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  1. Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps

    Palazzo Altemps 2

    Cortile Palazzo Altemps

    Palazzo Altemps, già Palazzo Riario, si erge nel cuore del rione Ponte, in piazza Sant’Apollinare, a pochi passi da piazza Navona. Deve il suo nome al cardinale Marco Sittico Altemps, proveniente dall’Alto Tirolo, che lo acquistò nel 1578, eleggendolo a propria dimora romana.

    È uno dei quattro poli del Museo Nazionale Romano, insieme a Palazzo Massimo, alla Crypta Balbi e al Museo delle Terme di Diocleziano, e ospita importanti collezioni di arte antica e una significativa raccolta di opere egizie.

    Nelle sale ancora in parte affrescate, è possibile ammirare sculture greche e romane appartenute nei secoli XVI e XVII a varie famiglie della nobiltà romana. Il nucleo più consistente è costituito dalla collezione Boncompagni Ludovisi, ma vi sono conservate anche le collezioni Mattei e Del Drago e alcune opere d’arte un tempo possedute dalla famiglia Altemps. Tra gli esemplari più rappresentativi, il Galata suicida, il sarcofago cosiddetto Grande Ludovisi, il Trono Ludovisi e l’Ares Ludovisi. Le sculture sono presentate secondo il gusto antiquario per l’ostentazione dei capolavori dell’antichità proprio di quel tempo. Alcune sono state restaurate nei secoli

    Trono Ludovisi - Palazzo Altemps

    Trono Ludovisi – Palazzo Altemps

    XVI e XVII con integrazioni eseguite da eccellenti scultori dell’epoca quali Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Algardi e Ippolito Buzio, mentre la sezione dedicata all’arte egizia costituisce una delle più significative testimonianze della diffusione dei culti egizi a Roma.

    Palazzo Altemps è il punto di arrivo cinquecentesco di una serie di costruzioni che occupavano la zona fin dall’antichità. Negli scavi archeologici preliminari ai lavori di restauro sono state rinvenute le strutture di una domus romana tardo imperiale e i resti di numerose case-torri medievali inglobate nel palazzo rinascimentale. I suoi tesori in marmo pregiato mantengono un legame ideale con l’antica vocazione del rione Ponte, sede di uno dei due porti marmorari di Roma sin dai tempi di Augusto: la Statio rationis marmorum, cioè ufficio del monopolio imperiale sulle cave e il ponte detto la Marmorata, oggi Testaccio. Era qui che venivano scaricati e lavorati i marmi destinati sia all’architettura, e utilizzati nel Campo Marzio, sia alla statuaria. In tutta la zona tra Sant’Andrea della Valle, la Chiesa nuova e il Tevere sono riemerse botteghe di marmorari con resti di opere non finite e attrezzi risalenti all’epoca di Traiano. Secondo alcuni insigni archeologi, la vicina chiesa di Sant’Apollinare sarebbe sorta sulle rovine del tempio di Apollo.

    Eros e Psiche - Palazzo Altemps

    Eros e Psiche – Palazzo Altemps

    Con la feudalizzazione di Roma e l’occupazione dei resti antichi da parte delle famiglie baronali la città si divise in un settore ghibellino ad est, controllato dai Colonna, e un settore guelfo, controllato dagli Orsini. Il cammino di ronda che divide tuttora il rione di Parione da quello di Colonna correva lungo l’attuale vicolo dei Soldati.

    È nel 1400 che comincia a strutturarsi Palazzo Altemps quale oggi lo conosciamo. A partire da Girolamo Riario, che ne fece eseguire il disegno da Melozzo da Forlì. Girolamo, nipote di Sisto IV, avrebbe voluto completarne la costruzione per il suo matrimonio con Caterina Sforza, ma i lavori non si conclusero prima del 1480.

    Tramontata con la morte di Sisto IV la fortuna dei Riario, nel 1511 il palazzo fu acquistato, ampliato e decorato dal cardinal Francesco Soderini, che vi chiamò a lavorare gli architetti Antonio da Sangallo il

    Ares - Palazzo Altemps

    Ares – Palazzo Altemps

    Vecchio e Baldassarre Peruzzi, al cui intervento si deve il cortile maggiore. Tra il 1513 e il 1518 la dimora passò al cardinale mediceo Innocenzo Cybo. E dopo essere stato residenza degli ambasciatori spagnoli, il palazzo fu acquistato, nel 1568, dal cardinale austriaco Marco Sittico Altemps, figlio della sorella di Pio IV, che ne fece la residenza del casato. Si deve a lui la prima collezione di sculture antiche. A questi anni, però, risale anche una storia di sangue che coinvolse la famiglia Altemps: il figlio naturale di Marco Sittico, Roberto, fu accusato di adulterio e fatto decapitare a 20 anni proprio da Sisto IV per aver sposato una degli Orsini, suoi nemici giurati

    Nel 1604, papa Clemente Aldobrandini donò alla famiglia Altemps le spoglie di papa Aniceto per arricchirne la cappella privata, ma a memoria imperitura della morte di Roberto, il figlio Giovanni Angelo fece dipingere nella cappella del palazzo un grande affresco che riproduce la decapitazione del padre. È ancora Giovanni Angelo che si deve il primo teatro del palazzo.

