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  1. Artemisia

    di Giuseppe Frangi

    Artemisia Gentileschi è un’artista soffocata dalla curiosità che la circonda.

    Giuditta e la fantesca – Artemisia Gentileschi

    La vicenda dello stupro subito da un amico del padre Orazio, anche lui pittore, sembra averne definito il profilo non solo biografico ma anche artistico.
    Ogni suo quadro viene letto in rapporto a quel drammatico fatto; in particolare la frequenza di soggetti di carattere biblico in cui donne come Giuditta o Dalila fanno giustizia di uomini è interpretato come vendetta per la violenza subita.
    La mostra in corso in queste settimane a Roma a Palazzo Braschi rende invece finalmente giustizia ad Artemisia come pittrice, grazie ad un approccio molto scientifico, senza concessioni al gossip. Una mostra da non perdere.
    Resta però aperta una questione affascinante: che cosa significava essere donna e voler essere pittrice in una società come la Roma di quell’inizio ‘600? Vero che Artemisia era figlia di un artista e quindi questa “anomalia” trova una mezza spiegazione.
    Tuttavia la sua avventura contiene comunque qualcosa di sfidante.

    Giuditta che decapita Oloferne – Artemisia Gentileschi

    Questo Autoritratto, conservato nelle raccolte reali inglesi, è bellissimo perché aiuta a rispondere a quella domanda (purtroppo non è arrivato per la mostra che pur è completissima di opere): si vede Artemisia messa di tre quarti, con la mano destra sollevata verso la tela mentre con la sinistra tiene la tavolozza.
    Il quadro rappresenta un’allegoria della pittura ed è affascinante capire come Artemisia abbia costruito quest’immagine in cui lei non guarda frontalmente come se fosse davanti ad uno specchio e in cui non rovescia la figura, in quanto la vediamo comunque dipingere con la destra.
    Come può aver catturato un’immagine così? Gli autoritratti al maschile in genere sono sempre degli esercizi a volte straordinari di narcisismo. Sono prove in cui si afferma con forza l’autocoscienza dell’essere artisti. Artemisia invece ha un sguardo diverso, molto femminile: al centro non mette se stessa ma ciò verso cui sta guardando, con un occhio teso, quasi commosso.
    La linea di forza del quadro porta infatti fuori dal quadro, là sulla sinistra dove qualcuno o qualcosa è in posa.

    Maddalena – Artemisia Gentileschi

    La ragione e il fondamento della pittura secondo Artemisia non stanno quindi nelle capacità espressive dell’artista, quanto nell’attrattiva che la realtà esercita su di lui.
    Tutto nel quadro accompagna questa sensazione: lo sguardo concentrato, il volto che ruotando si allunga, l’orientamento di tutto il corpo che si sporge oltre la tela per meglio guardare, la capigliatura molto semplice e dimessa di chi ha cose più interessanti da fare che non agghindarsi in vista dell’autoritratto. È una vera allegoria della pittura, che ci dice come essa sia un esercizio di stupore più che una prova di forza.

    Roma, 4 marzo 2017

  2. La lingua dei Romani. Il più vistoso monumento alla civiltà della parola umana

    La lingua più parlata al mondo? Il latino. “Non solo quel che resta del latino ecclesiastico né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari” ha scritto l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis.

    Iscrizione dell’edicola dei suonatori di strumenti in bronzo

    “Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di parlanti latino”.
    A questa lingua bellissima sono stati dedicati molti libri non specialistici. Ad esempio Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini, professore di letteratura italiana all’Università di Oxford. Secondo lo studioso, il latino è, molto semplicemente, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo. In latino, un pensatore rigoroso e tragicamente lucido come Lucrezio ha analizzato la materia del mondo; il poeta Properzio ha raccontato l’amore e il sentimento con una vertiginosa varietà di registri; Cesare ha affermato la capacità dell’uomo di modificare la realtà con la disciplina della ragione; in latino è stata composta un’opera come l’Eneide di Virgilio, senza la quale guarderemmo al mondo e alla nostra storia di uomini in modo diverso. Gardini incoraggia il lettore a dialogare con una civiltà che non è mai terminata perché giunge fino a noi, e della quale siamo parte anche quando non lo sappiamo. Una lingua, quella latina, tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità con la forza che solo le cose “inutili” sanno meravigliosamente esprimere.

