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  1. L’Appia Antica e l’eclissi di Luna. Passeggiata serale dal Mausoleo di Cecilia Metella a via Erode Attico.

    Il fascino di una delle passeggiate archeologiche più classiche di Roma, quella che si svolge nel tratto dell’Appia Antica tra il IV e il V miglio detto proprio per questo il “belvedere”, sarà questa volta accresciuto dal camminare tra rovine antiche di imponente bellezza durante l’eclissi totale di Luna più lunga del secolo in corso.

    Appia Antica – Giovan Battista Piranesi.

    Nella notte fra il 27 e il 28 luglio 2018, infatti, si verificherà una lunghissima eclissi, della durata di un’ora e quarantatré minuti. Il fenomeno completo, dall’entrata all’uscita della Luna dal cono d’ombra della Terra, durerà quasi quattro ore. In Italia esso sarà visibile a partire dalle 22.24 del 27 luglio alle 2.19 del 28 luglio. Durante l’eclissi la Luna assumerà un particolare colore rosso grazie alla posizione particolare occupata sia dalla Luna stessa che dalla Terra, che alla presenza dei raggi rifratti del Sole che entrano in atmosfera.
    Il tratto tra il IV e il V miglio dell’Appia Antica, oggetto d’interesse dei viaggiatori in maniera continua, ricostruito grazie all’opera di Luigi Canina e interventi di Antonio Canova, che si occuparono non solo della costruzione/ricostruzione effettiva di alcuni monumenti, ma anche del recupero di frammenti archeologici e del loro reintegro, inizia subito dopo la tomba – mausoleo di Cecilia Metella e raggiunge l’incrocio tra Via Erode Attico e Tor Carbone. Di fatto lungo questo tratto della via Appia erano presenti numerosi monumenti funerari di tipo diverso, eretti a partire dall’età repubblicana fino all’età tardo imperiale, e sia Canina che Canova seguirono il criterio di preservare anche scenograficamente questo susseguirsi di tombe, piccoli mausolei, colombari, e are. La seduzione scenografica è ancora maggiore poiché questo è il tratto più lungo della via che conserva gli originali basoli romani.
    L’itinerario parte dalla tomba – mausoleo di Cecilia Metella, figlia del console Quinto Metello Cretico, e nuora del triumviro Marco Licinio Crasso, uno degli uomini più ricchi della Roma tardo-repubblicana, che aveva accumulato la sua fortuna acquistando a basso prezzo i beni delle vittime delle proscrizioni di Silla. Cecilia assunse, però, una fama postuma. È dovuto a lei, o per lo meno al fatto che la sua afflitta famiglia le avesse innalzato tra il 30 e il 20 avanti Cristo un così vasto e solido monumento funebre, in un punto strategico e sopraelevato, e quindi visibile anche a distanza, se l’antica strada consolare abbia conservato il suo carattere e molti dei suoi monumenti.

    Mausoleo di Cecilia Metella.

    La tomba è costituita da una base a pianta rettangolare sormontata da un tamburo cilindrico. Della base, alta 8 metri, rimane solo il nucleo in calcestruzzo di selce, mentre del rivestimento si vedono solo i blocchi di travertino che non fu conveniente asportare; il cilindro, alto ben 11 metri e dal diametro di 30 metri, è ancora rivestito di travertino; la sua forma lo collega al genere architettonico del mausoleo di tradizione ellenistica, che proprio in quel periodo raggiungeva a Roma la massima diffusione. Sul tamburo un’iscrizione in marmo pentelico ricorda brevemente Cecilia Metella, mentre un fregio in rilievo rappresenta dei trofei di guerra, insieme a bucrani sormontati da festoni di foglie e frutta. Proprio dai crani bovini che decorano il festone la zona ha assunto il curioso toponimo di “Capo di Bove”.
    La sommità del tamburo è delimitata da una cornice, al di sopra della quale, si trova il ballatoio con la merlatura medievale; è però ancora parzialmente visibile la merlatura antica in travertino, che, assieme ai fregi guerreschi, richiama la tradizione italica che voleva il sepolcro simile ad una fortezza. Sul cilindro si trovava anche un tumulo di terra a forma di cono rovesciato, dove probabilmente crescevano dei cipressi, tipologia caratteristica dei sepolcri etruschi, che a Roma ritroviamo nel contemporaneo mausoleo di Augusto.
    Nel 1300, papa Caetani, Bonifacio VIII, donò la tomba di Cecilia Metella ai suoi familiari, che, sfruttando il fatto che la tomba sorgeva in posizione dominante, la trasformarono in roccaforte, così da poter controllare il traffico lungo l’Appia ed esigere il pagamento del pedaggio da tutti i viaggiatori. Le grosse mura sgretolate, allietate da biforette medievali che si trovano da ambo i lati della tomba, sono tutto ciò che sopravvive della roccaforte dei Caetani. Nel 1300 questi costruirono l’ormai diroccata chiesa gotica di fronte al mausoleo, dedicata a san Nicola.