    Sempre a Palazzo Altemps venne fondata l’Accademia dell’Arcadia. Qui recitò Metastasio e suonò Mozart, durante il suo soggiorno romano.

  2. L’Auditorium di Mecenate. L’Eden dei poeti dell’Impero.

    È solo un caso, certo, tuttavia suggestivo: l’Auditorium di Mecenate, sede del circolo di poeti del calibro di Virgilio, Orazio e Ovidio, di proprietà dal grande collaboratore e amico dell’imperatore Augusto, si erge proprio nello spiazzo dedicato a Giacomo Leopardi.

    Scavi Auditorium di Mecenate. Si ringrazia RomaSparita.

    La sua scoperta avvenne nel 1874, nel corso dei lavori per l’apertura della nuova Via Merulana e dell’adiacente Largo Leopardi, nella zona precedentemente occupata da Villa Caetani.
    L’aula absidata allora riportata alla luce faceva parte di un complesso assai più ampio, disposto a cavallo delle Mura Serviane, che fu disgraziatamente demolito. Per fortuna, si decise di conservare almeno quest’aula, detta Auditorium, nella quale si possono distinguere quattro parti: un vestibolo a sud-est, dalla forma rettangolare, l’aula vera e propria, l’esedra a gradini, un ambiente di soggiorno aperto verso l’esterno, munito di sedili presente in edifici privati o pubblici, e una doppia rampa di accesso. Si accedeva al vestibolo grazie a tre ingressi: quello a sud, ancora utilizzato, si apriva sulla rampa, mentre gli altri due mettevano l’aula in comunicazione con gli ambienti circostanti. Forse la copertura era a volta, a giudicare dal grande spessore dei muri.
    Nella sala rettangolare si aprono sei nicchie per parte e la decorazione pittorica è in parte svanita, ma era ben conservata quando l’edificio fu ritrovato. Le pareti sono dipinte di rosso; sopra le nicchie corre un fregio a fondo nero con figure di animali dipinte a colori più chiari. L’interno delle nicchie è decorato con riproduzioni realistiche di giardini. Nell’angolo ovest si riconoscono due pavimentazioni successive: quella originaria, realizzata in finto mosaico con due strisce rosse, e quella più tarda, in lastre di marmo giallo antico e grigio.

    Auditorium di Mecenate.

    L’esedra è occupata da sette gradini molto stretti. Fu ampliata con un muro a mattoni; i gradini erano coperti da lastre in cipollino, delle quali restano tracce. Al di sopra dei gradini si aprono cinque nicchie dove compaiono decorazioni pittoriche raffiguranti giardini, sotto le quali corre un fregio a fondo nero con figure di animali e di caccia.
    Nella sua prima fase, l’edificio risale alla fine della Repubblica, mentre le decorazioni pittoriche, simili a quelli della Villa di Livia a Prima Porta, appartengono alla piena età augustea.
    Gli archeologi ritengono che il complesso sia da identificare con uno degli edifici parte degli Horti Mecenatis, ovvero i giardini che circondavano l’imponente villa di Mecenate sull’Esquilino. Sappiamo da Orazio e dai suoi commentatori che per la costruzione della villa fu ricoperto il cimitero dei poveri, che allora occupava questa zona dell’Esquilino, venne parzialmente livellato l’antichissimo agger, e distrutta una parte delle Mura Serviane, a cui ancora oggi la struttura pare appoggiarsi.
    Di questa villa oggi non ci perviene nulla se non una piccola parte degli arredi e delle opere d’arte oggi conservate presso i Musei Capitolini nella sezione dedicata proprio agli Horti Mecenatis, come la statua in marmo pavonazzetto di Marsia.

    Marsia – Musei Capitolini.