    Iscrizione a Fannius, un membro degli Ubii, le guardie del corpo germaniche dell’imperatore Nerone

    Il latino ha rappresentato durante gli ultimi tremila anni la più autentica espressione della nostra civiltà. È stata non solo la lingua dei nostri antenati Romani, come Plauto e Terenzio, Cicerone o Virgilio, Seneca e Plinio, oppure ancora di Stazio e Quintiliano, Marziale o Tacito, Svetonio e Gellio, o più tardi di Ausonio e Claudiano, Ammiano Marcellino, Ambrogio o Agostino, ma con autori come Boezio e Cassiodoro, Gregorio di Tours ed Isidoro di Siviglia, il latino riuscì a sopravvivere alla caduta dell’Impero Romano, e poté rimanere in uso durante tutto il Medioevo, come lingua del diritto, della filosofia e della teologia, avendo il suo apice espressivo in Tommaso d’Aquino.
    Il latino risorse con una nuova forza nel Rinascimento, nella straordinaria fioritura delle arti e delle scienze, come mezzo eterno di comunicazione tra tutte le nazioni, con accenti e suoni tanto diversi come nell’olandese Erasmo, il polacco Copernico, il francese Cartesio, l’inglese Newton, il tedesco Leibniz o lo svedese Linneo, tutti uniti nella comune lingua, il latino.
    A dispetto della ricchezza della nostra cultura millenaria, molti sono stati portati a credere che il latino sia morto con l’ultimo dei Romani. Non è esattamente così, poiché essa è “una lingua che ancora ci parla”, per dirla con le parole di Eva Cantarella, storica dell’antichità e del diritto antico.
    Il Museo Nazionale Romano, di cui le Terme di Diocleziano fanno parte, raccoglie un patrimonio unico al mondo con circa 10.000 iscrizioni, che accompagnano il lungo cammino della civiltà romana dalla nascita della città di Roma fino alla fine dell’impero e rappresentano oggi un potente mezzo per illustrare gli aspetti sociali, politico-amministrativi, economici e religiosi del mondo antico. La raccolta, formata da collezioni storiche, come quelle del Museo Kircheriano, e dai reperti provenienti dai grandi interventi per la costruzione di Roma Capitale, si arricchisce ancora oggi dei materiali rinvenuti nel territorio dell’area comunale romana.

    Iscrizione funeraria di Gaio Pompeio Procolo

    Le iscrizioni sono della natura più varia. Accanto a quelle legate al mondo funerario, come quella per Gaio Pompeio Procolo, terzo figlio di Gaio, che apparteneva dalla XVIII Legio dell’esercito romano dove ricopriva, come ci informa l’epigrafe, il ruolo di praefectus fabrum, il cui compito era di comandare e coordinare il genio militare, possiamo ricordare quella molto particolare che è l’orazione funebre per la liberta Allia Potestas. La lastra fu rinvenuta in più parti durante gli scavi per un parcheggio in un’area presso Via Pinciana alla fine dell’Ottocento, un’area che appariva occupata da un vasto sepolcreto che si estendeva a raggiungere gli Horti Sallustiani.
    La datazione del testo è controversa ma da una serie di considerazioni, non ultima il fatto che nel testo stesso si dice Allia Potstas fu cremata, l’ipotesi più accreditata suggerisce una datazione non successiva alla fine del II secolo o all’inizio del III secolo dopo Cristo. L’autore del testo, generalmente riferito come Allio, dimostra una certa abilità compositiva, dimostra di avere una certa abilità nell’uso dell’esamero e del pentamero, e di conoscere Ovidio, della cui influenza è pervaso tutto il poema.
    Nel testo si descrivono innanzitutto le virtù di Allia che era “forte, morigerata, parsimoniosa, irreprensibile, custode fidatissima, curata in casa, fuori casa curata quanto basta, ben nota a tutti, era la sola che potesse badare a tutte le faccende; faceva parlare poco di sé, era sempre immune da critiche.

