prima pagina

  1. Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà

    La mostra a cura di Daniela Fonti, responsabile scientifico dell’Archivio dell’Opera di

    Duilio Cambellotti, ritratto 1898.

    Duilio Cambellotti di Roma e Francesco Tetro, ideatore e direttore del Civico Museo “Duilio Cambellotti” di Latina [1], raccoglie circa duecento opere del pittore, scultore, incisore, designer, ceramista e scenografo romano Duilio Cambellotti, 1876-1960, provenienti da ambedue gli istituti regionali [2], apportando un nuovo, imprescindibile contributo alla conoscenza della sua poliedrica produzione.
    Appresi i rudimenti dell’arte sin dall’età di dieci anni, dal padre scultore in legno, tra il 1893 e il 1895 Cambellotti frequentò il Museo Artistico Industriale sotto la guida di Alessandro Morani e Raffaello Ojetti. Tra la seconda metà degli anni novanta e il primo decennio del Novecento si affermò quale disegnatore di manifesti, lampade, specchi e cornici per ditte italiane e straniere, iniziando a collaborare con celebri riviste, quali Novissima, Il Tirso e La Casa, e autori di opere illustrate, come De Fonseca e Amantea, e a realizzare scenografie e costumi per spettacoli teatrali, tra cui La nave di D’Annunzio.
    Interessato alla xilografia a partire dal decennio seguente, sino agli anni cinquanta prese parte a una serie di esposizioni nazionali e internazionali, Vetrata Artistica, Internazionale di Arti Decorative di Monza, Società Amatori e Scultori di Roma, e offrì il suo contributo alla decorazione e all’arredamento di chiese e palazzi pubblici, mantenendo sempre saldo il suo legame con il mondo del teatro, come testimoniato dalla progettazione e realizzazione delle scenografie e dei costumi per gli spettacoli classici del Teatro greco di Siracusa [3].
    Se i rapporti con l’architetto e archeologo Giacomo Boni lo avvicinarono alla

    Locandina per il Teatro Greco di Siracusa – Duilio Cambellotti.

    fotografia, alla grafica pubblicitaria, ma anche alla realtà sociale della campagna romana e dell’Agro pontino, gli insegnamenti del Morani lo resero sensibile al recupero delle tecniche più antiche, dall’affresco, alla vetrata, al mosaico, all’encausto [4]. E se nella produzione ceramica si percepiscono influenze dalla tradizione popolare italiana e dal Medio e Vicino Oriente [5], nei rilievi, nei cofanetti in legno, nei vasi, nelle medaglie e nelle altre opere plastiche emerge quell’ispirazione classica, contaminata dalle teorie dell’“Arts and Crafts” inglese, che riflette la sua concezione dell’arte quale “mezzo per la diffusione della cultura presso le masse contadine”, in accordo con la funzione sociale dell’arte secondo Morris. [6].
    Le opere in mostra consentono di ripercorre le tappe dell’evoluzione creativa di uno dei maggiori esponenti italiani dell’Art Nouveau, analizzandone “l’ossessione per la tecnica e l’ambizione verso l’opera d’arte totale” [7]: dalle sculture in terracotta, gesso e bronzo; ai costumi, modellini e manifesti per il teatro; ai mobili, alle oreficerie e ceramiche; agli elementi d’arredo e alle vetrate artistiche; agli schizzi, bozzetti e studi per film; sino alle stampe e illustrazioni, ad esempio per la Divina Commedia. Del Liberty, in particolare, Cambellotti condivideva «la ricerca della bellezza nella funzione dell’oggetto utile, le ragioni del rapporto che lega le arti cosiddette maggiori e le applicate in una visione unitaria di stile che sia lo specchio di una civiltà umanistica, rispettosa del valore dell’individuo e della collettività» [8].
    Una costante nella produzione di Duilio Cambellotti, le vetrate policrome,

    La Redenzione dell’Agro – Palazzo del Governo – Latina – Duilio Cambellotti 1934.