    La data di costruzione dell’Auditorium coincide con quella della villa di Mecenate: tra il 40 e il 30 avanti Cristo L’identificazione è stata possibile grazie alla scoperta, accanto all’edificio, di una fistula aquaria, ovvero una conduttura idraulica di piombo, con il nome di Cornelio Frontone, celebre maestro di retorica dell’era adrianea venuto in possesso degli Horti Maecenatis, evidentemente cedutigli dall’imperatore.
    Alla sua morte, infatti, Mecenate aveva lasciato la sua villa a Ottaviano Augusto e si sa che Tiberio vi soggiornò a lungo. Probabilmente è proprio del periodo durante il quale Tiberio abita la villa, di ritorno dal suo esilio a Rodi avvenuto nel 2 avanti Cristo, che vengono eseguiti gli affreschi “del terzo stile”, che è datato fino alla metà del I secolo, all’epoca di Claudio, tra il 41 e il 54 avanti Cristo.
    Non appare peregrina dunque, l’originaria identificazione con un auditorium o un odeon, anche se i gradini appaiono un po’ piccoli per ospitare spettatori seduti. La presenza di un’iscrizione con i primi due versi di un epigramma di Callimaco, in cui si accenna al convito, ha fatto pensare che si trattasse di una cenatio, sala da pranzo estiva. Ma l’ipotesi più comunemente accettata, è che si tratti di un ninfeo.
    Gli Horti di Mecenate sono i più antichi realizzati sull’Esquilino, a spese dell’antica necropoli di Roma: essi costituivano probabilmente un ampliamento del più antico possesso di Mecenate, situato nel luogo dove più tardi sarebbero state costruite le Terme di Traiano.
    Chi fu, dunque, Mecenate? «Insonne nella vigilanza e nelle emergenze, lungimirante nell’agire, ma nei momenti di ritiro dagli affari più lussuoso ed effeminato di una donna». Così, maliziosamente, lo descrive lo storico Velleio Patercolo.
    In realtà, Mecenate fu molto, molto di più di quanto Partecolo non dica. Etrusco d’origine, essendo nato ad Arezzo 15 aprile del 68 avanti Cristo, Gaio Cilnio Mecenate fu influente consigliere, alleato e amico di Ottaviano. Nella prima parte

    Mecenate.

    della sua vita egli ebbe un ruolo militare, fu generale di Ottaviano che seguì in molti campi di battaglia; questo ruolo andò trasformandosi sempre più in ruolo politico tanto che Mecenate diventa, a tutti gli effetti, non solo un testimone ma anche un attore della trasformazione definitiva di Roma, che si attua nel passaggio dalla repubblica all’Impero.
    Fece la sua apparizione nella vita pubblica nel 40 avanti Cristo, quando fu incaricato di chiedere per Ottaviano la mano di Scribonia in matrimonio. In seguito partecipò ai negoziati di pace a Brindisi e alla riconciliazione di Ottaviano Augusto con Marco Antonio. La sua fedeltà a Ottaviano è testimoniata dalla fermezza con cui soffocò in gran segreto la congiura di Marco Emilio Lepido, in assenza di Ottaviano da Roma, e questo ruolo di fedele controllore della realtà augustea si replicava ogni volta che Ottaviano era lontano. Ma ciò che lo ha reso immortale è stato senz’altro la capacità di allevare, incoraggiare e sostenere economicamente un cenacolo di artisti e intellettuali di straordinario genio quali Orazio, Virgilio, Ovidio, Properzio e Tito Livio permettendo loro di svolgere liberamente il proprio mestiere di uomini di cultura.
    Con questo atteggiamento contribuì a rafforzare il regime che Ottaviano Augusto stava imponendo: molte delle opere prodotte con l’appoggio di Mecenate contribuirono ad illustrare l’immagine di Roma e anche a sostenere alcune azioni della politica dell’imperatore. Egli fu tra i primi a comprendere l’impatto che la poesia e l’arte potessero avere sull’opinione pubblica.
    Nonostante il suo ruolo di finanziatore i letterati riuniti intorno alla figura di Mecenate mantennero gran parte della loro indipendenza.
    Orgoglioso delle sue origini etrusche, Mecenate affermava di discendere, per parte di madre, dal principesco casato dei Cilni, la più nobile famiglia di Arezzo. Il suo albero genealogico era esposto infatti nell’atrio della sua villa sull’Esquilino e sia Orazio che Properzio celebrarono il loro benefattore come il «più nobile degli Etruschi», «stirpe dei re tirreni», «cavaliere del sangue dei re etruschi».

    Ricostruzione dell’Auditorium di Mecenate all’atto della scoperta.