    Poema sepolcrale dedicato ad Allia Potestas

    La prima a scendere dal letto, per ultima vi andava a dormire dopo aver posto in ordine ogni cosa; mai senza ragione la lana si allontanò dalle mani, nessuna le fu superiore nel rispetto e nei sani costumi”. Quindi segue una descrizione della donna: carnagione chiara, occhi belli, capelli dorati, seni piccoli e gambe tanto belle che al confronto Atlanta avrebbe dovuto nascondere le sue. E poi i versi che hanno forse maggiormente attratto la critica perché Allia Potestas “mentre era in vita mantenne l’affetto tra due giovani amanti, cosicché divennero simili all’esempio di Pilade e di Oreste: una sola casa li accoglieva, avevano un’unica anima. Dopo la sua morte ora quegli stessi invecchiano separati l’uno dall’altro; ciò che una tale donna costruì, ora parole offensive danneggiano”.
    L’autore del testo è triste ed amareggiato per la morte di Allia. Spera che questi versi possano essere un dono gradito alla defunta “egli, che vive senza di te, è come se vedesse da vivo i propri funerali. Al braccio porta di continuo il tuo nome, unico modo per trattenerti con sé, unita all’oro, POTESTAS ….. In luogo tuo, per mia consolazione, tengo un’immagine, che venero religiosamente e molte ghirlande le sono offerte, quando verrò da te, (la tua statua) mi seguirà, compagna (nel sepolcro)”.
    C’è un’iscrizione proveniente dall’edicola dei suonatori degli strumenti in bronzo che si trovava nell’area del santuario, attribuito alle Curiae Vetres, del Palatino dopo la sua sistemazione in età augustea. In questa fase il santuario viene corredato da una platea di accesso e da un’ampia gradinata in travertino che saliva verso il Palatino. In questi spazi i suonatori di strumenti in bronzo, impiegati nelle principali cerimonie pubbliche, cominciano ad innalzare statue ai principi, da Augusto a Tiberio, a Claudio a Nerone e a sua madre Agrippina.
    Per ospitare queste statue verrà costruita un’edicola, con fronte colonnato, addossata alla parete del temenos del santuario, da cui proviene l’iscrizione conservata.

    Forma Urbis di Via Anicia

    Tra i reperti più interessanti, un frammento di mappa catastale della città di Roma, risalente alla prima metà del II secolo dopo Cristo, rinvenuto a Trastevere, nei pressi della via Anicia. Insieme alla Forma Urbis Severiana, la celebre grande pianta dell’età di Settimio Severo, questo frammento è uno dei pochi e preziosi esemplari di planimetrie antiche. In scala 1:240, riproduce la zona del Campo Flaminio, lungo il Tevere, nei pressi dell’attuale Piazza delle Cinque Scole: sono riconoscibili, grazie all’iscrizione, il Tempio dei Dioscuri e una fila di tabernae su cui è iscritto il nome dei proprietari: Cornelia e i suoi soci.
    Alcune iscrizioni forniscono poi altre informazioni sulla vita quotidiana della Roma antica. Ad esempio una delle più singolari è riportata alla base del ritratto a figura intera di un soldato dal corpo tozzo e massiccio, posto all’interno di una nicchia delimitata da una colonna.
    L’abbigliamento del soldato è piuttosto semplice, privo di elmo e di corazza, e può essere considerato come la tenuta di riposo del pretoriano: una semplice tunica lunga fino al ginocchio, stretta subito sotto la vita da una cinta, il cingulum, con grande fibbia e il mantello, sagum, fissato sulla spalla destra. Una corta spada pende dal balteus, la speciale cintura militare romana qui portata a tracolla, mentre nella mano destra è stretto il pilum, una sorta di giavellotto che costituiva l’armamento tipico del pretoriano e che, in questo caso è raffigurato come una lunga asta a spirale. L’iscrizione riporta il nome del pretoriano, il numero della coorte pretoria in cui egli aveva militato, la IX, e il nome del suo centurione.