    rappresentano il principale traît-d’union con l’affascinante contesto dell’esposizione: oltre infatti a quelle per la Prima Mostra della Vetrata, 1912, e per il santuario di Montevergine, 1957-59, l’artista mise a punto tra il 1914 e il 1921 le celebri vetrate delle “Due civette” e dei “Tre ovali di edera” e il “Vetratone a soggetto: l’uva”, assieme ad altre disperse, alcune delle quali rinvenute ed esposte in mostra, prodotte nel laboratorio del vetraio Cesare Picchiarini e installate nella Casina delle Civette, la Capanna Svizzera a cui è stato dato il nome attuale proprio grazie alle vetrate con il soggetto della civetta disegnate da Cambellotti, insieme alle prove di Umberto Bottazzi, Vittorio Grassi e Paolo Paschetto [9]. Dimora del principe Giovanni Torlonia Jr. sino alla sua morte nel 1938, la Casina è il risultato di trasformazioni e integrazioni alla Capanna ottocentesca, realizzata ai margini del parco e pertanto considerata un luogo di evasione dagli impegni ufficiali. Edificata nel 1840 da Giuseppe Jappelli per Alessandro Torlonia, dal 1908 quest’ultima subì la radicale trasformazione che le fece assumere l’aspetto di un Villaggio Medioevale, per via delle logge, dei porticati e delle variopinte decorazioni in maioliche e vetrate.
    Il Casino Nobile non è che l’esito della ristrutturazione ed estensione dell’antica Vigna Colonna, eseguite da Giuseppe Valadier tra il 1802 e il 1806 per volontà di Giovanni Torlonia, che aveva acquisito la struttura sul finire del secolo precedente; concepito quale palazzo principale, doveva espletare le funzioni di rappresentanza. Il Casino dei Principi deve egualmente il suo aspetto attuale alla ristrutturazione, in stile neocinquecentesco, operata da Giovan Battista Caretti tra il 1835 e il 1840 sul piccolo, settecentesco, edificio rurale della Vigna Abati; in maniera speculare alla Casina delle Civette, l’edificio fu adibito dallo stesso Alessandro alle attività

    La Notte – Mobile – Duilio Cambellotti 1925.

    mondane [10]. Dispiegandosi nei tre Casini della Villa, la mostra stabilisce tra i principali edifici storici del complesso un inevitabile filo conduttore attraverso la figura del Cambellotti: un «genio realistico e visionario», che combinando «mito, fiaba e realtà contemporanea» [11] aveva inteso «rovesciare» la tradizionale «gerarchia delle arti» prendendo le distanze dalla «bellezza decorativa fine a se stessa» e restituendo all’arte uno spessore morale e sociale [12].

    Note
    [1] http://www.museivillatorlonia.it
    [2] Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà, catalogo della mostra (Roma, Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, Casino Nobile e Casina delle Civette, 6 giugno-11 novembre 2018), a cura di D. Fonti e F. Tetro, Cinisello Balsamo 2018, s.n.
    [3] Duilio Cambellotti. Pitture, sculture, opere grafiche, vetrate, scenografie (Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma), catalogo a cura di M. Manzella, F. Bellonzi, M. Quesada, Roma 1983, pp. 11-12
    [4] F. Tetro, Ideologia e iconografia. Paesaggio e storia, culto del “Miles Agricola”, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 28-43 (in part. p. 29)
    [5] E. Longo, Cambellotti, la ceramica e le fonti di ispirazione, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 110-117 (in part. p. 111)
    [6] M. Quesada, Introduzione alla scultura di Cambellotti, in Id., Duilio Cambellotti scultore & l’Agro Pontino. Ceramiche, bronzi, gessi, opere, progetti, frammenti, Roma 1984, pp. 13-22 (in part. p. 15)

    Plastico prt “Le Trachinie” di Sofocle – Duilio Cambellotti 1933.