    Bifore – Mausoleo di Cecilia Metella.

    Subito dopo l’imponente monumento di Cecilia Metella si erige la Torre di Capo Bove, cioè ciò che resta di un sepolcro su cui si può leggere una targa che ricorda gli studi fatti dall’astronomo Angelo Secchi nel 1865, e che recita: “Nell’anno 1865 Padre Angelo Secchi sulla traccia del P.Boscowich rigorosamente misurava lungo la via Appia una base geodetica e nell’anno 1870 collo stabilire presso i due estremi di essa questo punto trigonometrico e l’altro alle Frattocchie costituiva una base sulla quale fu verificata la rete geodetica italiana ordita nell’anno 1871 dagli ufficiali del Corpo di Stato Maggiore per la misura del grado europeo”.
    Seguono poi alcune realtà quali il Complesso di Capo di Bove che oltre un edificio moderno, tempestato di reperti archeologici, che ospita la biblioteca dedicata ad Antonio Cederna, conserva anche i resti di un importante impianto termale.
    Poco oltre, dopo due ville private e il Mausoleo degli Equinozi, si erge la tomba del liberto Marco Servilio Quarto e la così detta tomba di Seneca, entrambi restaurati da Antonio Canova.
    La tomba di Seneca è in realtà un pilastro che sorge in corrispondenza del punto in cui si ergeva la pietra miliare che segnava il IV miglio dell’Appia. Qui Seneca, il poeta e precettore di Nerone, fece costruire la sua villa, e qui Nerone, ritenendolo una dei principali attori della congiura dei Pisoni, lo fece raggiungere dai messi imperiali e lo indusse al suicidio. Canova aveva decorato il pilastro con numerosi reperti raccolti nelle immediate vicinanze. Oggi la maggior parte di essi sono stati trafugati e sopravvive solo una testa di leone.

    Sepolcro di Seneca.

    Passeggiando tra steli antiche e ville moderne le cui mura esterne mostrano spesso lacerti di epoca antica si incontra il sepolcro dei figli di Sesto Pompeo Giusto. Anche in questo caso il pilastro è stato innalzato da Canova e su di esso ha trovato collocazione un’epigrafe ricostruita quasi per intero. In essa, in esametri, Sesto Pompeo Giusto ricorda i suoi figli morti prematuramente.
    Ancora più avanti una tomba di età sillana restaurata dal Canina, come la così detta tomba di Ilario Fusco, caratteristica perché sotto il frontone triangolare si possono vedere i calchi di cinque busti, quelli originali sono esposti al Museo Nazionale Romano. Al centro una coppia di sposi mostrati nell’atto della Dextrarum Iunctio, il momento culminante del matrimonio romano, e una giovinetta, interpretata come la loro figlia, mentre ai lati si vedono due busti di due figure maschili.
    Canina ricostruì la tomba di Tiberio Claudio Secondino, appartenuta a una famiglia di liberti dell’imperatore Claudio, dove erano sepolti il capofamiglia Tiberio Claudio Secondino, divenuto esattore di banca, messo e copista, sua moglie Flavia Irene e due figli, e il poco distante mausoleo dei Rabiri, una tomba a forma di ara del I secolo dopo Cristo. Nell’edificio tombale Canina murò un rilievo rivenuto nei pressi, oggi sostituito da una copia mentre l’originale è esposto al Museo Nazionale Romano. Dall’iscrizione posta sul rilievo si trae l’informazione che i Rabiri fosse a sua volta una famiglia di liberti. L’iscrizione infatti restituisce i nomi di Gaio Rabirio Ermodoro, liberto di Postumo, di sua moglie Rabiria Demaris, e di Usia Prima, che si definisce sacerdotessa di Iside riconoscibile per la presenza dei relativi simboli del culto egizio. Gaio Rabirio e sua moglie sono ritratti in maniera che suggerisce una separazione dal terzo personaggi. Essi sono i titolari del sepolcro, e non sono ritratti fedelmente, ma con caratteristiche personali piuttosto generiche com’è tipico di questa fase tardo – repubblicana. La datazione è confermata dalla capigliatura della donna che è una variante dell’acconciatura con trecce e cerchio tipica dell’età repubblicana.

