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  1. Articolo

    Non risparmiò né Roma né il popolo

    Marta Sordi

    L’episodio dell’incendio di Roma del 64 dopo Cristo è uno degli episodi che si trova sospeso tra tradizione e storia reale, tra letteratura e pettegolezzo. Pubblichiamo su questo argomento un articolo di Marta Sordi comparso nel 2004 sul mensile 30Giorni. 

    Fatta eccezione per Tacito (Annales XV, 38), che accanto alla versione dell’incendio provocato dolosamente da Nerone (dolo principis) conosce anche la versione di coloro che attribuivano al caso (forte) l’incendio stesso, tutte le fonti antiche lo

    L’incendio di Roma – Robert Hubert.

    attribuiscono con certezza a Nerone, dal contemporaneo Plinio il Vecchio, che è probabilmente alla base della tradizione successiva (Naturalis historia XVII, 1, 5), all’autore senechiano dell’Octavia, a Svetonio (Nero, 38), a Dione (LXII, 16, 18). Scoppiato il 19 luglio del 64, l’incendio durò, secondo Svetonio, sei giorni e sette notti, ma riprese subito, partendo dalle proprietà di Tigellino e alimentando così i sospetti contro l’imperatore, e si protrasse ancora per tre giorni, come risulta da un’iscrizione (CIL VI, 1, 829, che dà la durata di nove giorni).
    I moderni tendono ormai a negare la responsabilità diretta di Nerone nell’incendio: tutte le fonti però sono d’accordo nel dire che furono viste persone che attizzavano l’incendio una volta che questo era iniziato.
    continua…

  2. ROMA BRUCIA! Il giallo dell’incendio di Nerone

    Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico fu il quinto imperatore della dinastia giulio-claudia. Successe al padre adottivo Claudio nel 54 e governò circa quattordici anni, fino al suicidio, avvenuto all’età di 30 anni.

    Nerone a Baia – Jan Styka

    Divenuto imperatore a 17 anni, sua madre Agrippina lo affidò agli esponenti più influenti dei circoli dell’Urbe: la milizia pretoriana, rappresentata dal prefetto del pretorio Burro, ed il Senato, nella persona di Seneca, il maggiore pensatore di quello stoicismo che costituiva l’ideologia per eccellenza dell’aristocrazia ostile al dispotismo. I primi anni di impero di Nerone furono pertanto contraddistinti da un netto ritorno alla collaborazione col Senato e alla prevalenza degli interessi e dei punti di vista della nobilitas. D’altra parte, lo stesso Seneca non era nativo dell’Italia ma della provincia della Spagna, e la sua filosofia non era originaria di Roma, ma del mondo greco-ellenistico. Anche l’educazione di Nerone, dunque, fu tutta imbevuta di cultura greca, né tardò molto che il discepolo andasse ben oltre il suo maestro, accendendosi di una morbosa infatuazione appunto per gli ideali dell’ellenismo greco-orientale. Il fantasma della monarchia greco-orientale, che già aveva suggestionato la mente di quel Caligola, di cui Nerone era nipote, o di quell’Antonio, di cui tanto Caligola che Nerone erano in qualche modo discendenti, tornò dunque a rivivere, non appena il giovane imperatore si fu liberato della tutela dei maestri, assumendo direttamente il potere.

    Nerone vestito da donna – Emilio Gallori

    E così rinacquero le forme tipiche del dispotismo ellenistico, coi suoi deliri di grandezza, il suo sfarzo spettacoloso, destinato ad abbagliare le folle, la sua trasformazione della persona del sovrano in un Nume, salvatore del genere umano, le sue dilapidazioni a scopo demagogico. L’imperatore di Roma, tra lo scandalo dell’aristocrazia senatoria, declamava versi, si atteggiava a poeta, scendeva nel circo a farsi applaudire dalla plebaglia. Una sua riforma finanziaria, destinata ad importanti ripercussioni nella vita interna dell’Impero, abbassando il rapporto di cambio fra oro e argento, avvantaggiava notevolmente i ceti più modesti, a svantaggio dei patrimoni della nobilitas. Ma Nerone, mentre si atteggiava a benefattore dell’umanità, al modo dei Tolomei d’Egitto o dei Seleucidi di Siria, agghiacciava Roma con delitti di un’efferatezza inaudita: dall’avvelenamento del fratellastro Britannico, all’uccisione della stessa madre Agrippina e poi a quella di sua moglie Ottavia, per convolare a nuove nozze con una seconda moglie, Poppea, destinata in seguito ad essere uccisa anch’essa.
    Tanto sangue spiega perché, quando nel 64 dopo Cristo gran parte di Roma andò distrutta in un incendio, la voce pubblica accusasse Nerone di avere egli stesso appiccato il fuoco all’Urbe.