    [7] Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele (cit.)
    [8] F. Bellonzi in Duilio Cambellotti. Pitture, sculture, opere grafiche, vetrate, scenografie… (cit.), p. 8
    [9] A. Campitelli, Grafica e luce: bozzetti, cartoni, vetrate, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 60-67
    [10] http://www.museivillatorlonia.it
    [11] N. Muratore, I. De Stefano, Realtà e fantasia: la produzione grafica di Duilio Cambellotti, in Duilio Cambellotti. Mito, segno e immagine, catalogo della mostra (Roma, Galleria d’Arte F. Russo, 18 novembre-16 dicembre 2006) a cura di D. Fonti, N. Muratore, I. De Stefano, Roma 2006, pp. 79-83 (in part. p. 80)
    [12] A.M Damigella, Caratteri e temi dell’arte di Cambellotti, in Cambellotti (1876-1960), catalogo della mostra (Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 settembre 1999-23 gennaio 2000), a cura di G. Bonasegale e A.M. Damigella, Roma 1999, pp. 11-20 (in part. pp. 12-13).

    Roma, 22 luglio 2018

  2. Galleria Borghese. La regina delle raccolte private.

    Nel panorama urbanistico della Roma barocca Villa Borghese rappresenta un modello ed un’esemplificazione del gusto architettonico e del modo di conciliare l’arte e la natura. (cfr. Scipione Borghese, collezionista incontenibile ).

    Facciata di Villa Borghese – Johann Wilhelm Baur.

    La sistemazione della villa inizia intorno all’anno 1606, quando Scipione Borghese acquista nuovi terreni da aggiungere all’iniziale proprietà della famiglia nei pressi dell’attuale Muro Torto. Due importanti strade pubbliche, la via delle Tre Madonne e la via Traversa, lambivano e delimitavano la nuova proprietà.
    Nel progetto di Scipione Borghese la villa sarebbe stata un luogo di delizia e riposo, di rappresentanza e di accoglienza per gli ospiti, dove la cospicua raccolta antiquaria avrebbe trovato una sua collocazione e mostra. Una parte di questa collezione trovò dimora nelle stanze del Casino Nobile, oggi Galleria Nazionale Borghese, mentre altri arredi antichi, come rilievi e sarcofagi, statue e vasi, furono collocati a ornamento delle facciate dello stesso Casino Nobile, e sparsi nel giardino tra portoni, fontane, viali e piazzuole.
    Il progetto, innovativo e complesso anche dal punto di vista della comunicazione, era il riflesso del clima di rinascita urbanistica che caratterizzò il pontificato di Paolo V, e contribuì all’ostentazione di magnificenza e potenza della famiglia Borghese.
    Vari architetti parteciparono alla realizzazione della villa di Scipione: Flaminio Ponzio, 1560 – 1613, che progettò l’impianto architettonico della villa e dei giardini, poi, a causa della morte prematura di quest’ultimo, Giovanni Van Santen detto Vasanzio, 1550 – 1621 e ancora Girolamo Rainaldi, 1570 – 1665.

    Pala Baglioni – Raffaello.

    L’edificio principale era, ed è, il Palazzo, o Casino Nobile intorno al quale furono progettati gli spazi verdi, delimitati da veri e propri muri, e perciò chiamati recinti. Il Casino Nobile fu quindi concepito come il fulcro del complesso edifici – giardini, e lo spazio verde intorno ad esso fu organizzato in funzione di un costante dialogo reciproco, fatto di rimandi e richiami continui, con il Palazzo e con ciò che vi era contenuto.
    Il Palazzo fu impostato su una doppia scalinata d’ingresso, una loggia scandita da cinque arcate, su cui insisteva una terrazza ornata di statue. Due torri completavano il prospetto anteriore impreziosito da un esuberante apparato decorativo. Una serie di nicchie e di ovali conteneva statue e busti di marmo, con lo scopo di evidenziare la funzione espositiva sia esterna che interna dell’edificio. Il vasto piazzale antistante fu delimitato da una balaustra arricchita di sedili e di fontanelle e sormontata da statue antiche.
    All’interno del Casino Nobile si iniziò ad allestire quella che, ancora oggi, è definita “la regina delle raccolte private del mondo”, iniziata nel 1607, ovviamente, dall’eclettico cardinale Scipione Borghese.

    Ratto di Proserpina – Bernini.

