, grazie all’iscrizione, il Tempio dei Dioscuri e una fila di tabernae su cui è iscritto il nome dei proprietari: Cornelia e i suoi soci.
    Alcune iscrizioni forniscono poi altre informazioni sulla vita quotidiana della Roma antica. Ad esempio una delle più singolari è riportata alla base del ritratto a figura intera di un soldato dal corpo tozzo e massiccio, posto all’interno di una nicchia delimitata da una colonna.
    L’abbigliamento del soldato è piuttosto semplice, privo di elmo e di corazza, e può essere considerato come la tenuta di riposo del pretoriano: una semplice tunica lunga fino al ginocchio, stretta subito sotto la vita da una cinta, il cingulum, con grande fibbia e il mantello, sagum, fissato sulla spalla destra. Una corta spada pende dal balteus, la speciale cintura militare romana qui portata a tracolla, mentre nella mano destra è stretto il pilum, una sorta di giavellotto che costituiva l’armamento tipico del pretoriano e che, in questo caso è raffigurato come una lunga asta a spirale. L’iscrizione riporta il nome del pretoriano, il numero della coorte pretoria in cui egli aveva militato, la IX, e il nome del suo centurione.

    Collare da schiavo

    Un’altra testimonianza particolare è rappresentata dai collari che spesso cingevano il collo degli schiavi, in modo da evitare la marchiatura a fuoco dell’uomo.
    Quella conservata nel Museo Epigrafico, di provenienza sconosciuta, ma databile tra il IV e il VI secolo dopo Cristo, comprende anche una medaglietta che riporta: “Fugi, tene me, cum revocuveris me domino meo Zonino, accipis solidum”.
    Ovvero: Sono fuggito, quando mi riporterai dal mio padrone Zonino, riceverai un solido.
    La somma di un solido rappresenta la ricompensa, modesta, prevista dalla legge èer la restituzione di uno schiavo fuggitivo.

    Roma, 22 gennaio 2017

  3. Passeggiando per l’Appia Antica. Da Porta San Sebastiano alla Chiesa di San Nicola.

    Dopo aver visitato il IV e V miglio e la Villa dei Quintili, l’oggetto di questa nuova passeggiata è il primo tratto del Parco dell’Appia Antica: quello che si estende da Porta San Sebastiano alla Chiesa di San Nicola.

    Porta San Sebastiano e la via Appia

    Porta San Sebastiano e la via Appia

    Un’altra porzione di bellezza assoluta che, nella sua interezza, copre oltre sei chilometri, raggiungendo alla fine anche il Grande Raccordo Anulare.
    Il Parco, completamente restaurato, è stato riportato, da alcuni anni, alla sua natura originale. Conserva per ampi tratti l’originale basolato, ai lati sono stati ricostruiti i marciapiedi romani (crepidini) e i muretti che definivano i limiti (macere); lungo il percorso si trovano importanti resti di monumenti funebri, torri e lapidi ombreggiati da grandi pini e cipressi secolari.
    Si parte da Porta San Sebastiano e prosegue verso i Sepolcri di Geta e Priscilla, la Chiesa “Domine, quo vadis?”, i Colombari dei Liberti di Augusto, l’Ipogeo di Vibia, le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di san Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
    Ecco, allora, Porta San Sebastiano: il nome originario, che conservò a lungo, era Porta Appia perché da lì passava la Via Appia, la regina viarum, che cominciava poco più indietro, dalla Porta Capena delle Mura Serviane. Nel medioevo sembra fosse chiamata anche “Accia” (o “Dazza” o “Datia”), la cui etimologia, alquanto incerta, sembra però legata al fatto che lì vicino scorresse il fiumicello Almone, chiamato “acqua Accia”. Un documento del 1434 la menziona come “Porta Domine quo vadis”. Solo dopo la metà del XV secolo è finalmente attestato il nome che conserva ancora oggi, dovuto alla vicinanza alla basilica e alle catacombe di San Sebastiano. Le torri della porta ospitano, oggi, il Museo delle Mura.