    Incendio di Roma – Robert Hubert

    Il rovinoso incendio scoppiò la notte tra il 18 e il 19 luglio nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, secondo Tacito, sei secondo Svetonio, propagandosi in quasi tutta la città. Delle quattordici regiones che componevano la città, tre, la III Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la XI Circo Massimo, e la X Palatino, furono totalmente distrutte, mentre in altre sette rimanevano solo pochi ruderi rovinati dal fuoco. Erano salve solo le regiones: I Capena, V Esquiliae, VI Alta Semita e XIV Transtiberim. I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme a circa quattromila insulae e centotrentadue domus. Gli scavi condotti nelle aree maggiormente interessate dall’evento hanno spesso incontrato strati di cenere e materiali combusti, quali evidenti tracce dell’incendio. In particolare sono stati rinvenuti, in alcuni casi, frammenti di arredi metallici parzialmente fusi, a riprova della violenza delle fiamme e delle elevatissime temperature raggiunte. Al sesto giorno, l’incendio si sarebbe arrestato alle pendici dell’Esquilino, dove erano stati abbattuti molti edifici per fare il vuoto davanti all’avanzata delle fiamme.

    Roma prima e dopo l’incendio del 64 dopo Cristo.

    Tuttavia scoppiarono altri incendi in luoghi aperti e le fiamme fecero questa volta meno vittime, ma distrussero un maggior numero di edifici pubblici. Questo seconda fase dell’incendio sarebbe divampato a partire da alcuni giardini di proprietà di Tigellino, prefetto del pretorio e amico dell’imperatore: questa origine avrebbe, secondo Tacito, fatto nascere altre voci, sul desiderio dell’imperatore di distruggere la città di Roma totalmente per poter poi fondare una nuova città e darle il suo nome.Oggi è noto che dopo un vasto incendio focolai molto importanti possono covare sotto la cenere e riprendere con vigore a bruciare anche quando tutto sembra essere risolto. Non è quindi improbabile che ciò sia accaduto anche a Roma e che Tigellino non fosse consapevolmente coinvolto nella cosa.Dopo che l’incendio era divampato nuovamente e aveva distrutto altre parti della citta, visto che le voci di un coinvolgimento diretto dell’imperatore andavano rafforzandosi, Nerone scelse, per liberarsi dall’accusa, un mezzo tra il demagogico e il criminoso, egli cercò infatti nei Cristiani un capro espiatorio da offrire alla furia popolare. Questi erano ormai una comunità consistente all’interno della città e non godevano della benevolenza dei cittadini a causa del loro rifiuto a conformarsi ai riti religiosi romani. Questa differenza era talmente evidente che anche Tacito nei suoi scritti non mostra

    Quo Vadis – Locandina del film del 1913.

    alcuna benevolenza nei loro confronti dicendo che essi costituivano “una setta invisa a tutti per le loro nefandezze”. Il tentativo di Nerone di spostare l’attenzione da se però non sortisce grandi effetti tanto che lo stesso Tacito riporta: “ma né l’opera degli uomini, né le largizioni dell’imperatore né i sacrifici agli dei diminuiva l’infamia che l’incendio fosse stato suscitato dolosamente. Così Nerone per far tacere le voci presentò come colpevoli, e condannò con supplizi fuori dal comune coloro che per le loro fastidiose azioni erano odiati e il volgo chiamava Cristiani. Colui dal quale deriva il nome, Cristo, era stato condotto al patibolo da Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; e, repressa per il momento quella esecrabile superstizione, si espandeva non solo per la Giudea, origine di quel male, ma anche per Roma stessa, dove i mali più vergognosi convergono e vengono celebrati”. Quindi, nonostante il tentativo di trovare nei Cristiani il capro espiatorio, le voci di un coinvolgimento diretto di Nerone non si placarono.