    Gli spazi, la decorazione degli ambienti e gli arredi del Casino Nobile furono pensati e scelti da Scipione Borghese, in accordo con i suoi architetti e artisti, in funzione delle opere che gli ambienti stessi avrebbero ospitato, secondo quel gusto scenografico proprio del Barocco che via via diveniva più maturo. Le pareti ad esempio furono foderate di cuoio azzurro e le statue del Bernini certamente collocate in maniera tale da sorprendere il visitatore che tra esse si sarebbe aggirato. Arrivano a noi documenti Ci sono che attestano che l’opera berniniana nota oggi con il nome di “Ratto di Proserpina”, ma nel Seicento nota come “Plutone e Proserpina”, fu collocata contro una parete di una sala aperta sulla loggia, che quindi dava sul giardino, incorniciata da una sorta di porta, che infatti era detta “Porta di Plutone”. In questa maniera allo spettatore sarebbe davvero parso che Plutone fosse appena uscito dalla porta del suo inferno e stesse proprio in quell’attimo afferrando Proserpina, la sua preda.
    L’apparato scenografico era completato da un’iscrizione e da un busto di Paolo V e aveva anche un particolare messaggio politico rivolto a Ludovico Ludovisi a cui l’opera era in realtà destinata.
    Il Palazzo e i giardini, in effetti, avevano più piani di lettura che andavano oltre la semplice necessità di esporre un’immensa collezione d’arte, creare un ambiente rilassante e utile per feste e banchetti.

    Danae – Correggio.

    Molti di questi piani comunicativi sono oggi andati persi soprattutto a seguito dell’imponente opera di ammodernamento avviato a partire dalla seconda metà del Settecento da Marcantonio IV Borghese, teso a portare il Casino Nobile e la villa più vicina al gusto Neoclassico che andava via via affermandosi.
    Il Casino venne così ristrutturato sotto la direzione di Antonio e Mario Asprucci. Il rigore neoclassico fece scomparire parte dell’originale decorazione barocca, ad esempio quella in cuoio, e molti degli effetti scenografici, tra cui quelli che erano stati creati per esaltare la dinamicità e il significato politico dei gruppi del Bernini, e anche il giardino fu riorganizzato prendendo come modello il giardino neoclassico all’inglese, venendo così a perdere in parte il ruolo di controparte nel dialogo con il Palazzo.
    Grazie all’azione di Scipione il nucleo originario della collezione d’arte antica, capace di conferire nel Seicento un’aura d’ideale universalità alle collezioni artistiche, andò ulteriormente arricchendosi dapprima con l’acquisto nel 1607 delle raccolte Della Porta e Ceuli, poi grazie a straordinari rinvenimenti occasionali, quali il celeberrimo Gladiatore, oggi al Louvre, trovato nei pressi di Anzio, e l’Ermafrodito, scoperto durante gli scavi nei pressi della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a cui Bernini regalò lo splendido materasso, anch’esso oggi al Louvre.

    Apollo e Dafne – Bernini

    In questa maniera allo splendore dei marmi archeologici faceva eco la straordinaria novità della statuaria moderna, in costante competizione con i modelli classici. Dal 1615 al 1623 Gian Lorenzo Bernini eseguì per il cardinale i celeberrimi gruppi scultorei ancora oggi conservati nel Museo: la Capra Amaltea, l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne.
    Un quadro abbastanza attendibile della collezione di opere d’arte di Scipione Borghese è fornito, in assenza di un preciso inventario di riferimento, dalla descrizione della villa edita nel 1650 a opera di Giacomo Manilli, che illustra, oltre l’interno del Casino Nobile, anche il suo esterno e i giardini. Alla fine del Seicento i Borghese potevano così contare su una raccolta di circa ottocento dipinti e su una delle più celebrate collezioni di antichità a Roma, oltre a uno sterminato patrimonio immobiliare. Per volere del cardinale, alla sua morte tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a uno strettissimo vincolo attraverso un fedecommesso, istituzione giuridica che preservò l’integrità della collezione fino a tutto il XVIII secolo.
    Alla già cospicua collezione di arte antica altri pezzi si andarono ad aggiungere nel 1791 a seguito della scoperta dell’antica città dei Gabii, in una proprietà della famiglia lungo la via Prenestina. Fu così che Marcantonio IV chiese a Mario e Antonio Asprucci l’allestimento di un nuovo padiglione espositivo che fu realizzato ristrutturando uno degli edifici della villa, oggi il Casino dell’Orologio. Tra i diversi reperti fu qui esposta la “Diana dei Gabii”, oggi al Louvre di cui, nella seconda metà dell’Ottocento, Alessandro Torlonia si fece realizzare una copia in ghisa da esporre nel giardino della sua villa lungo la Nomentana.