    Virgilio scrisse le Georgiche in suo onore e fu lo stesso Virgilio che, impressionato dalla poesia di Orazio, lo presentò a Mecenate. Orazio, quindi, iniziò la prima delle sue Odi grazie alla direzione del suo nuovo protettore, che gli diede pieno appoggio finanziario, come pure una proprietà nei monti della Sabina.
    Per la sua munificenza, che rese il suo nome noto a tutti, Mecenate ebbe la gratitudine degli scrittori, attestata anche dai ringraziamenti dei letterati di età successiva, come Marziale e Giovenale. Il suo patronato non fu una forma di vanità o di semplice dilettantismo letterario: egli vide nella genialità dei poeti del tempo non solo un ornamento letterario, ma un modo di promuovere e onorare il nuovo ordine politico.
    Nessun altro patrono ebbe in sorte quello di legare il nome a delle opere eterne.
    Mecenate scrisse, tra l’altro, anche opere letterarie, sia in prosa che in versi, di cui ci pervengono venti frammenti che dimostrano che come autore ebbe meno successo che come protettore dei letterati.
    Ritiratosi dalla vita politica, Mecenate tornò ad Arezzo, la sua città natale. Là visse delle ricchezze familiari che gli provenivano da molti beni, ma soprattutto dalle fabbriche di vasi realizzati con la pregiatissima ceramica aretina, lucida e di color arancio – miele che venne prodotta a partire dal 30 avanti Cristo. In questo periodo si dedicò solo ai piaceri dello spirito, speculando, scrivendo, conversando con gli

    Affresco dell’Auditorium di Mecenate.

    amici alla maniera etrusca, cioè in modo sontuoso e raffinatissimo. Ad Arezzo morì, nell’8 avanti Cristo, qualche mese prima dell’amatissimo Orazio.
    L’atteggiamento assunto da Mecenate è divenuto, nel tempo, un modello, tanto che si parlerà da questo momento in poi di mecenatismo e di mecenate, per indicare l’azione e la persona che protegge e finanzia poeti ed artisti. Nei secoli la figura di Mecenate è stata incarnata da personaggi diversi. Sono stati grandi mecenati Cosimo il Vecchio de’ Medici, nato nel 1389 e morto nel 1464, e suo nipote Lorenzo il Magnifico, nato nel 1449 e morto nel1492, che raccolsero intorno alle proprie figure i più grandi talenti del loro tempo.

    Roma, 31 gennaio 2018

  3. L’insula dell’Ara Coeli: un condominio romano ai piedi del Campidoglio

    Sta incastrata tra il Vittoriano e la scalinata dell’Ara Coeli: si tratta di un’insula, una casa d’affitto romana, la forma di abitazione più comune nella Roma imperiale.

    Insula dell’Ara Coeli – Roma

    Salvata miracolosamente dalle demolizioni che, iniziate alla fine dell’Ottocento per costruire il Vittoriano, continuarono almeno fino al 1939 per l’apertura della Via del Mare, l’attuale via del Teatro di Marcello, e interessarono tutte le pendici del Campidoglio.
    Dell’edificio del II secolo dopo Cristo che, tra i numerosi edifici scoperti nel corso di questi scavi, è tra i più notevoli, restano, oltre al pianterreno e al mezzanino, altri tre piani e tracce del quarto, che non era forse l’ultimo.
    Il pianterreno è costituito da tabernae, ambienti dedicati ad attività commerciali, che si aprono su un cortile, circondato da un portico a pilastri. Esse comunicavano direttamente con ambienti sovrastanti, costituenti il mezzanino, il cui pavimento, originariamente di legno, è scomparso. Una balconata su mensole di travertino segna il passaggio a un gran numero di ambienti d’affitto, illuminati da finestre rettangolari. Gli ambienti diventano sempre più angusti man mano che si sale ai piani superiori.
    In epoca repubblicana insula, in senso metaforico, era la casa che, in origine, essendo separata dalle case vicine per mezzo di uno spazio libero, detto ambitus, rassomigliava a un’isola. Il termine aveva quindi un significato spaziale contrapposto alla voce domus, che indicava l’abitazione. In origine, secondo le norme stabilite dalle Dodici Tavole, la più antica opera legislativa di Roma, redatta tra il 451 e il 450

    Insula dell’Ara Coeli in corso di scavo. Si ringrazia Roma Sparita.