    Collare da schiavo

    Un’altra testimonianza particolare è rappresentata dai collari che spesso cingevano il collo degli schiavi, in modo da evitare la marchiatura a fuoco dell’uomo.
    Quella conservata nel Museo Epigrafico, di provenienza sconosciuta, ma databile tra il IV e il VI secolo dopo Cristo, comprende anche una medaglietta che riporta: “Fugi, tene me, cum revocuveris me domino meo Zonino, accipis solidum”.
    Ovvero: Sono fuggito, quando mi riporterai dal mio padrone Zonino, riceverai un solido.
    La somma di un solido rappresenta la ricompensa, modesta, prevista dalla legge èer la restituzione di uno schiavo fuggitivo.

    Roma, 22 gennaio 2017

  3. Napoleone, i Napoleonidi e Roma. Storia di un legame controverso.

    Napoleone non mise mai piede a Roma. Eppure, conquistare la Città Eterna aveva sempre rappresentato nel suo immaginario il rinnovamento dei fasti dell’antico impero romano.

    Napoleone sul campo di battaglia - Joseph Chabord

    Napoleone sul campo di battaglia – Joseph Chabord

    Per questo considerava l’Urbe seconda solo a Parigi.
    Quanto tutta l’Europa occidentale, dal Mare del Nord al Mediterraneo, dalla Spagna alla Polonia, era ormai nelle sue mani, nel 1810 Bonaparte aveva sposato in seconde nozze Maria Luigia d’Asburgo, figlia dell’imperatore d’Austria. E grazie a quel nuovo matrimonio, il figlio tanto atteso e mai avuto dalla prima moglie Giuseppina Beauharnais, finalmente venne al mondo. Gli fu imposto il nome di Napoleone e il titolo altisonante di «re di Roma». Come seconda reggia imperiale, degna di accogliere l’imperatore, la nuova consorte imperiale e il piccolo re, si scelse il Palazzo del Quirinale, la residenza dove il papa esercitava soprattutto il suo potere temporale e risiedeva ormai per lunghi periodi.
    La sconfitta di Waterloo del 18 giugno del 1815 segnò la fine dell’età di Napoleone Bonaparte. Ma non dei cosiddetti “napoleonidi”, vale a dire di quel drappello di suoi parenti che o si erano stabiliti a Roma da molti anni, o vi sarebbero giunti dopo la caduta dell’imperatore francese. Alcuni protetti addirittura da quel Pio VII, papa assai bistrattato da Napoleone che era arrivato a farlo prelevare con la forza dal Quirinale e poi rinchiudere per tre anni (agosto 1809 – giugno 1812) nel vescovado di Savona, in totale isolamento.
    Intensi furono i legami della famiglia di Bonaparte con Roma. Legami stretti con la forza delle armi già dal 1808, in seguito all’occupazione francese di Roma. La città diventò nel 1811 “città libera ed imperiale”, destinata ad essere governata da Napoleone, il primogenito di Bonaparte, re di Roma di nascita e di imposizione.
    Insomma, dopo la caduta dell’Impero, quasi tutti i componenti della famiglia Bonaparte chiesero asilo a papa Pio VII e si stabilirono a Roma:

    Giuseppe Primoli e sua madre Carlotta Bonaparte

    Giuseppe Primoli e sua madre Carlotta Bonaparte

    la madre Letizia Ramolino a Palazzo Rinuccini, i fratelli Luigi e Girolamo rispettivamente a Palazzo Mancini Salviati e a Palazzo Nuñez, la sorella Paolina, dopo un lungo viaggiare per l’Europa, ormai ammalata fu riaccolta in casa da Camillo Borghese e morì a Roma.
    Ma il vero iniziatore del “ramo romano” dei Bonaparte fu il fratello “ribelle” dell’imperatore, Luciano, che nel 1804, in aperto dissidio con Napoleone, e costretto a lasciare Parigi e la vita pubblica, si trasferì a Roma fin dal 1805. Uno dei figli di Luciano, Carlo Luciano che aveva sposato la cugina Zenaide, figlia di Giuseppe Bonaparte, era nata Carlotta, la quale sposò nel 1848 il conte Pietro Primoli.