    Sepolcro di Geta

    Sepolcro di Geta

    Oltrepassato il cavalcavia ferroviario, posto prima della Chiesa del “Domine, quo vadis?”, si erge un alto monumento funerario di epoca romana, non visitabile perché di proprietà privata. Il sepolcro è tradizionalmente attribuito a Geta, il figlio di Settimio Severo ucciso da Caracalla nel 212. Lo storico latino Sparziano, infatti, dichiara che la tomba del giovane imperatore si trovava in questa zona, sulla destra della Via Appia per chi tornava a Roma. Nel Medioevo, una piccola casa fu costruita in cima al mausoleo, del quale rimane solo il nucleo cementizio spogliato dell’originario rivestimento in blocchi di marmo.
    A seguire, il sepolcro di Priscilla: i ruderi del monumento sono celati tra due casali moderni, uno, prospiciente la via Appia, era già conosciuto dal Canina come “Osteria dell’Acquataccio”, l’altro nasconde l’antico ingresso al sepolcro. Di fronte alla chiesa del “Domine quo vadis”, presso il bivio tra la via Appia antica e la via Ardeatina, parzialmente nascosto da due edifici che insistono sulle sue strutture, sorge un antico sepolcro romano, del tipo a tumulo su basamento quadrangolare, comunemente identificato, sulla base di rinvenimenti epigrafici, con quello che T. Flavio Abascanto, liberto di Domiziano. Nelle vicinanze del fiume Almone, il liberto possedeva dei terreni ed un edificio termale poi trasformato in sepolcro per la moglie Priscilla prematuramente scomparsa. La giovane donna, come ricorda il poeta Stazio, fu imbalsamata e non cremata secondo l’uso funerario dell’epoca. L’interno del sepolcro è stato fatto oggetto di vari interventi edilizi: fino a pochi decenni or sono i locali venivano usati per la stagionatura dei formaggi e le strutture lignee funzionali a tale uso, si addossano ancora oggi alle strutture murarie. Dopo i sepolcri di Geta e di Priscilla si erge la piccola chiesa del “Domine, quo vadis?”. Sul luogo della chiesa, secondo la tradizione, Gesù sarebbe apparso a Pietro, l’apostolo che lasciava Roma per sfuggire al martirio. Alla domanda di Pietro: «Signore, dove vai?», Gesù avrebbe risposto: «Vado a Roma per farmi nuovamente crocifiggere». A quel punto, Pietro pentito avrebbe rifatto ritorno a Roma, andando incontro al suo martirio e facendosi crocifiggere sul colle Vaticano. La chiesa risale al secolo IX, riedificata nel XVI e poi di nuovo nel XVII secolo, quando il cardinale Francesco Barberini ne fece rifare la facciata. La chiesa è detta anche in palmis poiché in essa è conservata, in copia, una pietra votiva con le due orme dei piedi, credute di Cristo.
    Da “Domine, quo vadis?” ci si porta ai Colombari dei Liberti di Augusto, ormai inglobati all’interno del ristorante Hostaria Antica Roma. La loro struttura è composta da tre grandi ambienti, in origine coperti a volta, le cui pareti ospitano le nicchie che contenevano le olle (i vasi con le ceneri). Un quarto ambiente, sopra quello centrale, era utilizzato invece per i riti funebri.