    Paolina Borghese come Venere Vincitrice – Canova.

    La raccolta Borghese di arte antica subì numerose perdite quando la villa divenne proprietà di Camillo Borghese. Questi convinto che Napoleone non sarebbe mai caduto e ascoltando sua moglie Paolina, sorella di Napoleone, vendette a quest’ultimo, moltissime delle opere della collezione, che tra la fine del 1807 e il 1808, furono smontate dalla loro sede originaria e trasportate al Museo del Louvre, di cui oggi costituiscono uno dei nuclei fondamentali della collezione archeologica. La collezione di arte antica fu solo in parte reintegrate da nuovi acquisti e rinvenimenti in corso di scavi diretti dal nuovo architetto di famiglia: Luigi Canina, 1795 – 1856, il quale curò il nuovo ampliamento della villa verso la Flaminia e i nuovi arredi.
    Camillo acquistò per integrare ulteriormente le perdite la Danae del Correggio e commissionò a Antonio Canova il Ritratto di Paolina quale Venere Vincitrice, con il pomo tenuto delicatamente tra le dita e adagiata su un meraviglioso materasso di marmo che lega indiscutibilmente l’opera dell’immenso scultore neoclassico a quella dell’immenso scultore barocco che aveva lavorato in quei medesimi ambienti ducento anni prima.

    Amor sacro e amor profano – Tiziano.

    Nel Seicento però Scipione non fu solo un collezionista di opere d’arte antica, ma raccolse un’imponente collezione di opere di vari periodi e di diversa provenienza. Non tutte le opere arrivarono nelle sue mani sempre a seguito di acquisti. Ad esempio nel 1607, attraverso il sequestro dei dipinti dello studio del Cavalier d’Arpino seguiti ad una denuncia dello stesso per detenzione di armi di cui il d’Arpino era un collezionista, Scipione Borghese, entrò in possesso di circa cento dipinti, tra cui alcune opere giovanili di Caravaggio, di cui faceva parte il Bacchino malato. Nello stesso anno acquisì la collezione del patriarca di Aquileia, mentre nel 1608 furono acquistati settantuno straordinari dipinti appartenenti al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, fra i quali, si ipotizza, la presenza dell’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano, del Ritratto di Giulio II, oggi alla National Gallery di Londra, e della Madonna del velo di Raffaello, oggi al Musée Condé di Chantilly.

    Madonna dei Palafrenieri – Caravaggio.

    L’estrema spregiudicatezza di Scipione nell’accaparrarsi le opere d’arte e nell’assecondare la sua passione di collezionista moderno è testimoniata da numerose vicende, come quella dell’acquisto nel 1605 della Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio, rifiutata dalla Confraternita poco tempo prima dell’esposizione nella cappella in San Pietro – forse per volontà dello stesso pontefice che esaudiva così un desiderio del cardinal nepote – o, ancora, dal rocambolesco trafugamento della Deposizione Baglioni di Raffaello, prelevata per volere di Scipione dal convento di San Francesco a Prato, fatta calare dalle mura della città nella notte tra il 18 e il 19 marzo 1608 e in seguito dichiarata “cosa privata del cardinale” da Paolo V. Altre opere di Raffaello erano presenti nella raccolta Borghese, quale prova evidente della sua indiscussa eccellenza: le Tre Grazie, oggi al Musée Condé di Chantilly, il Sogno del Cavaliere e la Santa Caterina, oggi alla National Gallery di Londra, facente parte del gruppo di opere vendute da Camillo durante gli anni d’impero di Napoleone.