    avanti Cristo, per volontà della plebe che chiedeva di rendere più conoscibile il diritto fino ad allora tramandato oralmente, ogni caseggiato doveva essere circondato da uno spazio libero per permettere ai singoli proprietari di circolare intorno alla propria casa.
    Ben presto però quello spazio fu occupato da tettoie, balconi e porticati, fino alla sua soppressione totale, tant’è che, negli ultimi secoli della Repubblica e nell’Impero, la maggior parte delle case di Roma ebbero muri contigui o comuni. E sebbene la soppressione di quello spazio libero aveva fatto perdere il significato originario al termine insula, esso rimase in uso acquistandone un altro: quello di casa d’affitto. In contrapposizione con domus, cioè casa di proprietà.
    Il tipo architettonico dell’insula è stato rivelato dalle rovine di Ostia, che ne hanno mostrato i primi esemplari meglio conservati, ma è riconosciuto ovunque nelle città dell’Impero, da Pompei, dove era molto meno diffuso, a Roma stessa, dove invece era diffusissimo. L’insula, infatti, era la tipologia abitativa usata soprattutto nelle grandi città, in cui la rendeva necessaria l’abbondanza della popolazione. La sua diffusione non fu legata solo alla richiesta di abitazioni a basto costo per una popolazione costantemente in aumento, ma anche al progresso delle tecniche costruttive, e alla varia agiatezza delle classi sociali, che resero l’insula adatta a soddisfare varie esigenze, in confronto alle domus.
    Se oggi la caratterizzazione sociale in una città avviene spesso per quartieri, in epoca imperiale questa avveniva in funzione di quale piano dell’insula il cittadino abitava: al primo piano perciò si collocavano i benestanti, che andavano a occupare l’abitazione di maggior pregio spesso fornita di una balconata lignea o in muratura

    Ricostruzione in disegno dell’insula dell’Ara Coeli. Si ringrazia Stefano Vannozzi.

    poggiante su mensole, e poi via via tutti gli altri fino al “superattico” abitato dai poveri. Il collegamento tra i piani più alti era fatto con scale di legno e se gli occupanti non pagavano l’affitto il proprietario poteva interrompere le scale e impedire loro di uscire di casa, o rientrare, fino a quando non avessero saldato il debito.
    Al pianterreno si sistemavano i commercianti nelle loro tabernae, che in genere vivevano nei mezzanini ricavati con un soppalco nella taberna stessa. Di servizi igienici, neanche a parlarne: rifiuti di ogni tipo erano gettati lungo le strade durante la notte.
    Poiché gran parte della struttura, soprattutto nei piani più in alto era in legno, nei locali che costituivano le insulae era vietato cucinare, d’altra parte non c’era alcun vano cucina, e accendere qualsiasi tipo di fuoco. Questa norma era frequentemente disattesa e perciò gli incendi frequenti e, vista la vicinanza tra i caseggiati, devastanti perché il fuoco passava facilmente da uno all’altro.
    Dopo il grande incendio di Roma l’imperatore Nerone rivide le norme per la costruzione delle insulae, proibendo che avessero i muri perimetrali in comune, decretando che fossero costruite in pietra, che avessero portici sporgenti sulla facciata, come si può ben osservare ad esempio nel caseggiato di Diana a Ostia, che avessero servitù pubblica di passaggio e fossero dotate di attrezzature anti – incendio.
    L’altezza massima portata da Augusto a ventuno metri fu ulteriormente ridotta durante il governo di Traiano a diciotto, ma le norme di sicurezza erano largamente disattese, tanto che Tertulliano parla della famosa insula Felicles, situata nel Campo Marzio, che svettava come un grattacielo su tutte le altre costruzioni.

    Insula dell’Ara Coeli

    La costruzione delle insulae e il loro affitto rappresentavano, in particolare a Roma, un’importante fonte di reddito e per questo motivo furono messe in atto, in questo settore, delle vere e proprie speculazioni. Ad esempio i costruttori iniziarono a costruire non solo isulae altissime, ma costituite da muri sottilissimi e da appartamenti piccolissimi. Spesso, poi, essi acquistavano immobili danneggiati o addirittura crollati e li ristrutturavano con un minimo di mano d’opera e materiali scadenti, recuperati dalle macerie dei palazzi, e poi li affittavano. I materiali di costruzione potevano essere in muratura, in legno o in muratura mista.
    Un’immagine molto precisa di come si vivesse all’interno delle insulae ci viene restituita in maniera molto vivida, dai due autori latini Giovenale e Marziale. Giovenale parla della facilità con la quale potevano scoppiare devastanti incendi o avvenire crolli: Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran parte si regge su puntelli fatiscenti; cosí infatti l’amministratore rimedia ai guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa, invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un crollo.[…] Sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se giú in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole per ripararsi dalla pioggia, lassú dove le languide colombe depongono le uova, brucerà se pure per ultimo”. Mentre Marziale, che abitava in un’insula situata nella contrada detta al Pero, sulle prime alture del Quirinale, in corrispondenza di dove oggi sorgono via Rasella e Piazza Barberini, nei suoi epigrammi riprende più volte la questione di quanto faticoso fosse salire le scale per raggiungere la propria abitazione, “[…] È lontano, se vuol venire al Pero, ed abito al terzo piano, ma gli scalini son di quelli alti […]”, e sottolinea la mancanza di intimità che sperimentava chi abitava in queste case: Novio è il mio vicino e dalle mie finestre con la mano si può toccare. Chi non mi invidia e non ritiene ch’io sia beato ad ogni istante, potendo godere d’un tanto intimo compagno?”.
    Ancora Giovenale scrive, in un altro epigramma, che gli affitti sono cari e la città, di notte, rumorosa: “[…] in Roma si dorme a caro prezzo. E così la gente si ammala. Il transito dei carri negli stretti vicoli contorti e le imprecazioni ai buoi che non si muovono porterebbero via il sonno al Druso e financo ad un vitello di mare”.