    Tomba dei Rabiri.

    Il terzo personaggio è un ritratto molto diverso dai precedenti, innanzitutto perché la donna è ottenuta rilavorando un busto maschile togato; anche lo sfondo del ritratto è stato rilavorato e abbassato di livello per poter inserire nella rappresentazione il sistro, strumento musicale che accompagna sempre la rappresentazione di Iside, e la patera, il piatto delle offerte rituali a Iside stessa. Probabilmente questa aggiunta postuma, poiché sia la capigliatura di Usia Prima che le tecniche di lavorazione fanno collocare il rilievo alla prima metà del I secolo dopo Cristo, è un riferimento al sacerdozio della defunta Rabiria Demaris.
    Poco prima del bivio tra Via Erode Attico e Tor Carbone si trova poi un altro monumento caratteristico: la tomba del Frontespizio, una tomba a torre a cui nell’Ottocento fu aggiunto un timpano triangolare e il calco di un rilievo, l’originale è al Museo Nazionale Romano, che mostra quattro busti: al centro una coppia ripresa nell’atto della Dextrarum Iunctio, e ai suoi lati i busti di un uomo e una donna più giovani. Il rilievo originale risale al I secolo avanti Cristo.

    Roma, 5 luglio 2018

  2. Romanzo

    Memorie di Adriano. Antinoo.

    Marguerite Yourcenar

    Il romanzo “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, concepito tra il 1924 e il 1929, fu prima scritto in forma di dialogo, mai pubblicato, tra il 1934 e il 1937, e

    Marguerite Yourcenar

    solo nel 1948 prese la forma di lunga lettera che l’ormai anziano imperatore Adriano scrive al suo nipote adottivo Marco Aurelio. In questa forma il testo della Yourcernar fu pubblicato nel 1951. Nella lunga lettera l’imperatore riflette sulla sua vita, sulle sue imprese, i suoi amori, le sue scelte con una pacatezza caratteristica di chi, giunto alla fine della sua vita si sente anche pronto a lasciarla. Nonostante ciò dalle parole di Adriano emerge anche il suo sincero attaccamento all’esistenza, un elogio del desiderio di immortalità, il bisogno di affermare che l’amore, la felicità e la bellezza sono gli unici elementi che possono effettivamente garantire l’immortalità. Pubblichiamo uno stralcio del romanzo in cui Adriano parla di Antinoo, del suo amore per il giovinetto, la trasformazione di questi da bambino a giovane adulto e della sua scelta di uccidersi. Lo stralcio è tratto dall’edizione italiana Einaudi del 1963.

    Antinoo era greco: sono risalito, nelle memorie di quella famiglia antica e oscura,

    Adriano

    sino all’epoca dei primi coloni arcadi sulle sponde della Propontide. Ma l’Asia aveva prodotto su quel sangue un po’ acre l’effetto della goccia di miele che rende torbido e aromatico un vino puro. Ritrovavo in lui le superstizioni d’un discepolo d’Apollonio, il culto monarchico d’un suddito orientale del Gran Re. La sua presenza era straordinariamente silenziosa: m’ha seguito come un animale, o come un genio familiare. Aveva le infinite capacità di allegria e d’indolenza d’un cucciolo, la selvatichezza, la fiducia. Quel bel levriero,

    continua…

  3. Lo zoo delle meraviglie: gli animali di pietra a Roma

    L’Urbe offre ai suoi visitatori più attenti un repertorio sconfinato di animali: uno zoo

    Lupa Capitolina – Musei Capitolini.