    Le fiaccole di Nerone – Hendrik Siemiradzki – Cracovia.

    Le cronache, comunque, riportano che nella notte dell’incendio, Nerone, che si trovava ad Anzio, sarebbe tornato in città quando le fiamme ormai lambivano la sua residenza, che egli aveva costruito per congiungere il palazzo sul Palatino e gli Horti Maecenatis, e non sarebbe riuscito a salvarla. Si sarebbe però occupato di soccorrere i senzatetto, aprendo i monumenti e i giardini di Agrippa sul Campo Marzio, allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare viveri dai dintorni. Tali provvedimenti, emessi, secondo Tacito, per ottenere il favore popolare, non avrebbero tuttavia ottenuto lo scopo, a causa della diffusione di una voce, secondo la quale l’imperatore si era messo a cantare della caduta di Troia, davanti all’infuriare dell’incendio visibile da una torre, oggi scomparsa, posta negli Horti di Mecenate e, successivamente, identificata erroneamente con la Torre delle Milizie.
    Secondo Tacito, prima sarebbero stati arrestati quanti confessavano e quindi, su denuncia di questi, ne sarebbero stati condannati moltissimi, ma, ritiene lo storico, l’imperatore li condannava a morte non tanto a causa per il loro coinvolgimento nell’aver causato l’incendio, quanto per il suo “odio del genere umano”.

    Una martire cristiana – Hendrik Siemiradzki – Varsavia.

    Tacito racconta infatti, sempre negli Annali, la maniera in cui si svolgeva la condanna dei malcapitati: “Quelli che andavano a morire erano esposti anche alle beffe. Alcuni erano coperti dalle pelli di animali e morivano dilaniati dai cani, altri erano crocifissi, altri ancora erano invece arsi vivi come se fossero torce per illuminare le tenebre, al calare del sole. Nerone si era portato quello spettacolo nei suoi giardini e inventava giochi circensi, con l’abito da auriga, incalzando in mezzo alla plebe con il suo carro. Onde sorgeva la commiserazione, sebbene verso gente colpevole e che meritava tali pene, perché era sacrificata non per utilità pubblica, ma per la ferocia di uno solo”.

    Roma, 29 ottobre 2017

  3. Il Foro Romano: età arcaica e età regia

    La visione più completa del Foro si può godere dalla terrazza del Campidoglio, sulla destra del Palazzo Senatorio, oppure dalle arcate del Tabularium. Dall’angolo settentrionale del Palatino, dove c’è la terrazza degli Orti Farnesiani, si ha una vista altrettanto ampia. L’ingresso si apre lungo la Via dei Fori Imperiali all’altezza di Via Cavour. Un piano inclinato si trova in corrispondenza dell’Arco di Tito.

    I fori romani – Manini

    La valle del Foro Romano è il risultato dell’erosione provocata, entro il compatto banco di tufo vulcanico, da uno dei tanti rigagnoli e fiumicelli che si versano nel Tevere. La depressione del Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, si prolunga a sud-ovest, verso il fiume, nella valle del Velabro, che è anche il nome originario dello stesso corso d’acqua.
    Gli scrittori antichi sono concordi nel sottolineare la natura paludosa e inospitale della valle del Foro. I primi nuclei di abitazione sorsero, infatti, sulla cima o alle estreme propaggini delle colline, il Palatino ma certamente anche il Campidoglio, mentre la pianura fu utilizzata come necropoli. Lo scavo presso il Tempio di Antonino e Faustina e altre scoperte sporadiche hanno mostrato però che il centro abitato del Palatino si estendeva anche in una parte della valle.
    L’utilizzazione della necropoli del Foro ha inizio con la prima fase della cultura laziale, X secolo avanti Cristo. Le tombe più antiche sembrano essere le due scoperte negli anni Cinquanta del secolo scorso presso l’Arco di Augusto, contemporaneamente a un’altra, scavata sul Palatino, sotto la Casa di Livia. Il sepolcreto del Foro è utilizzato solo fino alla fine del II periodo laziale, inizio del VII secolo avanti Cristo. Da quel momento in poi si troveranno in esso solo le tombe di bambini, che potevano essere seppelliti anche all’interno dell’abitato, uso che verrà a cessare con l’inizio del VI secolo avanti Cristo. Contemporaneamente all’abbandono del sepolcreto del Foro ha inizio l’utilizzazione di quello dell’Esquilino.