    Schema dell’insula dell’Ara Coeli da Filippo Coarelli.

    Del rumore si lamenta anche Marziale: “[…] O Sparso, a Roma per un povero non c’è posto né per pensare, né per dormire. Gli impediscono di vivere la mattina i maestri elementari, di notte i panettieri, tutto il giorno i martelletti degli artigiani del bronzo […]”.
    L’insula dell’Ara Coeli costituisce un tipico esempio di edilizia intensiva che era propria di Roma in piena età imperiale e si è calcolato che essa ospitasse, in condizioni certo non confortevoli, circa 380 inquilini: un vero e proprio dormitorio, dove si dovevano salire anche numerosi scalini per raggiungere la propria abitazione, come sempre Marziale dice di un poveraccio, in un altro dei suoi epigrammi, che doveva fare duecento scalini prima di raggiungere la sua camera e finalmente chiudersi la porta alle spalle.
    Tornando ancora alle pendici del Campidoglio, va ricordato che nel corso degli scavi degli anni Trenta riemerse non solo la nostra insula, ma anche un campanile romanico dell’XI secolo con bifore e un arcosolio decorato con un affresco trecentesco raffigurante la deposizione di Cristo tra la Madonna e san Giovanni, appartenenti alla Chiesa di San Biagio del Mercatello, che prendeva il nome originario della piazza dell’Ara Coeli, detta popolarmente Piazza del Mercatello.
    Il mercato in questione partiva, in epoca romana, dalle pendici del Campidoglio e si snodava fino alle tabernae del Foro Boario, il mercato delle carni, del Piascatorium, il mercato del pesce, oggi corrispondente all’area di Sant’Angelo in Pescheria, e del Foro Olitorio, cioè il mercato delle erbe, e lungo la strada si alternavano i negozi dei barbieri e dei calzolai.

    Insula dell’Ara Coeli – Abside affrescata con Cristo Morto, Madonna, San Giovanni ed Evangelisti.

    Nel 1658, papa Alessandro VII passò la gestione della chiesa di San Biagio del Mercatello alla Confraternita della Santa Spina della Corona di Cristo fondata da monsignor Cristiano da Cascia. Costui fece ristrutturare da Carlo Fontana la chiesa di San Biagio dedicandola però a santa Rita da Cascia. Nel 1928, in seguito alle demolizioni della zona e scomparsa via della Pedacchia su cui la chiesa insisteva, si decise di demolire anche Santa Rita. Ma in seguito alle feroci polemiche che ne derivarono, l’edificio sacro fu ricostruito nei pressi del Teatro di Marcello.

    Roma, 21 gennaio 2018

  4. Gli antichi luoghi di culto a Trastevere: basilica e titulus di San Crisogono

    La visita alla basilica di San Crisogono e ai suoi sotterranei è momento essenziale per comprendere le trasformazionisubite dal quartiere di Trastevere. Forse oscurata dalle sublimi Santa Maria in

    San Crisogono – Cappella Arcivescovile di Ravenna.

    Trastevere, Santa Cecilia e San Francesco a Ripa, San Crisogono è  altrettanto rilevante. Il titulus Crysogoni è il più antico di Trastevere e tra i più importanti di Roma  insieme al titulus Callisti e al titulus Ceaciliae. Edificato su  due o forse tre domus romane del II e III secolo, prima di assumere la definitiva pianta basilicale intorno al IV secolo, sotto papa Silvestro I, e dedicata a san Crisogono di Aquileia, città i cui il santo fu martirizzato e sepolto nel IV secolo.
    A onor del vero quale sia il Crisogono a cui la basilica venne dedicata resta ancora oggi una questione da chiarire, poiché le notizie sulla vita di Crisogono, il cui nome di origine greca vuol dire “nato dall’oro”, sono assai contradditorie e diverse sono le tradizioni riportate.
    Si sa che un certo Crisogono, soldato convertitosi alla fede cristiana fu fatto martirizzare e quindi uccidere da Diocleziano nel IV secolo ad Aquileia. Questo episodio è descritto in una passio a lui dedicata dove si dice: “Nello stesso giorno il natale di san Crisogono Martire, il quale, dopo aver lungamente sofferto catene e prigionia per la costantissima fede di Cristo, per ordine di Diocleziano fu condotto ad Aquileia, e finalmente, decapitato e gettato in mare, compì il martirio”.
    Secondo un’altra fonte Crisogono effettivamente sarebbe vissuto a Roma e Diocleziano lo avrebbe confinato nella casa di un certo Rufino che fu poi convertito insieme a tutta la sua famiglia. Mentre Crisogono si trovava costretto nella casa di Rufino avrebbe intrattenuto uno scambio epistolare con Anastasia grazie all’intermediazione di una anziana donna. Anastasia era figlia di Pretestato e moglie di Publio che avversava drasticamente la sua fede in Cristo, impedendole di aiutare i cristiani che in quel periodo non potevano svolgere alcun mestiere, arrivando a