    delle meraviglie scaturito da un misterioso incantesimo quasi che un mago o una fata avessero trasformato in pietra creature a volte reali, o frutto della fantasia, buone o malvage. A volte si mostrano in tutta la loro fiera bellezza, altre volte si nascondono timidi. Leoni, delfini, salamandre, grifoni: sono loro gli incredibili abitatori delle strade, delle piazze, delle facciate dei palazzi, alcune volte dei tetti delle case e delle chiese, a popolare questo straordinario bestiario di pietra. Sempre raccontano una storia: l’incontro con un gatto o il volo di un uccello possono rappresentare un presagio.
    Le formule magiche o propiziatorie evocano quasi sempre nomi di animali; essi sono per eccellenza le vittime dei sacrifici, simboleggiando l’alleanza con potenze invisibili per ottenere prosperità, gioia e fecondità. Spesso, non se ne accorge alcuno, ma attraversando piazze e vicoli, in fondo, non si è mai soli: statue e raffigurazioni di animali sono i muti testimoni di eventi storici, simboli di miti e di leggende. Ebbene, questo zoo di pietra non attende altro che essere raccontato.
    E allora non si può non iniziare dalla Lupa Capitolina: oggi possiamo ammirarla, piccola, bronzea e leggiadra, sul lato sinistro della piazza del Capidoglio e dimora qui da oltre cinque secoli. La scultura bronzea in origine era nella facciata del Palazzo Laterano e fu donata nel 1471 dal Papa Sisto IV della Rovere al “Popolo Romano”, insieme ad altre sculture bronzee. La grande e importante piazza è condivisa con un secondo animale, molto più grande e possente: il cavallo di Marco Aurelio, voluto sul colle da Papa Paolo III nel lontano 1538. Oggi entrambe le statue esposte all’aperto sono copie. Le originali si possono ammirare all’interno dei Musei Capitolini, a pochi metri di distanza. E ancora, ai piedi della cordonata che sale al colle ci aspettano due leoni egizi in granito nero, nei tempi forati e trasformati in fontanelle. Durante le feste solenni gettavano vino dei castelli invece dell’acqua.

    Marc’Aurelio e Cavallo – Musei Capitolini.

    Tanti i leoni, come quelli che ornano molte fontane romane come quella di Piazza del Popolo, o quelli che accompagnano il visitatore nel salire le scale del Vittoriano, o ancora il leone che assale un cinghiale posto sull’angolo di un palazzo su via dell’Orso. La via parla dell’orso perché nel Medioevo la belva era stata riconosciuta come un orso e non come un leone. Ma ci sono orsi posti all’ingresso di Palazzo Savelli -Orsini a Monte Savello legati alla simbologia araldica familiare. Al pari dei leoni poi sono numerosi i cavalli come quelli celebri dei Dioscuri sulla Piazza del Quirinale;
    In tutta Roma sono numerosi i fregi, le sculture, i mosaici e decori vari, di tutte le epoche, dal periodo classico romano sino al liberty, passando per il razionalismo, dedicate a una fauna estremamente simbolica. Farne un elenco completo sarebbe impossibile, le ritroviamo segnalate frequentemente anche nella toponomastica della città eterna: Via dell’Oca, Via del Gambero, Via della Scrofa, Via della Gatta, Piazza Mattei detta delle Tartarughe, Via dell’Orso, Via dei Serpenti, Via della Palomba e tantissime altre, distribuite in tutti i Rioni. Potremmo aprire una lunga battuta di caccia che incontrerebbe centinaia di animali di pietra.
    Via della Gatta è famosa per il piccolo felino egizio posto in un angolo di un cornicione di Palazzo Grazioli, ritrovato a qualche metro di distanza nel vicino santuario dedicato a Iside. La leggenda racconta che nella direzione in cui guarda la gatta dovrebbe essere sepolto un tesoro, ancora nessuno è riuscito però a trovarlo…
    I passanti frettolosi forse non notano, sopra la facciata della chiesa di Sant’Eustachio, una testa di cervo con la croce fra le corna che sovrasta la chiesa. Una leggenda medievale, narra la storia di Placido, un comandante dell’esercito romano, che fu battezzato cambiando il suo nome in Eustachio dopo aver visto l’apparizione di una croce con l’immagine di Cristo fra le corna del cervo che stava per uccidere.
    Ma anche animali fuori dall’usuale come le tartarughe della fontana di Piazza Mattei, entrata nell’immaginario della città, tanto da essere utilizzata come modello per la realizzazione di altre fontane. La vasca superiore di questa fontana fu realizzata verso la fine del Cinquecento da Giacomo della Porta. La tradizione vuole che il duca Mattei volle dimostrare al padre della sua amata di essere un uomo potente,

    Fontana delle Tartarughe – Piazza Mattei.