    Pietro Primoli e Carlotta dopo la proclamazione del Secondo Impero, si trasferirono con la famiglia alla corte di Napoleone III, così il loro figlio Giuseppe (1851-1927) ebbe modo di formarsi nella capitale francese frequentando i salotti letterari delle zie Matilde e Giulia Bonaparte.

    Giuseppe Primoli

    Giuseppe Primoli

    Colto, appassionato bibliofilo, abile fotografo, Giuseppe visse tra Roma e Parigi ed ebbe intensi rapporti con gli ambienti letterari e artistici delle due città.
    Nel vivace e stimolante ambiente parigino egli assorbì il gusto e il piacere per una vita intessuta di relazioni mondano-letterarie e gli anni dell’esperienza francese, interrotta bruscamente alla caduta del secondo Impero nel 1870, assunsero nella sua memoria un valore quasi mitico. Ritornato a Roma nel 1870, Giuseppe Primoli approfondì la conoscenza della cultura italiana del tempo: frequentò scrittori e giornalisti come Boito, Giacosa, la Serao, D’Annunzio e le redazioni di giornali come il Fracassa, il Fanfulla della Domenica o Cronaca Bizantina, che rappresentavano in quel momento il crogiolo più vivace della nuova generazione di intellettuali italiani.
    Per tutta la vita egli sentì profondamente il retaggio della discendenza Bonaparte, tributando quasi un culto alla famiglia materna. In un primo tempo coltivò l’idea di scrivere la storia segreta della famiglia Bonaparte raccogliendo una notevole documentazione sia dalla tradizione orale che dagli archivi. Successivamente dedicò le sue energie alla formazione di quella straordinaria raccolta che forma ora il Museo Napoleonico.

    Giuseppe Primoli - Fotografia

    Giuseppe Primoli – Fotografia

    Nel suo palazzo romano Primoli riunì le opere d’arte, le memorie, i cimeli, gli oggetti legati alla storia della famiglia Bonaparte che con passione andava raccogliendo sul mercato antiquario e che accrebbero il cospicuo nucleo che egli già possedeva per eredità familiare. Il criterio che lo ispirò nella ricerca e nella raccolta, e che costituisce peraltro uno dei principali motivi dell’interesse e del fascino del museo, è quello di documentare, non tanto l’epopea napoleonica, quanto la storia privata della famiglia Bonaparte.
    Alla morte di Giuseppe Primoli il compito di ultimare la sistemazione della casa – museo fu affidato al conte Diego Angeli, che era legato da un’antica amicizia al defunto.
    L’attuale sistemazione del museo, frutto dei recenti lavori di restauro delle sale, ha conserva il più possibile il primitivo ordinamento, poiché già questo costituisce un’interessante testimonianza del gusto non solo artistico, ma anche dell’abitare, di un’epoca che sta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
    Gli spazi non prescindono, e non potrebbero farlo, dalla figura di Bonaparte, ma la sua immagine ci viene restituita non da tutta la ritrattistica ufficiale e dalla consacrazione imperiale, ma filtrata dalla dimensione privata. Troviamo perciò dipinti all’olio e acquerelli, sculture in cera o miniature dei maggiori artisti dell’epoca, grazie ai quali il ritratto dell’imperatore, dell’uomo potentissimo, diviene dono o memoria e può essere inserito e goduto nell’intimità domestica, perdendo quasi completamente quell’aura di potere che pure era associata alla sua persona.