    Santa Anastasia di Sirmio.

    segregarla in casa e a maltrattarla. Alla morte del marito Anastasia godette per un breve periodo di tempo di libertà e quando Crisogono fu trasferito ad Aquileia lei lo accompagnò nel suo viaggio. Qui Diocleziano riconoscendo il valore di Crisogono, gli offrì la prefettura e il consolato, a patto che abiurasse la sua fede in Cristo, ma Crisogono rifiutò e Anastasia assistette al suo interrogatorio, al suo martirio e alla sua morte per decapitazione avvenuta il 24 novembre 303 alle Aquae Gradatae, località a circa dodici miglia da Aquileia. Il suo corpo fu abbandonato sulla riva del mare, nei pressi di una proprietà detta Ad Saltus, dove abitavano tre sorelle cristiane Agape, Chionia, Irene, le quali con l’aiuto del santo Zoilo, gli diedero in un loculo sotto la casa dello stesso Zoilo.
    Anastasia morì successivamente arsa viva sempre a causa della sua fede cristiana a Sirmio, da dove il suo culto si diffuse prima a Costantinopoli e poi a Roma. Altre fonti ancora narrano che Crisogono fosse un vescovo di Aquileia. Dati storici tramandano che tra la fine del III e l’inizio del IV secolo vissero in quella città due vescovi con il nome di Crisogono.
    E’ anche possibile che un Crisogono sia stato proprietario di una o più domus che oggi insistono sotto la basilica in Trastevere e che solo successivamente il suo nome sia stato assimilato a quello del santo di Aquileia. Ad ogni modo, la chiesa trasteverina conserva la reliquia di una mano e della calotta cranica attribuite a san Crisogono, la reliquia giunse alla basilica nel XV secolo. La reliquia fu portata via per la prima volta nel 1806 e restituita nel 1850. Successivamente il prezioso reliquiario fu rubato negli anni Sessanta del Novecento. Le reliquie furono ritrovate dopo pochi giorni nei pressi della basilica di Santa Maria in Trastevere prive del prezioso reliquiario.
    La basilica di San Crisogono a cui si accede oggi dal viale Trastevere, non

    San Crisogono in un’incisione di Giuseppe Vasi del 1747.

    corrisponde all’iniziale chiesa, la cui esistenza viene documentata per la prima volta nel 499, quando il titulus, viene per la prima volta inserito nell’elenco dei tituli invitati a partecipare al Concilio di Roma. In questo caso i presbiteri del titulus Crysogoni vengono invitati a partecipare al Concilio indetto da papa Simmaco. Questa chiesa era stata probabilmente eretta nel IV secolo su una domus privata del II secolo e i suoi resti sono stati ritrovati nel corso di uno scavo risalente al 1907 a circa sei metri più in basso rispetto all’attuale chiesa.
    L’edificio risalente al 499 fu restaurato una prima volta nel 731 per volere di Gregorio III che ne fece riparare il tetto e adornare l’abside con affreschi. Quest’antica chiesa vide anche l’elezione di papa Stefano III nel 768. Successivamente, a causa delle frequenti inondazioni del Tevere e probabilmente perché le strutture di questa chiesa dovevano apparire molto deteriorate, nel 1126 il cardinale titolare Giovanni da Crema, colui che aveva fatto arrestare l’antipapa Baudino e che era stato legato in Inghilterra e Scozia alla corte di David I, decise di avviare la costruzione di una nuova chiesa di forme basilicali, e a questo momento è certamente ascrivibile il campanile romanico che ancora oggi si erge sulla destra della chiesa attuale.
    I due edifici ecclesiastici, quello citato nell’elenco dei tituli e quello attuale, non sono completamente sovrapposti, ma la nuova costruzione è spostata leggermente sulla destra rispetto a quella più antica e la usa parzialmente come fondazione.

    San Crisogono – Soffitto a lacunari. Si ringrazia vigoenfotos per la fotografia.