    Colombari dei Liberti di Augusto

    Colombari dei Liberti di Augusto

    I colombari pare ospitassero circa tremila loculi, questo fa di essi uno dei più grandi sepolcreti della zona, e sono tantissime le iscrizioni funerarie ritrovate, tra le quali quella di tale Caesaris Lusor descritto come mutus argutus imitator, in pratica un…mimo.
    Dopo i Colombari, l’itinerario conduce all’Ipogeo di Vibia, un cimitero sotterraneo pagano, situato all’interno della seicentesca Villa Casali, sul lato sinistro della via Appia Antica. Esso è costituito da otto distinti ipogei scavati a quote differenti, databile tra il III e gli inizi del V secolo d.C, che prende il suo nome da Vibia che qui vi era sepolta insieme al marito Vincenzo.
    Procedendo ancora, il tratto dell’Appia Antica mostra i suoi complessi più imponenti e conosciuti. Vale a dire le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di San Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
    Le catacombe di San Callisto sorsero verso la metà del secondo secolo e sono tra le più grandi e importanti di Roma. Si trovano sulla Via Appia Antica. In esse trovarono sepoltura decine di martiri cristiani, tra cui 16 pontefici. Prendono nome dal diacono Callisto, che, all’inizio del III secolo, fu preposto da Papa Zefirino all’amministrazione del cimitero. Fu così che il luogo divenne il cimitero ufficiale della Chiesa di Roma. Vi furono probabilmente sepolti lo stesso papa Zefirino, divenuto successivamente santo, e il giovane martire dell’Eucarestia, Tarcisio, anche egli divenuto santo. Il cimitero sotterraneo consta di diverse aree. Le Cripte di Lucina e la regione detta dei papi e di Santa Cecilia sono i nuclei più antichi.
    Al terzo miglio, sul luogo dove secondo la tradizione furono temporaneamente custoditi, in tempo di persecuzioni, i corpi degli apostoli Pietro e Paolo, sorge la basilica di San Sebastiano, oggi dedicata a questo popolare – e assai rappresentato – santo narbonese ma in origine nota come basilica apostolorum.

    Basilica di San Sebastiano fuori le Mira - Soffitto a cassettoni (particolare)

    Basilica di San Sebastiano fuori le Mira – Soffitto a cassettoni (particolare)

    Da questo luogo, citato nelle fonti antiche come ad catacumbas (forse per la presenza di avvallamenti o fosse, kymbas in greco), deriverebbe per estensione anche il termine “catacomba”. In effetti la basilica costituisce tuttora il fulcro della più ampia e conosciuta area di cimiteri paleocristiani di Roma. Nella prima metà del IV secolo ebbe inizio la costruzione della chiesa, a navata centrale racchiusa da un deambulatorio, con ricche decorazioni e pavimento completamente lastricato di tombe. Nel V secolo la basilica è già sicuramente intitolata a San Sebastiano ma nell’826, per il fondato timore d’incursioni saracene, il corpo del santo fu rimosso e traslato in San Pietro dove rimase fino al 1218, quando Onorio III Savelli (1216-1227) lo ricondusse solennemente nella chiesa a lui dedicata. La basilica mostra oggi l’aspetto che le deriva dagli interventi promossi agli inizi del XVII secolo dal cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V (1605-1621). Iniziati nel 1608, i lavori furono affidati a Flaminio Ponzio e proseguiti da Giovanni Vasanzio, autore della facciata terminata nel 1613. Al pontificato di Clemente XI Albani (1700-1721) si deve la costruzione del sacello del SS. Sacramento (o Cappella Albani). La facciata è scandita dalle colonne ioniche binate del portico, a tre archi, cui corrispondono le paraste dell’ordine superiore. Nell’interno, a navata unica, si segnala il soffitto ligneo del Vasanzio con stemmi del cardinale Borghese e di Gregorio XVI Cappellari (1831-1846), che nel XIX secolo promosse il restauro dell’edificio. Nella Cappella delle reliquie (1625) si conservano le impronte ritenute dei piedi di Cristo al momento del “Domine quo vadis?”, una delle frecce che colpirono San Sebastiano e la colonna del martirio di quest’ultimo. La Cappella Albani (1706-1712), a pianta quadrata con abside e cupola, si presenta in ricche forme barocche ed è decorata con opere di Pier Leone Ghezzi e Giuseppe Passeri. Nella Cappella di San Sebastiano, progettata da Ciro Ferri nel 1672, si segnala, sotto l’altare, la statua giacente di San Sebastiano, capolavoro di Antonio Giorgetti (1671-1672) su disegno di Gian Lorenzo Bernini.