    Foro romano e Campo Vannino – Giovan Battista Piranesi

    Di conseguenza ha luogo un ampliamento dell’abitato del Palatino in una fase proto – urbana, cui corrisponde ormai, come nelle più importanti città etrusche, una necropoli unitaria al posto dei piccoli centri cimiteriali pertinenti ai singoli villaggi della fase precedente.
    Il Foro, allora, cessa di essere un’area esterna ai vari nuclei abitati che lo circondano ed entra a far parte di un unico centro, già definibile come urbano. Dopo la fusione in una sola città delle comunità dei colli adiacenti, il Foro, difeso dalla comune rocca del Capitolium, forma il centro di Roma, intorno a cui sorsero a mano a mano gli edifici destinati al disbrigo degli affari pubblici e privati: tabernae, cioè negozi, basiliche, sale porticate, luogo di ritrovo e di pubbliche funzione.
    Alla fine del VII secolo ha inizio a Roma la dinastia etrusca dei Tarquini. Il primo re, Tarquinio Prisco, pone mano a una serie di opere pubbliche, e in particolare a un grandioso sistema di fognature destinato a drenare il fondo paludoso delle valli. La più importante di queste opere, la Cloaca Maxima, il cui percorso attraversa l’area centrale del Foro, è ancora oggi riconoscibile: grazie a tale capolavoro ingegneristico, l’acqua del Velabro viene canalizzata, rendendo utilizzabile l’area.
    L’urbanizzazione della valle presuppone anche l’occupazione e l’integrazione alla città palatina del contrapposto complesso Campidoglio-Quirinale, che sarebbe stato anch’esso realizzato sotto i re etruschi. La costruzione sul Campidoglio del gigantesco Tempio di Giove Ottimo Massimo, iniziato secondo la tradizione, da Tarquinio Prisco, costituisce la migliore prova dell’avvenuta unificazione.

    Foro romano – Ettore Roesler Franz

    Dovette allora determinarsi la suddivisione dell’area in due parti, con funzioni precise: ai piedi dell’Arx, la sommità settentrionale del Campidoglio, il Comizio, destinato all’attività politica e giudiziaria; a sud di questo, il Foro vero e proprio, con funzioni precipue di mercato. L’antichità del Comizio, comitium ovvero luogo di riunione, risulta, oltre che dalla menzione che ne troviamo nel primo calendario romano e dalla sua utilizzazione per i più antichi comizi – quelli delle curie – anche dalla scoperta nella sua area di un complesso monumentale, il Niger Lapis, attribuibile con tutta probabilità ancora all’età regia, VI secolo avanti Cristo.
    La data tradizionale dell’inizio della Repubblica, 509 avanti Cristo, corrispondente all’inaugurazione del Tempio di Giove Capitolino e all’inizio della compilazione della lista dei consoli, sembra confermata dai risultati di scavi recenti.
    L’antico edificio della Regia, nel quale la tradizione riconosceva la casa di Numa, distrutto da un incendio, è ricostruito in nuove forme proprio alla fine del VI secolo avanti Cristo.
    La cacciata dei Tarquini non costituisce però una rottura radicale nello sviluppo della città: la crisi più grave si avrà poco prima della metà del V secolo avanti Cristo. Ciò si ricava, per quanto riguarda il Foro, dalla costruzione, nei primi anni della Repubblica, di due importanti santuari:

    Fonte di Giuturna

    quello di Saturno, forse anch’esso iniziato in periodo regio sul luogo dove esisteva un antichissimo altare della divinità, e quello di Castore e Polluce; in quest’ultimo caso si tratta dell’evidente importazione di un culto greco, come dimostrano tra l’altro i nomi, gli stessi delle corrispondenti divinità greche.
    I siti e i monumenti che rimandano ai tempi arcaici di Roma sono la necropoli arcaica, la Regia, il Tempio di Vesta, la Fonte Giuturna e il Tempio dei Castori. Per passare alla zona del Comizio – Niger Lapis – e alla Curia.