    contrariamente a quanto questi ritenesse, facendo erigere la meravigliosa fontana davanti alle sue finestre nell’arco di una sola notte. Le piccole tartarughe bronzee poste simmetricamente furono aggiunte solo più tardi, nel 1658, e la tradizione le attribuisce a Gian Lorenzo Bernini. Più volte trafugate ma sempre tornate al loro posto, furono oggetto di un ultimo furto nel 1981. In questa occasione la tartaruga rubata non fece ritorno al suo posto e per questo motivo le tre superstiti originali furono ricoverate nei Musei Capitolini e sostituite da copie.
    A due passi dal Pantheon, di fronte alla magnifica chiesa di Santa Maria sopra Minerva troneggia un elefantino, chiamato familiarmente il “Pulcin della Minerva”, il nome sembra essere un ingentilimento della parola “porcin” dato dai romani alla statua perché ritenuta tozza. Il simpatico mammifero proboscidato in marmo, realizzato da Gian Lorenzo Bernini nel Seicento. Molti racconti beffardi ne sottolineano le sue terga ben in mostra verso le finestre di un palazzo che ospitava un architetto domenicano rivale del Bernini.
    L’opera del Bernini s’ispira a un’illustrazione dell’Hypnerotomachia Poliphili, un romanzo d’amore del XV secolo, considerato una delle più belle opere prodotte da Aldo Manunzio, di cui il papa Alessandro Chigi possedeva una copia. In questo romanzo il protagonista, Polifilo, incontra un elefante che porta in equilibrio sulla groppa un elefantino. L’elefantino era considerato un simbolo di virtù ed equilibrio, qualità che ciascun credente doveva possedere, supportato dalla sapienza divina,

    Il “pulcin della Minerva” – Gian Lorenzo Bernini – Piazza della Minerva.

    rappresentata dall’obelisco.
    Lasciato l’elefantino, sulla facciata della chiesa di San Luigi dei Francesi troviamo due salamandre che eruttano fiamme. Questo animale ci riporta ad una leggenda asiatica secondo la quale la salamandra alimenta il fuoco benefico mentre spegne quello nocivo. Su di esse compaiono infatti due iscrizioni in latino: nutro ed estinguo e sarà la luce dei cristiani nel fuoco. Sebbene possa sembrare strano l’abbinamento salamandra-chiesa, questo ha ovviamente una valida spiegazione: sin dai tempi antichi, infatti, la salamandra fu associata alla capacità di far fronte alle avversità della vita e alla fede che non vacilla di fronte al fuoco del martirio o delle passioni terrene. Si era infatti convinti che questo animale avesse la capacità di non bruciarsi e addirittura di spegnere il fuoco. Ecco dunque la chiave di lettura cristiana legato alla salamandra: nutro il fuoco della fede e spengo quello delle passioni carnali; esempio inoltre di rettitudine durante le avversità. La corona posta sull’animale indica invece la regalità della casata francese, san Luigi fu infatti sovrano di Francia nel XIII secolo.
    Poi le api. Un vero sciame di api ronza su Roma. Le api dello stemma della famiglia Barberini. Talvolta svolazzano alla luce del sole nella piccola Fontana delle Api del Bernini all’inizio di via Veneto e intorno alla Barcaccia a piazza di Spagna, o alla luce dei ceri nei quattro basamenti in marmo dell’Altare della Confessione nella Basilica di San Pietro, intrappolate nel calcare della Fontana delle Rane a piazza Mincio, talvolta all’ombra dei chiaroscuri degli affreschi di Palazzo Barberini o delle code dei delfini della Fontana del Tritone, ovviamente in piazza Barberini…

    Il Toro del Mattatoio – Testaccio.

    Dal centro storico di Roma, restando sullo stesso lato del Tevere, portiamo la nostra ricerca a Testaccio. Nel cuore del quartiere è da anni presente un grande spazio dedicato all’arte contemporanea. Per il Macro Testaccio è infatti stato restaurato e riorganizzato una grande parte del complesso che fu il Mattatoio di Roma. Il vastissimo complesso, oggi spartito tra Museo e diverse altre realtà culturali, fu progettato sul finire dell’Ottocento da Gioacchino Ersoch. Il nuovo Mattatoio era all’avanguardia per norme igieniche e per lo smaltimento. Un luogo della nostra città dove gli animali non ebbero mai vita facile. All’ingresso del Macro, ovvero di quello che era il Mattatoio, ancora si erige un muscoloso e misterioso toro. Di fronte al Macro, alzando lo sguardo in direzione di, Via Galvani, da un paio di anni è presente un grandissimo lupo, il Jumping Wolf realizzato dal famoso artista Roa. Al calare della sera, proprio in questa zona dell’ex Mattatoio, si possono incontrare molte carrozzelle trainate da stanchi cavalli che rientrano dopo aver trascorso la giornata in giro per la città, trasportando centinaia di turisti a visitare gli altri luoghi della città eterna, quelli citati in tutte le guide di viaggio.