    Nel 1157 il cardinale Guidone Bellagio arricchì la chiesa di un nuovo altare, mentre nel 1480 i canonici di San Salvatore, che fino ad allora avevano abitato nel convento di pertinenza della chiesa, dovettero lasciare la loro casa a favore dei Carmelitani i quali vi rimasero fino al pontificato di Pio IX, quando furono sostituiti dai Trinitari.
    Si accede alla chiesa attuale attraversando un portico la cui costruzione risale al 1626, coeva alla facciata, entrambe realizzate grazie all’interessamento di Scipione Borghese, fatto che viene ricordato da un’iscrizione posta sull’architrave del portico e sottolineato dalla presenza dei simboli araldici della famiglia: il drago alato e l’aquila.
    Il 1626, d’altro canto, è l’anno in cui la chiesa fu profondamente restaurata dall’architetto Giovan Battista Soria, che realizza anche il ciborio definito dalle quattro colonne di alabastro, probabilmente di spoglio. L’interno mantiene la sua forma absidale con tre navate separate da ventidue colonne di granito che probabilmente provengono dalle Terme di Settimio Severo e decorato a soffitto da uno dei più bei lacunari dipinti della città d Roma che ospita al centro una copia della tela del Guercino La Gloria di San Crisogono. L’originale fu trafugato nel 1808 e venduto in Inghilterra, dove può ancora essere ammirato.
    L’interno della basilica ospita anche la cappella del Santissimo Sacramento che è opera del Bernini, alcune opere attribuite al Cavallini, come ad esempio il mosaico absidale, e un bel pavimento cosmatesco.

    Pianta delle due basiliche di San Crisogono.

    Dalla sacrestia, percorrendo una scala moderna, si può accedere alla chiesa più antica, quella che fu eretta sul titulus Crysogoni. La prima struttura che appare dell’antica basilica è l’abside e di essa ben conservata è la parte inferiore, riccamente decorata a imitazione delle sontuose stoffe del VIII secolo e che risalirebbero quindi alle decorazioni volute da papa Gregorio III. L’abside appare serrata tra due ambienti diversi per funzione e dimensioni.
    Sulla destra è visibile un ambiente quadrato, detto secretarium, che serviva probabilmente per riporre le vesti sacre, documenti e arredi liturgici, ha un pavimento a tessere marmoree con disegni di fiori. A un certo punto l’uso di questo locale cambiò, come testimonia la presenza di un sarcofago a motivi marini che fu ritrovato in loco.
    L’ambiente sulla sinistra dell’abside ha, invece, dimensioni maggiori e poiché contiene una struttura bassa e circolare che ricorda una vasca per il battesimo viene oggi interpretato come battistero. La vasca circolare è visibile solo per metà, poiché l’altra metà è ostruita da un muro traversale, questo perché intorno al X secolo il battesimo cominciò a essere somministrato per aspersione e non più per immersione, e il battistero circolare cadde in disuso. Il battistero della basilica più antica deriverebbe a sua volta, da una precedente fullonica che si trovava nel medesimo posto, come indicato dai reperti rivenuti in una più recente campagna di scavo e costituiti da recipienti per l’acqua intercomunicanti e canali di scolo che immettevano in una fogna a cappuccina. Alla fullonica si accedeva da Via di San Gallicano.
    L’abside era ed è percorribile mediante un corridoio processionario che conduceva i

    San Crisogono che guarisce il lebbroso – San Crisogono – Basilica paleocristiana.

    fedeli alla fenestella confessionis attraverso la quale essi potevano venire in contatto con le reliquie dei santi: in questo caso, come si è detto, con una mano e la calotta cranica di San Crisogono. Qui è possibile ancora ammirare affreschi risalenti all’VIII secolo e che raffigurano i santi Crisogono, Rufino e Anastasia, sia Rufino che Anastasia, come si è detto, secondo una delle tradizioni relative a San Crisogono ebbero un ruolo nella vita del santo. Anche questi affreschi farebbero parte dell’apparato decorativo voluto da Gregorio III.
    Dall’abside si diparte l’aula basilicale a navata unica, oggi divisa in due ambienti a causa della presenza del muro di fondazione della basilica superiore. Proprio in questa sorta di finta navata è possibile ammirare degli affreschi risalenti al X – XI secolo: San Benedetto che guarisce un lebbroso, il salvataggio di San Placido, San Silvestro che cattura il drago e San Pantaleone che guarisce un cieco.
    La basilica antica termina nel nartece, il vestibolo, spesso esterno, delle basiliche paleocristiane dove i catecumeni e i penitenti dovevano fermarsi per seguire la liturgia.
    Lungo il decorso dell’altra parete è possibile ammirare affreschi che vengono datati tra il VI e il VII secolo, che riportano scene del Nuovo Testamento, ma solo una di queste è ancora ben leggibile.

    Roma, 14 gennaio 2018