    San Sebastiano - Antonio Giorgetti

    San Sebastiano – Antonio Giorgetti

    Da una scala situata in quella che, prima della ristrutturazione seicentesca, era la navata destra della chiesa si può scendere al vasto complesso delle catacombe di San Sebastiano.
    Dai martiri cristiani si torna ai luoghi e ai personaggi della Roma Classica: il complesso massenziano, una delle aree archeologiche più suggestive della campagna romana è costituito da tre edifici principali: il palazzo, il circo ed un mausoleo dinastico, progettati in una inscindibile unità architettonica per celebrare l’imperatore Massenzio, lo sfortunato avversario di Costantino il Grande nella battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C.
    Lo schema del circo abbinato al palazzo imperiale, già noto in altre residenze tetrarchiche, è qui arricchito dalla presenza di un mausoleo dinastico, più noto come Tomba di Romolo (figlio di Massenzio, morto giovanissimo), che diventa il nucleo centrale dell’intero complesso. I tre edifici sono stati costruiti assecondando, molto saggiamente, la naturale orografia del territorio al fine di evitare al massimo grossi lavori di sbancamento e colmatura e di sfruttarne le caratteristiche: così il palazzo venne edificato sui resti delle costruzioni precedenti ed il circo nell’avvallamento che dall’Appia Antica risale gradualmente verso l’attuale via Appia Pignatelli. Si può ragionevolmente supporre che l’area, già parte integrante del Triopio (promontorio) di Erode Attico, fosse stata inglobata come altre zone del suburbio nel demanio imperiale. Con la sconfitta di Massenzio e il successivo promulgamento della pace religiosa, è verosimile che le costruzioni massenziane da Costantino passassero alla Chiesa di Roma e che quindi, almeno a partire dal VI secolo facessero parte del Patrimonium Appiae.
    Per secoli le informazioni sull’area risultano sempre più lacunose ed i monumenti sempre più suddivisi tra proprietari diversi; nell’Ottocento l’area del circo e successivamente quella del mausoleo, vennero acquisite dai Torlonia duchi di Bracciano e nell’ambito di questa amministrazione, venne annessa alla più vasta tenuta della Caffarella.
    La passeggiata giunge, subito dopo, al Mausoleo di Cecilia Metella, il monumento simbolo della via Appia Antica, noto e riprodotto fin dal Rinascimento al pari dei più celebri monumenti di Roma e oggetto di particolare attenzione da parte di archeologi, architetti, disegnatori e vedutisti.
    La tomba è stata costruita negli anni 30-20 a.C. in posizione dominante rispetto alla strada, proprio nel punto in cui si è arrestata la colata di lava leucititica risalente a circa 260.00 anni fa, espulsa dal complesso vulcanico dei Colli Albani.
    Si tratta di una tomba monumentale eretta per una nobildonna romana di cui si conoscono, grazie all’iscrizione ancora conservata, soltanto alcuni suoi gradi di parentela. Il padre era Quinto Cecilio Metello, console nel 69 a.C. e che tra il 68 e il 65 conquistò l’isola di Creta da cui gli derivò l’appellativo Cretico; il marito era, con ogni probabilità, Marco Licinio Crasso distintosi al seguito di Cesare nella spedizione in Gallia e figlio del celebre Crasso, membro del primo triumvirato insieme a Cesare e Pompeo.

    Tomba di Cecilia Metella - Giovan Battista Piranesi

    Tomba di Cecilia Metella – Giovan Battista Piranesi

    L’imponente tomba va pertanto interpretata sia come omaggio alla defunta che come una forma di celebrazione delle glorie, delle ricchezze e del prestigio della famiglia committente.
    La sommità del mausoleo si presenta oggi coronata da una sopraelevazione in muratura di blocchetti di peperino che conserva una merlatura di tipo ghibellino relativa alle modificazioni edilizie realizzate dalla famiglia Caetani per trasformare il sepolcro nel torrione principale del loro castello, inserito nel più ampio castrum Caetani.
    Nel 1299 il mausoleo di Cecilia Metella fu dato da papa Bonifacio VIII alla sua famiglia – i Caetani – che vi fece costruire il castello circondato da mura e torri merlate, i cui resti sono ancora visibili addossati al mausoleo. Sul lato opposto della via Appia vi sono i resti di San Nicola a Capo di Bove, un’antica chiesa di architettura ogivale, spoglia però del tutto dei suoi ornamenti e priva di tetto. Il nome a capo di bove sembra derivare dal nome con cui nel medioevo erano chiamati i fregi a forma di testa di bue che ornavano parte del mausoleo. In base alle testimonianze di Tommaso da Celano la chiesa fu costruita, all’interno del cortile del castello dei Caetani, all’inizio del XVI secolo dall’architetto napoletano Masuccio II, già al servizio degli angioini.