    Abiti - Museo Napoleonico

    Abiti – Museo Napoleonico

    Così, passando di sala in sala si segue l’avvicendarsi dei matrimoni, delle nascite, delle relazioni affettive, si leggono i segni lasciati dal tempo e dalle travagliate vicende di vita sui volti, s’intuiscono personalità e caratteri. Ma, al di là della pura e semplice immagine fisica, le figure, anche non di primo piano della famiglia Bonaparte, emergono con le loro vicende individuali, i loro gusti, le loro preferenze, amori e leggende attraverso la ricchissima varietà di materiali conservata nel Museo.
    Dai dipinti alle sculture, dai mobili agli oggetti di uso quotidiano, dalle tabacchiere preziose agli album di ricordo, dai disegni ai gioielli, dai libri agli abiti, ogni singolo oggetto viene ad acquistare una duplice possibilità di lettura: quale documento dell’arte e del gusto di un’epoca e quale testimone di un frammento di storia familiare. Così la compresenza di opere profondamente diverse, sia come genere che come qualità, acquista un particolare e felice equilibrio, permettendo un libero gioco di analogie, rimandi e associazioni.
    L’edificio che racchiude il Museo Napoleonico risale al secolo sedicesimo; appartenne prima alla famiglia Gottifredi – tale proprietà è ancora indicata nella pianta del Nolli del 1748 – poi, alla fine del settecento, passò ai Filonardi.

    Sala "Il re di Roma" - Museo Napoleonico

    Sala “Il re di Roma” – Museo Napoleonico

    Tra il 1820 e il 1828 fu acquistato dal conte Luigi Primoli.
    A seguito delle radicali modifiche della zona dovute alla costruzione dei muraglioni del Tevere e all’apertura di Via Zanardelli, il conte Giuseppe Primoli, che nel 1901 era rimasto l’unico proprietario dell’edificio, affidò all’architetto Raffaele Ojetti la ristrutturazione del palazzo. La vecchia facciata su Piazza dell’Orso fu demolita e fu aggiunto un nuovo corpo di fabbrica con logge angolari, mentre su Via Zanardelli fu creato un ingresso monumentale; l’edificio fu sopraelevato ed ebbe su Piazza di Ponte Umberto una nuova facciata. I lavori terminarono nel 1911.
    Il pianoterra, donato da Giuseppe Primoli con le raccolte napoleoniche al Comune di Roma nel 1927, conserva in alcune sale i soffitti del Settecento a travetti dipinti, mentre i fregi che corrono lungo le pareti delle sale VIII, IX, X, risalgono ai primi decenni dell’Ottocento quando il palazzo era passato già in proprietà dei Primoli. I fregi della III e V sala, come indicano il “leone rampante” dei Primoli e “l’aquila” dei Bonaparte, sono successivi al matrimonio di Pietro Primoli con Carlotta Bonaparte, avvenuto nel 1848.

    Elisa Bonaparte Baciocchi con la figlia Napoleona - Francois Gerard

    Elisa Bonaparte Baciocchi con la figlia Napoleona – Francois Gerard

    Le maioliche di Napoli del primo ottocento – applicate ai pavimenti delle sale III, IV, V, IX, X – provengono dal demolito palazzo Porcari – Senni in Via Aracoeli; il portale della sala III, degli ultimi anni del Settecento, è stato recuperato dalla demolizione della Cappella dell’Ospedale di Pio VI in Borgo Santo Spirito. Il Palazzo è anche sede della Fondazione Primoli, creata dal Primoli stesso, e della Biblioteca Primoli, composta di oltre trentamila volumi di letteratura, storia e arte.