    Roma, 14 ottobre 2017

  4. Sulle vie di Paolo di Tarso: la basilica di San Paolo Fuori le Mura, l’area archeologica, il chiostro, la pinacoteca.

    Per la via Ostiense, a circa due chilometri da Porta San Paolo, si giunge alla basilica eretta sulla tomba dell’Apostolo delle genti, posta in zona cimiteriale, il Sepolcreto Ostiense detto in praedio Lucinae, e oggi parzialmente scavato e visibile sui due lati della strada.

    La basilica di San Paolo fuori le Mura in una foto Alinari

    Il primo e importantissimo accenno al sito è quello contenuto in un passo di Eusebio di Cesarea che riporta le parole del presbitero romano Gaio, pronunciate alla fine del II secolo o all’inizio del III, per la precisione negli anni del pontificato di papa Zefirino, tra il 198 e il 217. In risposta all’eretico Proclo che, seguace del frigio Montano, vantava la presenza a Ierapoli di Frigia della tomba dell’apostolo Filippo. Dice dunque Gaio: “Io posso mostrarti i trofei [tà trópaia] degli apostoli (Pietro e Paolo). Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa (di Roma)”, (Eusebio, Historia ecclesiastica II, 25, 7). La parola trópaion, che indica il “trofeo della vittoria”, fa allusione alla reale presenza delle spoglie dei due apostoli, poiché si riferisce propriamente ai corpo dei martiri e non al solo monumento che li contiene.
    La basilica di San Paolo fuori le Mura, che ha dimensioni corrispondenti a quelle della Basilica Ulpia eretta da Traiano, rimase la più grande di Roma prima della costruzione della moderna San Pietro. Fondata da Costantino, accresciuta da Valentiniano II, 386, da Teodosio e da Onorio, la basilica rimase semidistrutta a seguito di un rovinoso incendio scoppiato nella notte fra il 15 e 16 luglio 1823, e che continuò ad ardere fino al mattino del 16.

    L’incendio della Basilica – Ascanio di Brazzà

    La basilica fu, quindi, ricostruita con le offerte provenienti dalle diocesi di tutto il mondo secondo la pianta antica, ma riutilizzando solo in parte gli antichi materiali. Vi lavorarono molti architetti, in particolare Luigi Poletti, al quale si deve anche il campanile, Virginio Vespignani, che lavorò alla facciata e Guglielmo Calderini, che ideò il quadriportico, eretto tra il 1892 e il 1928.
    Fino a qualche decennio fa, la basilica sorgeva nell’aperta e vuota campagna, che aveva sovrastato per quasi due millenni come richiamo di spiritualità con il suo cenacolo benedettino e come caposaldo difensivo. Nell’XI secolo, infatti, papa Giovanni VIII vi aveva costruito attorno una cittadella contro le scorrerie dei Saraceni, detta “Giovannipoli”, di cui oggi resta il toponimo in una delle vie del quartiere Garbatella – Ostiense che è proprio Via Giovannipoli.
    La prima chiesa costantiniana, piuttosto piccola, era rivolta verso la via Ostiense e corrispondeva all’attuale zona del presbiterio e della crociera fino alla tomba di san Paolo. Successivamente si rese necessario ingrandire la chiesa e per questo motivo essa ebbe l’ingresso rivolto verso il Tevere, così che la trasformazione non andasse ad intaccare la posizione della sepoltura di Paolo.