    San Nicola a Capo Bove

    San Nicola a Capo Bove

    L’Armellini riporta la seguente nota, tratta dagli Archivi vaticani, relativi alla costruzione della chiesa: Franciscus card. S. Mariae in Cosmedin in loco qui dicitur Caput Bovis construxit castrum cum ecclesia in honorem b. Nicolai in dioecesi Albanensi cui Bonifacius VIII concessit iura parochialia et patronatum sibi et suis successoribus.
    La chiesa è importante perché si tratta di uno dei rari esempi di gotico sacro in Roma. L’interno si presenta completamente spoglio, con un’abside sporgente e, come detto, senza copertura.

  4. L’antica spiaggia e la Sinagoga di Ostia

    Ostia Antica è tra le città romane portate alla luce una delle più enigmatiche. Alcuni degli enigmi riguardano la sua fondazione, che secondo la tradizione risalirebbe ad Anco Marzio.

    Ricostruzione della città di Ostia in rapporto al Tevere e al mare

    Ricostruzione della città di Ostia in rapporto al Tevere e al mare

    La narrazione della fondazione mitica della città di Roma vuole infatti che Enea, una volta sbarcato presso la foce del Tevere, vi abbia fondato, a distanza di 4 stadi (circa 740 metri), una città a cui avrebbe dato il nome di Troia. Anco Marzio per celebrare questo sbarco avrebbe a sua volta fondato, nei pressi della foce sulla riva sinistra, la città di Albula nel 633 avanti Cristo e avrebbe costruito la relativa strada che la collegava a Roma. Strada che oggi indichiamo con il nome di Via Ostiense, e che è il risultato della fusione di alcuni antichi tracciati percorsi già dall’uomo primitivo nell’età del bronzo per raggiungere la linea di costa e approvvigionarsi di sale.
    In zona ci sarebbero state delle saline già in epoca antichissima. La produzione e il commercio del sale in questa zona sarebbero poi cadute sotto il controllo degli Etruschi di Veio sulla riva destra, e dei Romani sulla riva sinistra, attraverso la città di Albula fondata da Anco Marzio.
    Il nome della città che Anco Marzio avrebbe fondato d’altra parte deriva direttamente dall’antico nome del Tevere: Albula appunto.
    L’origine del nome non è chiaro. Probabilmente è legato al colore chiaro delle acque del fiume oppure l’etimologia sarebbe da ritrovare nelle lingue parlate dalle antiche popolazioni indoeuropee, le quali indicavano con la parola “al” l’acqua.
    Cicerone, che narra questa fondazione della città di Ostia ad opera di Anco Marzio, ci informa che l’etimologia del nome Ostia sarebbe ostium, parola latina che indica la foce del Tevere, ma gli archeologi non hanno trovato però alcuna traccia di questa Ostia del VI secolo avanti Cristo ed hanno ipotizzato che la città fondata da Anco Marzio fosse più distante da Ostia Antica, e che forse sia da identificare con la città di Ficana effettivamente conquistata da Anco Marzio.
    Ficana oggi si trova vicino ad Acilia a circa 20 km dall’attuale foce del Tevere all’Idroscalo, ma al momento della sua fondazione e vita, Ficana di fatto si trovava su un’altura (oggi ridotta a poco più di una collinetta) in posizione dominante sulla foce del Tevere. Proprio la sua posizione avrebbe portato alla conquista da parte dei Romani, all’epoca del regno di Anco Marzio, della città, abitata già in epoca del bronzo, e in quel momento in mano ai Prisci Latini.