  4. Galleria Doria Pamphilj: dove i mecenati incontrano gli artisti

    La famiglia Doria Pamphilj.
    Insigni a Gubbio fin dal Medioevo, i Pamphilj si trasferirono a Roma alla fine del ‘400 con Antonio, procuratore fiscale di Innocenzo VIII.dp4 La fortuna della famiglia è dovuta a Giovanni Battista nato nel 1574, pontefice col nome di Innocenzo X dal 1644 al 1655. Non mancano, nella lunga e affascinante storia della famiglia, i cardinali: Girolamo, Camillo – che rinunciò alla porpora nel 1647 –, Benedetto.
    Furono principi, di San Martino al Cimino e di Valmontone. Duchi, di Montelanico e di Carpineto. E marchesi di Montecalvello. Si estinsero con Anna, sposa nel 1671, di Giovanni Andrea III Doria Landi. Questo ramo della famiglia genovese era salito a notevole potenza con Andrea I, il grande ammiraglio al quale Carlo V concesse nel 1531 il titolo di principe di Melfi. Non avendo figli, Andrea aveva adottato il nipote Giannettino, ucciso nel 1547 in una congiura. Il figlio di Giannettino, Giovanni Andrea I, partecipò alla battaglia di Lepanto. E il figlio di questi, Giovanni Andrea II sposò nel 1627 Maria Polissena Landi, figlia ed erede di Federico Landi principe di Valdetaro e signore di Bardi e Compiano. Grazie alle nozze, tutti i feudi dei Landi passarono ai Doria.
    Il trasferimento dei Doria a Roma avvenne in occasione di un altro matrimonio: quello di Giovanni Andrea III con l’ultima discendente dei Pamphilj. A cui seguì il matrimonio di Andrea IV con Leopoldina di Savoia Carignano. Altri cardinali andarono ad arricchire il prestigio dei Doria Landi Pamphilj nel XVIII secolo: Antonio Maria, Giuseppe Maria e Giorgio. Fino a Filippo Andrea VI, primo sindaco di Roma dal 10 giugno 1944 al 10 dicembre 1946. La famiglia continua oggi con gli eredi della principessa Orietta e di Frank Pogson Doria Pamphilj.dp3
    Il palazzo. Il primo nucleo urbano, da cui nascerà palazzo Doria Pamphilj, risale alla metà del ‘400. Passato di mano a varie famiglie, l’edificio sorse tra il 1505 e il 1507 sulla via Lata (attuale via del Corso) con un cortile rettangolare a colonne, sopraelevato del piano superiore soltanto sul lato orientale, con appartamenti su due piani sui lati meridionale e orientale e due giardini. Il cortile è derivato da quello della Cancelleria ed è stato attribuito a Bramante. Mentre l’edificio era in costruzione, papa Giulio II si recò a visitare la fabbrica e convinse il proprietario di allora, il cardinale Giovanni Fazio Santorio a donarlo a suo nipote Francesco Maria I della Rovere duca di Urbino. E il cardinale ubbidì, morendo di lì a poco, di crepacuore. Ai Della Rovere si deve il completamento del portico, trasformato nel XVIII secolo in scuderia, e poi inglobato nell’ala che dà su via della Gatta.
    Nel 1601, il palazzo fu acquistato dal cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII. Gli Aldobrandini lavorarono ininterrottamente nell’edificio dal 1601 al1647, costruendo le due ali che prospettano sui lati lunghi del cortile dei melangoli. Su queste si alzano due altane con ricca decorazione: quella meridionale è del periodo Aldobrandini e reca gli elementi araldici del loro stemma; l’altra fu aggiunta sessant’anni dopo ad opera di Camillo Pamphilj e di Olimpia Aldobrandini.
    I lavori del cardinal Pietro Aldobrandini furono continuati dal nipote, il cardinale Ippolito nelle ali nord e sud del giardino dei melangoli e nella decorazione dei saloni dell’ala meridionale.