    Le rovine dopo l’incendio – Bartolomeo Pinelli

    Ora l’ingresso più utilizzato è quello laterale, sul piazzale cui si perviene arrivando da Porta San Paolo; un ingresso creato dal Poletti nel 1840 alla riapertura al culto della navata trasversale, mentre continuavano le opere di restauro e ricostruzione delle rimanenti parti della basilica, che verrà poi consacrata per intero da Pio IX nel 1854, anche se i lavori di rifinitura sarebbero durati assai più a lungo. Precede la basilica un gelido e maestoso quadriportico, retto da una selva di colonne corinzie di granito; al suo centro, al posto della fontana delle abluzioni, è stata collocata una corrucciata statua di san Paolo che brandisce la spada, opera di Pietro Canonica. Dal lato che funge da narcete si leva la facciata a timpano con tre finestre a centina, rivestita di ottocenteschi mosaici luminosi, ma di mediocre ideazione. Cinque porte immettono nelle altrettante navate dell’interno: quella centrale, in bronzo con luminosi inserti d’argento, collocata nel 1931, è opera di Antonio Maraini che vi ha rappresentato scene della vita di Pietro e di Paolo. La porta intermedia a destra è la Porta Santa Giubilare; al suo interno sono state collocate le valve restaurate dell’antica porta di bronzo che, danneggiata dall’incendio nel 1823, era stata conservata nel museo della basilica. La porta in bronzo proveniva da Costantinopoli – dove era stata fabbricata nel 1070 da Staurachios di Scio – e fu fatta importare da Ildebrando di Soana, allora abate di San Paolo e poi eletto papa Gregorio VII.
    Una notevole impressione di grandiosità suscitano le cinque navate che rievocano l’aspetto delle antiche basiliche di tipo politico-giudiziario. La limitata luminosità dell’ambiente mette in risalto il chiarore delle ottanta colonne di granito di Baveno. Queste dànno luogo ad un gioco di ritmi e sovrapposizioni che accrescono l’effetto di grandiosità.

    Interno della Basilica – Giovanni Paolo Panini

    Il lucente pavimento marmoreo riflette il soffitto a cassettoni regolari, lavorati a fantasiosi motivi e soprattutto luminoso di oro. Da non dimenticare le belle sei colonne di alabastro donate a Pio IX dal Khedivè, ovvero il viceré d’Egitto, e poste lungo la controfacciata. Un lungo fregio corre tutta la navata centrale, proseguendo in quelle laterali, la serie dei medaglioni di tutti i papi succedutisi sulla cattedra di Pietro. Essi sono a mosaico e rinnovano la tradizione esistente fin dalla basilica antica.
    L’arco trionfale, che fu risparmiato dal fuoco, mostra tutto lo splendore dei mosaici eseguiti nel V secolo, forse per incarico di Galla Placidia, imperatrice romana e figlia di Teodosio I. La testa del Redentore, nella sua mandorla luminosa, appare di una immota glacialità bizantina, mentre due corteggi di seniori, con le corone del trionfo, che la affiancano e le due figure di Pietro e di Paolo nei peducci dell’arco sono improntate a maggior realismo, di impronta romana. L’arco, sostenuto da due imponenti colonne di granito e preceduto da statue dei due apostoli, inquadra il mirabile effetto dei mosaici del catino absidale, realizzati da maestranze inviate dal doge di Venezia all’epoca di Onorio III (1220 circa). Il papa appare minuscolo (quasi una piccola rana) ai piedi di Cristo sul trono con quattro Santi ai lati. Dal transetto cui si accede mediante tre gradini si possono ammirare i mosaici collocati nella facciata interna dell’arcone trionfale; essi sono di Pietro Cavallini e provengono dall’antica facciata della basilica. Al centro del transetto si erge il gioiello tra i cibori romani, eseguito nel 1285 da Arnolfo di Cambio con l’aiuto di un Pietro, che si ritiene possa essere lo stesso Cavallini.

    Mosaico dell’Abside – Basilica di San Paolo fuori le Mura

    Il chiostro della basilica è, con quello di San Giovanni in Laterano, il più importante fra i molti chiostri romani, oasi di tranquillità ed esempio di serena bellezza. Questo ci dà l’idea dell’importanza del complesso monastico che si era creato attorno alla basilica e rappresenta una testimonianza eccezionale di quella pace che, in certe situazioni, seppero trovare anche secoli segnati da durissime esperienze.
    Il chiostro fu completato prima del 1214 e, per una parte, è opera dei Vassalletto. Colonnine lisce abbinate sostengono archetti a tutto centro che reggono una trabeazione decorata con un fregio mosaicato dagli splendenti colori. Un lato, dei quattro, è caratterizzato da colonne sempre abbinate, ma a spirali od ottagone ed alcune con intarsi a mosaico: l’impressione dell’insieme è piacevolissima. Lungo il quadriportico sono avanzi antichi, fra i quali, notevole, una statua di marmo di Bonifacio IX.

    Roma, 8 ottobre 2017