    Trionfo di Furio Camillo - Francesco Salviati

    Trionfo di Furio Camillo – Francesco Salviati

    La continua azione di rimodellamento del Tevere, con l’avanzamento della linea di costa ed altri fenomeni correlati, avrebbero indotto più tardi la fondazione di una nuova città che coinciderebbe oggi con Ostia Antica. Qui i primi reperti che attestano la presenza di un vero e proprio insediamento ostiense nella posizione attuale, risalgono dalla fine del IV secolo avanti Cristo, periodo in cui si colloca la caduta di Veio (396 a.C.) per mano di Furio Camillo.
    Veio era una cittadina etrusca ricchissima che subito costituì un nemico da abbattere per le tribù latine dei Sette Colli che avevano fondato la città di Roma, perché in grado di controllare i traffici sulla riva destra del Tevere e il mercato del sale quel versante.
    L’interesse di Roma in questa zona costiera era legato quindi alla presenza delle saline e ai traffici reali e potenziali che si sarebbero potuti svolgere alla foce e lungo il Tevere. Per questo motivo il piccolo insediamento ostiense fu trasformato poco dopo la caduta di Veio in vero e proprio castrum, dotato di fortificazioni e di guardia militare, per difendere i nuovi territori conquistati e soprattutto le saline e i traffici.
    Un altro dei motivi che fanno di Ostia Antica una città enigmatica, per altro solo parzialmente portata alla luce, è che si tratta di una città che lega da subito il suo destino alla capacità e alla forza modellante del fiume Tevere e del mare.
    Queste due entità naturali avranno sul centro abitato effetti enormi, inducendo o almeno aiutando la trasformazione del piccolo castrum legato alle salina in città vivacemente commerciale, ricca, densamente abitata e successivamente in città abbandonata.
    Da luogo ameno, così come molte fonti letterarie ce la descrivono, a luogo oggetto di scorrerie abbandonato al suo lento declino dagli abitanti che, in pochi, si rifugiarono a vivere protetti da alte mura innalzate all’interno rispetto alla linea di costa. Gregoriopoli, protetta dall’ansa del Tevere sarà la roccaforte medievale da cui poi trarranno origine il Borgo e il Castello di Giulio II.

    Terme di Porta Marina - Ostia Antica

    Terme di Porta Marina – Ostia Antica

    Ma Ostia si contraddistingue, come ancora oggi le città costiere e portuali, per la sua multietnicità, attestata dalla presenza di antichissimi luoghi di culto provenienti da civiltà anche molto lontane. Qui genti provenienti da tutto il mondo conosciuto, che intrattenevano rapporti commerciali con Roma, trovavano conveniente fermarsi e fondare – questa è una delle ipotesi – vere e proprie comunità stabili, uffici di rappresentanza commerciali che avevano anche il carattere di ambascerie.
    Tra queste una delle comunità fu quella degli Ebrei. Essa era tanto numerosa da costruire in prossimità della spiaggia e lungo la via Severiana, la Sinagoga.
    Portata alla luce per la prima volta nel 1961, essa risale, nella sua parte più antica, al I secolo avanti Cristo ed è per questo considerata, per antichità, la seconda sinagoga d’Europa, essendo preceduta solo da quella di Delo che oggi è datata tra il 150 e il 128 avanti Cristo.
    La presenza della comunità ebraica ad Ostia sarebbe quindi antichissima e precederebbe anche le prime testimonianze ebraiche a Roma che risalgono al II secolo dopo Cristo.
    La sinagoga oggi è uno dei monumenti di Ostia Antica che si ergono con forza al di fuori di Porta Marina, insieme alle Terme e la cui presenza testimonia l’esistenza in questa parte della città di un vivace ed interessante insediamento urbano, in diretta continuità con quello che si iniziava subito al di là delle mura.

    Sinagoga di Ostia Antica

    Sinagoga di Ostia Antica

    Un insediamento urbano poco studiato, e che oggi si mantiene al di fuori dei percorsi più classici all’interno di Ostia Antica, ma che da sempre ha fatto i conti con l’attività modellante del mare e del fiume, come forse meglio testimonia la domus da cui proviene il famoso ambiente in opus sectile oggi esposto al Museo dell’Alto Medioevo.
    Il percorso che seguiremo nel corso della passeggiata parte dal Foro, il cuore di ogni città romana, si dirige verso la porta Marina e raggiunge la sinagoga indagando alcuni degli edifici più interessanti posti sul percorso e cercando di descrivere come la storia della città si adattò al modificarsi della linea di costa e all’azione non sempre benevola del Tevere.