Sta incastrata tra il Vittoriano e la scalinata dell’Ara Coeli: si tratta di un’insula, una casa d’affitto romana, la forma di abitazione più comune nella Roma imperiale.
Insula dell’Ara Coeli – Roma
Salvata miracolosamente dalle demolizioni che, iniziate alla fine dell’Ottocento per costruire il Vittoriano, continuarono almeno fino al 1939 per l’apertura della Via del Mare, l’attuale via del Teatro di Marcello, e interessarono tutte le pendici del Campidoglio.
Dell’edificio del II secolo dopo Cristo che, tra i numerosi edifici scoperti nel corso di questi scavi, è tra i più notevoli, restano, oltre al pianterreno e al mezzanino, altri tre piani e tracce del quarto, che non era forse l’ultimo.
Il pianterreno è costituito da tabernae, ambienti dedicati ad attività commerciali, che si aprono su un cortile, circondato da un portico a pilastri. Esse comunicavano direttamente con ambienti sovrastanti, costituenti il mezzanino, il cui pavimento, originariamente di legno, è scomparso. Una balconata su mensole di travertino segna il passaggio a un gran numero di ambienti d’affitto, illuminati da finestre rettangolari. Gli ambienti diventano sempre più angusti man mano che si sale ai piani superiori.
In epoca repubblicana insula, in senso metaforico, era la casa che, in origine, essendo separata dalle case vicine per mezzo di uno spazio libero, detto ambitus, rassomigliava a un’isola. Il termine aveva quindi un significato spaziale contrapposto alla voce domus, che indicava l’abitazione. In origine, secondo le norme stabilite dalle Dodici Tavole, la più antica opera legislativa di Roma, redatta tra il 451 e il 450
Insula dell’Ara Coeli in corso di scavo. Si ringrazia Roma Sparita.
avanti Cristo, per volontà della plebe che chiedeva di rendere più conoscibile il diritto fino ad allora tramandato oralmente, ogni caseggiato doveva essere circondato da uno spazio libero per permettere ai singoli proprietari di circolare intorno alla propria casa.
Ben presto però quello spazio fu occupato da tettoie, balconi e porticati, fino alla sua soppressione totale, tant’è che, negli ultimi secoli della Repubblica e nell’Impero, la maggior parte delle case di Roma ebbero muri contigui o comuni. E sebbene la soppressione di quello spazio libero aveva fatto perdere il significato originario al termine insula, esso rimase in uso acquistandone un altro: quello di casa d’affitto. In contrapposizione con domus, cioè casa di proprietà.
Il tipo architettonico dell’insula è stato rivelato dalle rovine di Ostia, che ne hanno mostrato i primi esemplari meglio conservati, ma è riconosciuto ovunque nelle città dell’Impero, da Pompei, dove era molto meno diffuso, a Roma stessa, dove invece era diffusissimo. L’insula, infatti, era la tipologia abitativa usata soprattutto nelle grandi città, in cui la rendeva necessaria l’abbondanza della popolazione. La sua diffusione non fu legata solo alla richiesta di abitazioni a basto costo per una popolazione costantemente in aumento, ma anche al progresso delle tecniche costruttive, e alla varia agiatezza delle classi sociali, che resero l’insula adatta a soddisfare varie esigenze, in confronto alle domus.
Se oggi la caratterizzazione sociale in una città avviene spesso per quartieri, in epoca imperiale questa avveniva in funzione di quale piano dell’insula il cittadino abitava: al primo piano perciò si collocavano i benestanti, che andavano a occupare l’abitazione di maggior pregio spesso fornita di una balconata lignea o in muratura
Ricostruzione in disegno dell’insula dell’Ara Coeli. Si ringrazia Stefano Vannozzi.
poggiante su mensole, e poi via via tutti gli altri fino al “superattico” abitato dai poveri. Il collegamento tra i piani più alti era fatto con scale di legno e se gli occupanti non pagavano l’affitto il proprietario poteva interrompere le scale e impedire loro di uscire di casa, o rientrare, fino a quando non avessero saldato il debito.
Al pianterreno si sistemavano i commercianti nelle loro tabernae, che in genere vivevano nei mezzanini ricavati con un soppalco nella taberna stessa. Di servizi igienici, neanche a parlarne: rifiuti di ogni tipo erano gettati lungo le strade durante la notte.
Poiché gran parte della struttura, soprattutto nei piani più in alto era in legno, nei locali che costituivano le insulae era vietato cucinare, d’altra parte non c’era alcun vano cucina, e accendere qualsiasi tipo di fuoco. Questa norma era frequentemente disattesa e perciò gli incendi frequenti e, vista la vicinanza tra i caseggiati, devastanti perché il fuoco passava facilmente da uno all’altro.
Dopo il grande incendio di Roma l’imperatore Nerone rivide le norme per la costruzione delle insulae, proibendo che avessero i muri perimetrali in comune, decretando che fossero costruite in pietra, che avessero portici sporgenti sulla facciata, come si può ben osservare ad esempio nel caseggiato di Diana a Ostia, che avessero servitù pubblica di passaggio e fossero dotate di attrezzature anti – incendio.