    Roma, 1 luglio 2018.

  4. Il mondo a casa: Villa Adriana

    Il luogo più caro all’imperatore Adriano non fu Roma, e neppure la sua amata Atene, bensì Tivoli, dove Adriano fa costruire, probabilmente almeno in parte sulla base di

    Villa Adriana -Ricostruzione.

    propri progetti, la monumentale villa che porta il suo nome, e i cui resti coprono un’area di oltre 100 ettari. A Villa Adriana la grande tradizione romana della villa di otium, una tradizione peraltro assai presente nel mosso paesaggio tiburtino, con esempi anche significativi, ampia, fantasiosa, lussuosa fino all’eccesso, si incontra con i prestigiosi modelli delle architetture d’apparato delle regge ellenistiche, trovando formulazioni originali tramite l’applicazione delle acquisizioni della tecnica costruttiva di età neroniana e flavia, che favoriscono lo sviluppo di quelle tendenze imposte da Adriano in ambito architettonico anche nell’Urbe, come la predilezione per le formule planimetriche curvilinee e per gli ambienti voltati a cupola.
    La complessità e l’infinita varietà dell’insieme non è tuttavia riducibile a mero sfoggio esteriore di magnificenza e di sfarzo, perché Villa Adriana è molto di più di una residenza imperiale: è forse la più sincera, la più diretta creazione di un uomo dalla complessa personalità, profondamente colto e che conosce il mondo, della cui infinita ricchezza e bellezza intende fare un compendio nel luogo in cui ha scelto di vivere. Sparziano, nell’Historia Augusta, Adriano – 26, ricorda come Adriano avesse riprodotto nella propria villa i luoghi visitati nel corso dei suoi viaggi, come il Liceo e l’Accademia di Atene, templi della filosofia, o il Pecile, che ad Atene conservava

    Villa Adriana – Canopo con Cariatidi.

    opere di alcuni tra i più grandi pittori greci, Polignoto e Micone, o il celebre canale di Alessandria, il Canopo, o ancora la Valle di Tempe in Tessaglia, celebre per le sue bellezze naturali; e sulla base di questo passo per secoli si è cercato di ricostruire questa topografia miniaturizzata tra i resti di Villa Adriana, anche allo scopo di avere informazioni planimetriche sugli edifici originali. Ma non è certo una riproduzione fedele dei monumenti e dei luoghi visitati ciò a cui Adriano mira, quanto piuttosto la costruzione di una geografia ideale, del cuore e dell’intelletto, che sia un serbatoio di ricordi personali e di memorie erudite, ma che sia anche la rappresentazione enciclopedica, onnicomprensiva, del mondo su cui Roma domina. C’è un continuo gioco tra microcosmo e macrocosmo, a Villa Adriana, di cui costituisce un esempio rappresentativo il cosiddetto Teatro Marittimo, l’isolotto artificiale, delimitato da un euripo circolare, che è una sorta di “villa nella villa”, completa di ogni comfort, compresi impianto termale e biblioteca.
    Ed è un’ambizione enciclopedica a informare anche l’apparato decorativo, che fa di Villa Adriana un dovizioso museo, ricco di pitture, di stucchi, di splendidi mosaici, di rilievi e soprattutto di sculture a tutto tondo. Queste ultime, in particolare, sono copie che consentono di ripercorrere idealmente il cammino dell’arte greca, cominciando almeno dal gruppo dei Tirannicidi di Crizio e Nesiote, per proseguire con i maestri del V secolo, da Mirone con il suo Discobolo a Fidia, con l’Amazzone tipo Mattei, a Cresila, con l’Amazzone tipo Sciarra e la Pallade tipo Velletri; ricco il campionario di copie di sculture di IV secolo avanti Cristo, nel quale emerge l’Afrodite Cnidia collocata all’interno di un monoptero di ordine dorico in uno degli angoli più suggestivi dell’intera residenza, forse evocativo della collocazione

    Centauro vecchio – Musei Capitolini.