    Nel 1644 il cardinale Giovanni Battista Pamphilj ascese al soglio di Pietro col nome di Innocenzo X. Fu quello il momento in cui salì sul firmamento romano l’astro dei Pamphilj; il nipote del pappa Camillo sposò nel 1647 Olimpia Aldobrandini principessa di Rossano che gli recò in dote il palazzo del Corso. Ma solo dopo la morte del pontefice i Pamphilj poterono lasciare il palazzo di famiglia a Piazza Navona e dedicarsi all’ampliamento di quello del Corso. Di tale ampliamento fu incaricato Antonio del Pozzo. L’edificio era stato eretto nel ‘500 dal cardinal Antonio Maria Salviati sulla Piazza del Collegio Romano e ne occupava gran parte togliendo luce al Collegio dei Gesuiti con la sua mole che prospettava verso via Piè di Marmo.dp2 Nel 1659 Alessandro VII ne decise l’acquisto dal duca Giacomo Salviati. Fu così creata l’attuale piazza del Collegio Romano e i Pamphilj poterono costruire l’ala del loro palazzo che vi prospetta. I lavori compresero la costruzione dell’ala dietro la chiesa di Santa Maria in via Lata; Antonio del Grande, oltre a curare in ogni particolare l’architettura degli esterni, progettò lo scenografico vestibolo del palazzo e la scala in angolo con via della Gatta. La costruzione durò dal 1659 al 1663. Dopo la morte del principe Camillo, proseguì la decorazione degli interni del palazzo ad opera dei figli. Ad Antonio del Grande successe nella direzione dei lavori Giovanni Pietro Moraldi e Carlo Fontana. Quest’ultimo rimarrà architetto della famiglia fino al 1714.
    Intanto, il palazzo era rimasto fin allora con una facciata inadeguata su via del Corso; fu il principe Camillo junior, figlio di Giovanni Battista a prendere l’iniziativa della costruzione di una nuova facciata: l’architetto Gabriele Valvassori, ancora alle prime armi, la eseguì tra il 1731 e il 1734.
    La Galleria Doria Pamphilj. È una grande collezione privata esposta nei quattro bracci affacciati sul cortile interno con le sue splendide arcate rinascimentali, così come nelle due grandi sale adiacenti, la Sala Aldobrandini e quella dei Primitivi, si concentrano la maggior parte dei capolavori della collezione privata della famiglia.dp5
    Costruita sul nucleo originario datato ai primi del Cinquecento la galleria è anche la parte di Palazzo Doria Pamphilj che nasconde la storia più antica e interessante, una storia fatta di nobiltà, politica e unioni tra alcune delle più grandi famiglie nobiliari italiane. Come tutto il palazzo, la Galleria è quindi il risultato di evoluzioni, annessioni e allargamenti che si sono succeduti per ben 500 anni per giungere a presentarsi oggi ai nostri occhi in tutto il suo secolare splendore. L’ampia raccolta di pitture, arredi e statue che comprendono lavori di Jacopo Tintoretto, Tiziano, Raffaello Sanzio, Correggio, Caravaggio, Guercino, Gian Lorenzo Bernini, Parmigianino, Velázquez e molti altri artisti importanti. Composta da sale e gallerie splendidamente decorate, la galleria ospita da secoli vari capolavori: la serie delle Lunette Aldobrandini, di Annibale Carracci, una Lotta di Putti di Guido Reni, quasi una rappresentazione della lotta di classe fra amorini abbronzati (plebei) e pallidi (nobili), eseguita per ringraziare il marchese Facchinetti, dopo che l’ artista aveva rischiato un lungo soggiorno in prigione a causa di una lite con l’ Ambasciatore di Spagna.dp1 Il Camerino contiene il capolavoro della raccolta, il Ritratto di Innocenzo X, tela di Velázquez, la cui esecuzione s’inserì nella politica internazionale del tempo, segnata dal riavvicinamento del papato alla Spagna. L’immagine potentissima ritrae con assoluto realismo l’aspetto e l’animo del pontefice. Quell’impresa fu subito famosa a Roma, dove però non produsse influenze fra gli artisti locali, come evidenzia il confronto con uno dei due busti ritratto dello stesso papa, eseguito in marmo da Gian Lorenzo Bernini e ospitato nello stesso ambiente. Nella bellissima Galleria degli Specchi sono affissi grandi specchi, i quali erano allora incomparabilmente più costosi di qualsiasi dipinto o scultura. Vennero fatti venire da Venezia, con cura e impegno economico importanti anche per il delicato trasporto. Furono poco dopo collocate qui le molte statue, in gran parte archeologiche, e il grande vaso in porfido egiziano, fra i maggiori esempi del genere, realizzato poco oltre metà Seicento.