L’altezza massima portata da Augusto a ventuno metri fu ulteriormente ridotta durante il governo di Traiano a diciotto, ma le norme di sicurezza erano largamente disattese, tanto che Tertulliano parla della famosa insula Felicles, situata nel Campo Marzio, che svettava come un grattacielo su tutte le altre costruzioni.
Insula dell’Ara Coeli
La costruzione delle insulae e il loro affitto rappresentavano, in particolare a Roma, un’importante fonte di reddito e per questo motivo furono messe in atto, in questo settore, delle vere e proprie speculazioni. Ad esempio i costruttori iniziarono a costruire non solo isulae altissime, ma costituite da muri sottilissimi e da appartamenti piccolissimi. Spesso, poi, essi acquistavano immobili danneggiati o addirittura crollati e li ristrutturavano con un minimo di mano d’opera e materiali scadenti, recuperati dalle macerie dei palazzi, e poi li affittavano. I materiali di costruzione potevano essere in muratura, in legno o in muratura mista.
Un’immagine molto precisa di come si vivesse all’interno delle insulae ci viene restituita in maniera molto vivida, dai due autori latini Giovenale e Marziale. Giovenale parla della facilità con la quale potevano scoppiare devastanti incendi o avvenire crolli: “Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran parte si regge su puntelli fatiscenti; cosí infatti l’amministratore rimedia ai guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa, invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un crollo.[…] Sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se giú in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole per ripararsi dalla pioggia, lassú dove le languide colombe depongono le uova, brucerà se pure per ultimo”. Mentre Marziale, che abitava in un’insula situata nella contrada detta al Pero, sulle prime alture del Quirinale, in corrispondenza di dove oggi sorgono via Rasella e Piazza Barberini, nei suoi epigrammi riprende più volte la questione di quanto faticoso fosse salire le scale per raggiungere la propria abitazione, “[…] È lontano, se vuol venire al Pero, ed abito al terzo piano, ma gli scalini son di quelli alti […]”, e sottolinea la mancanza di intimità che sperimentava chi abitava in queste case: “Novio è il mio vicino e dalle mie finestre con la mano si può toccare. Chi non mi invidia e non ritiene ch’io sia beato ad ogni istante, potendo godere d’un tanto intimo compagno?”.
Ancora Giovenale scrive, in un altro epigramma, che gli affitti sono cari e la città, di notte, rumorosa: “[…] in Roma si dorme a caro prezzo. E così la gente si ammala. Il transito dei carri negli stretti vicoli contorti e le imprecazioni ai buoi che non si muovono porterebbero via il sonno al Druso e financo ad un vitello di mare”.
Schema dell’insula dell’Ara Coeli da Filippo Coarelli.
Del rumore si lamenta anche Marziale: “[…] O Sparso, a Roma per un povero non c’è posto né per pensare, né per dormire. Gli impediscono di vivere la mattina i maestri elementari, di notte i panettieri, tutto il giorno i martelletti degli artigiani del bronzo […]”.
L’insula dell’Ara Coeli costituisce un tipico esempio di edilizia intensiva che era propria di Roma in piena età imperiale e si è calcolato che essa ospitasse, in condizioni certo non confortevoli, circa 380 inquilini: un vero e proprio dormitorio, dove si dovevano salire anche numerosi scalini per raggiungere la propria abitazione, come sempre Marziale dice di un poveraccio, in un altro dei suoi epigrammi, che doveva fare duecento scalini prima di raggiungere la sua camera e finalmente chiudersi la porta alle spalle.
Tornando ancora alle pendici del Campidoglio, va ricordato che nel corso degli scavi degli anni Trenta riemerse non solo la nostra insula, ma anche un campanile romanico dell’XI secolo con bifore e un arcosolio decorato con un affresco trecentesco raffigurante la deposizione di Cristo tra la Madonna e san Giovanni, appartenenti alla Chiesa di San Biagio del Mercatello, che prendeva il nome originario della piazza dell’Ara Coeli, detta popolarmente Piazza del Mercatello.
Il mercato in questione partiva, in epoca romana, dalle pendici del Campidoglio e si snodava fino alle tabernae del Foro Boario, il mercato delle carni, del Piascatorium, il mercato del pesce, oggi corrispondente all’area di Sant’Angelo in Pescheria, e del Foro Olitorio, cioè il mercato delle erbe, e lungo la strada si alternavano i negozi dei barbieri e dei calzolai.
Insula dell’Ara Coeli – Abside affrescata con Cristo Morto, Madonna, San Giovanni ed Evangelisti.
Nel 1658, papa Alessandro VII passò la gestione della chiesa di San Biagio del Mercatello alla Confraternita della Santa Spina della Corona di Cristo fondata da monsignor Cristiano da Cascia. Costui fece ristrutturare da Carlo Fontana la chiesa di San Biagio dedicandola però a santa Rita da Cascia. Nel 1928, in seguito alle demolizioni della zona e scomparsa via della Pedacchia su cui la chiesa insisteva, si decise di demolire anche Santa Rita. Ma in seguito alle feroci polemiche che ne derivarono, l’edificio sacro fu ricostruito nei pressi del Teatro di Marcello.
Roma, 21 gennaio 2018