    Roma, 10 giugno 2018.

  3. Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps

    Palazzo Altemps 2

    Cortile Palazzo Altemps

    Palazzo Altemps, già Palazzo Riario, si erge nel cuore del rione Ponte, in piazza Sant’Apollinare, a pochi passi da piazza Navona. Deve il suo nome al cardinale Marco Sittico Altemps, proveniente dall’Alto Tirolo, che lo acquistò nel 1578, eleggendolo a propria dimora romana.

    È uno dei quattro poli del Museo Nazionale Romano, insieme a Palazzo Massimo, alla Crypta Balbi e al Museo delle Terme di Diocleziano, e ospita importanti collezioni di arte antica e una significativa raccolta di opere egizie.

    Nelle sale ancora in parte affrescate, è possibile ammirare sculture greche e romane appartenute nei secoli XVI e XVII a varie famiglie della nobiltà romana. Il nucleo più consistente è costituito dalla collezione Boncompagni Ludovisi, ma vi sono conservate anche le collezioni Mattei e Del Drago e alcune opere d’arte un tempo possedute dalla famiglia Altemps. Tra gli esemplari più rappresentativi, il Galata suicida, il sarcofago cosiddetto Grande Ludovisi, il Trono Ludovisi e l’Ares Ludovisi. Le sculture sono presentate secondo il gusto antiquario per l’ostentazione dei capolavori dell’antichità proprio di quel tempo. Alcune sono state restaurate nei secoli

    Trono Ludovisi - Palazzo Altemps

    Trono Ludovisi – Palazzo Altemps

    XVI e XVII con integrazioni eseguite da eccellenti scultori dell’epoca quali Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Algardi e Ippolito Buzio, mentre la sezione dedicata all’arte egizia costituisce una delle più significative testimonianze della diffusione dei culti egizi a Roma.

    Palazzo Altemps è il punto di arrivo cinquecentesco di una serie di costruzioni che occupavano la zona fin dall’antichità. Negli scavi archeologici preliminari ai lavori di restauro sono state rinvenute le strutture di una domus romana tardo imperiale e i resti di numerose case-torri medievali inglobate nel palazzo rinascimentale. I suoi tesori in marmo pregiato mantengono un legame ideale con l’antica vocazione del rione Ponte, sede di uno dei due porti marmorari di Roma sin dai tempi di Augusto: la Statio rationis marmorum, cioè ufficio del monopolio imperiale sulle cave e il ponte detto la Marmorata, oggi Testaccio. Era qui che venivano scaricati e lavorati i marmi destinati sia all’architettura, e utilizzati nel Campo Marzio, sia alla statuaria. In tutta la zona tra Sant’Andrea della Valle, la Chiesa nuova e il Tevere sono riemerse botteghe di marmorari con resti di opere non finite e attrezzi risalenti all’epoca di Traiano. Secondo alcuni insigni archeologi, la vicina chiesa di Sant’Apollinare sarebbe sorta sulle rovine del tempio di Apollo.

    Eros e Psiche - Palazzo Altemps

    Eros e Psiche – Palazzo Altemps

    Con la feudalizzazione di Roma e l’occupazione dei resti antichi da parte delle famiglie baronali la città si divise in un settore ghibellino ad est, controllato dai Colonna, e un settore guelfo, controllato dagli Orsini. Il cammino di ronda che divide tuttora il rione di Parione da quello di Colonna correva lungo l’attuale vicolo dei Soldati.

    È nel 1400 che comincia a strutturarsi Palazzo Altemps quale oggi lo conosciamo. A partire da Girolamo Riario, che ne fece eseguire il disegno da Melozzo da Forlì. Girolamo, nipote di Sisto IV, avrebbe voluto completarne la costruzione per il suo matrimonio con Caterina Sforza, ma i lavori non si conclusero prima del 1480.