    originaria dell’opera prassitelica sull’isola di Cnido; ben rappresentata, infine, la scultura ellenistica, con copie di opere assai apprezzate in epoca romana come l’Afrodite di Dedalsa e il gruppo di Eros e Psiche, e di originali di scuola pergamena e rodia, come il Pasquino, il gruppo dell’accecamento di Polifemo e quello di Scilla che assale la nave di Ulisse. Le sculture, così come i rilievi e i mosaici, sono di notevole qualità, prodotti di un artigianato artistico di raffinato tecnicismo, il cui sviluppo è determinato dal fervore edilizio che si diffonde in età adrianea in ogni angolo dell’impero. È questo clima a favorire l’affermazione di scuole di scultori specializzati e itineranti, tra le quali spicca quella di Afrodisia di Caria: eclettici, virtuosi di tutte le tecniche, conoscitori di tutti gli stili, capaci di lavorare con ogni tipo di marmo, gli scultori afrodisiensi, già attivi a Roma nel grande cantiere delle terme di Traiano, lavorano alacremente per Adriano, interpretando con abilità le sue preferenze e i suoi gusti in campo artistico, e realizzando per la sua residenza tiburtina alcune delle opere scultoree più celebri del complesso, come i due Centauri in marmo bigio morato, firmati da Aristea e Papia, oggi ai Musei Capitolini, caratterizzati da un’esasperazione virtuosistica della resa anatomica che ha conosciuto, fin dal loro rinvenimento nel 1736, una fortuna critica altalenante, tra entusiasmi e critiche feroci.
    Divina bellezza: Antinoo
    È un artista di Afrodisia, Antoniano, a firmare uno splendido rilievo, palesemente ispirato alle stele funerarie attiche di V secolo avanti Cristo, nel quale compare,

    Antinoo come Dioniso – Museo Pio – Clementino.

    identificato con Silvano, dio latino dei boschi e protettore dell’agricoltura e delle greggi, la figura più emblematica dell’età adrianea: Antinoo. Antinoo è il giovane, bellissimo favorito bitinio dell’imperatore, morto nel 130, appena ventenne, per annegamento, in circostanze poco chiare, in Egitto, nei pressi di Hermoupolis: un salvataggio nel Nilo dello stesso Adriano?, una disgrazia? un suicidio rituale? un omicidio politico?. La sua figura e la sua relazione con Adriano sono al centro del romanzo più bello, e meglio documentato, ispirato al mondo antico che sia mai stato scritto, le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
    La morte del giovane getta Adriano in una disperazione considerata con disapprovazione dai biografi antichi, e lo conduce a tributargli una serie di onori di gran lunga superiori a quelli normalmente attribuibili a chiunque non sia un imperatore: nel luogo della sua morte fonda una città, Antinopoli, fa celebrare con feste sontuose gli anniversari della sua nascita e della sua morte, e soprattutto incentiva intorno alla sua figura, divinizzata e assurta al cielo sotto forma di costellazione, un culto che si diffonde in varie città dell’impero, ma anche in Italia: il già citato rilievo di Antoniano viene da Lanuvio, dove si trova un tempio per la venerazione del nuovo dio, associato ad Artemide. Gli atti di Adriano sono certo dettati dal dolore; ma dietro essi è probabilmente da leggersi anche un accorto calcolo politico, teso a colmare il vuoto religioso che caratterizza il periodo con un culto unificante, da diffondere in tutto l’impero, strettamente connesso alla casa imperiale, e anzi emanazione dello stesso imperatore.

    Memorie di Adriano – Marguerite Youcenar.

    Il culto di Antinoo probabilmente si spegne poco dopo la morte di Adriano, ma la sua diffusione, per quanto effimera, è dimostrata dalla massiccia presenza delle immagini del giovane in statue, busti, teste-ritratto, gemme, che ne riproducono all’infinito il volto malinconico, dagli occhi allungati e dalle labbra sensuali, dalle linee carnose ed ampie, coronato dalla massa chiaroscurata della capigliatura a folti riccioli corposi, che crea un suggestivo contrasto coloristico con i piani luminosi del viso. Nelle immagini a figura intera Antinoo è assimilato spesso a figure di dèi giovani come Apollo o Dioniso (di cui già l’arte ellenistica aveva enfatizzato le forme molli e sensuali, talvolta quasi androgine) o di personaggi mitici segnati da un destino doloroso, in cui si intrecciano amore e morte, come Ganimede o Attis; assume un significato particolare l’assimilazione ad Osiride, ispirata dal luogo in cui Antinoo ha trovato la morte, ma anche dalla drammatica vicenda mitica di morte e resurrezione della divinità egizia, che verosimilmente costituisce il tema del complesso programma iconografico del triclinio estivo, noto come Canopo, di Villa Adriana. È a proposito dell’elaborazione dell’iconografia di Antinoo che gli storici dell’arte hanno potuto parlare di creazione dell’ultimo tipo di statua atletica classica, spingendosi sino a definire, come ha fatto la studiosa inglese Jocelyn Toynbee in un libro celebre, l’arte adrianea “un capitolo della storia dell’arte greca classica”. Ma il classicismo adrianeo, inquieto, soffuso di malinconia, aperto a contaminazioni e suggestioni, è ben diverso da quello nitido e sereno, rassicurante, dell’età augustea, al punto che Ranuccio Bianchi Bandinelli ha potuto anzi riconoscervi tendenze romantiche, parlando della “prima apparizione di elementi romantici nella cultura europea”.
    Nella scultura ufficiale adrianea, destinata a eternare il ricordo dei riti e delle cerimonie imperiali, le forme classiche di rigore diventano addirittura gelide, come nei due rilievi reimpiegati in età tardoantica nel cosiddetto Arco di Portogallo, in uno dei quali compare l’apoteosi di Sabina, la moglie morosa “bisbetica” e poco amata di Adriano, morta e divinizzata nel 136. Un tono più caldo e sincero assumono gli stilemi classici nei celebri “tondi” reimpiegati nel IV secolo nell’arco di Costantino, che si possono annoverare tra i prodotti più felici dell’arte dell’età di Adriano. I rilievi sono otto, di notevoli dimensioni, oltre due metri di diametro, e presentano episodi di caccia, al cinghiale, all’orso, al leone, alternati a scene di sacrificio, a Diana, a

    Caccia al Cinghiale – Arco di Costantino.

    Silvano, a Ercole, ad Apollo, e uno, che in origine doveva essere il primo della serie, raffigura la partenza per la caccia; secondo il gusto classico, le poche figure si stagliano nitide sul fondo neutro, appena interrotto da elementi paesistici che conferiscono alle composizioni un tono rarefatto, quasi sognante. Nulla è noto circa il monumento di cui facevano originariamente parte questi rilievi, assai singolari sia per la forma circolare che per la scelta del tema venatorio, che inizierà a conoscere una fortuna crescente nella produzione artistica romana soltanto dopo l’età adrianea, nonostante la forte valenza simbolica di cui la caccia, intesa come manifestazione del potere e della virtù del sovrano, era stata investita già nell’arte dell’Egitto faraonico e in quella del Vicino Oriente antico, in quella persiana e infine in quella greca ellenistica di ambiente dinastico, sulla scia delle celebri cacce di Alessandro Magno. Una interessante ipotesi di Filippo Coarelli attribuisce i tondi ad una struttura, forse un arco di ingresso, connessa alla tomba di Antinoo a Roma, alla quale farebbe riferimento l’iscrizione geroglifica su un obelisco oggi eretto tra i vialetti del Pincio, e da localizzare forse nell’area della Vigna Barberini, tra la residenza imperiale sul Palatino e il tempio di Venere e Roma.
    La recente scoperta a Villa Adriana di un’esedra monumentale con una ricca decorazione scultorea di gusto egittizzante, il cosiddetto Antinoeion, ha riaperto la questione della tomba di Antinoo; ma sembra incontestabile l’idea di un rapporto particolare delle scene dei tondi dell’arco di Costantino con la figura del favorito imperiale. In effetti il giovane bitinio compare in tutti i tondi, ad eccezione di quello che raffigura il sacrificio ad Apollo; nella serie dei rilievi sarà forse da leggersi una sorta di “storia sacra” della vita del favorito imperiale, scandita, con un chiaro

    Caccia al Leone – Arco di Costantino.

    intento di eroizzazione, dalla sua partecipazione al fianco di Adriano, appassionato di arte venatoria, come sappiamo dalle fonti antiche, a battute di caccia, compresa quella, da riconoscere nel tondo con la caccia al leone, nel deserto egiziano, in cui il giovane aveva rischiato la vita proprio pochi giorni prima della sua tragica fine ad Hermoupolis; la sequenza doveva concludersi proprio con il sacrificio ad Apollo, in cui il giovane non compare perché già divinizzato ed assimilato al dio delfico. Il tema della composizione si configura dunque come assolutamente inedito, privo di precedenti nella tradizione dell’arte ufficiale romana, perché intimamente legato al vissuto dell’imperatore, al suo privato, per quanto rielaborato in un monumento rivolto al pubblico; e l’abusato linguaggio formale classico trova accenti di rinnovata autenticità per esprimere i sentimenti di un uomo cui la Yourcenaur fa dire: «L’impero, l’ho governato in latino […]; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto».

    Roma, 30 giugno 2018