    Tramontata con la morte di Sisto IV la fortuna dei Riario, nel 1511 il palazzo fu acquistato, ampliato e decorato dal cardinal Francesco Soderini, che vi chiamò a lavorare gli architetti Antonio da Sangallo il

    Ares - Palazzo Altemps

    Ares – Palazzo Altemps

    Vecchio e Baldassarre Peruzzi, al cui intervento si deve il cortile maggiore. Tra il 1513 e il 1518 la dimora passò al cardinale mediceo Innocenzo Cybo. E dopo essere stato residenza degli ambasciatori spagnoli, il palazzo fu acquistato, nel 1568, dal cardinale austriaco Marco Sittico Altemps, figlio della sorella di Pio IV, che ne fece la residenza del casato. Si deve a lui la prima collezione di sculture antiche. A questi anni, però, risale anche una storia di sangue che coinvolse la famiglia Altemps: il figlio naturale di Marco Sittico, Roberto, fu accusato di adulterio e fatto decapitare a 20 anni proprio da Sisto IV per aver sposato una degli Orsini, suoi nemici giurati

    Nel 1604, papa Clemente Aldobrandini donò alla famiglia Altemps le spoglie di papa Aniceto per arricchirne la cappella privata, ma a memoria imperitura della morte di Roberto, il figlio Giovanni Angelo fece dipingere nella cappella del palazzo un grande affresco che riproduce la decapitazione del padre. È ancora Giovanni Angelo che si deve il primo teatro del palazzo.

    Sempre a Palazzo Altemps venne fondata l’Accademia dell’Arcadia. Qui recitò Metastasio e suonò Mozart, durante il suo soggiorno romano.

  4. Il fascino irresistibile dell’antico: Museo Nazionale al Palazzo Massimo alle Terme

    A Roma, nei pressi della stazione Termini, il Museo Nazionale di Palazzo Massimo accoglie una delle collezioni più importanti di arte classica del mondo.

    Magna Mater / Cibele – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    L’edificio vanta una storia di grande prestigio. In stile neo-cinquecentesco, fu realizzato tra il 1883 e il 1887 su progetto di Camillo Pistrucci, in un’area precedentemente occupata dalla Villa Peretti, costruita da Sisto V e dimora della famiglia Massimo. Successivamente l’edificio divenne sede del prestigiosissimo collegio dei Gesuiti che vi rimase fino al 1960.
    L’area di pertinenza della Villa è stata gradualmente erosa per la realizzazione degli edifici e dell’assetto urbano circostante, in particolare per la costruzione della stazione Termini.
    Dopo alterne vicende Palazzo Massimo fu acquistato dallo Stato nel 1981 e restaurato su progetto dell’architetto Costantino Dardi. Tutto ciò fu possibile grazie al finanziamento di una legge speciale per la tutela del patrimonio archeologico romano.
    La sede museale venne inaugurata nel 1995 e completata nel 1998 con l’apertura del primo e secondo piano oltre a quello interrato.
    Il Massimo è la principale delle quattro sedi del Museo nazionale romano, insieme con la sede originaria delle Terme di Diocleziano, che attualmente ospita la sezione epigrafica e protostorica; con Palazzo Altemps, sede delle collezioni rinascimentali di scultura antica e con la Crypta Balbi, ricca di collezioni altomedievali.
    Tra i capolavori assoluti di arte romana di Palazzo Massimo ad accogliere i visitatori già al pianterreno, si erge una statua colossale di divinità femminile seduta, proveniente dalle pendici dell’Aventino. È composta da numerose tipologie di marmi colorati antichi, secondo una tecnica molto apprezzata dagli scultori romani. La statua, di età augustea, è stata restaurata come Minerva. Secondo recenti studi sembra però che la statua raffigurasse la Magna Mater – Cibele, un’antica divinità anatolica, il cui centro principale di culto era Pessinunte, in Frigia.
    Tantissime sono le opere raccolte. Quelle esposte al piano terreno e al primo piano documentano l’evoluzione della scultura romana che abbandona lentamente i modelli e gli stilemi dell’arte italica, fortemente legata in particolare all’arte etrusca, per andare incontro ad una ellenizzazione. Attraversare le sale del museo vuol dire anche partecipare a un’alternanza di emozioni legate alla visione di opere incredibili quale il Pugile in riposo, il Discobolo Lancellotti, l’Ermafrodito dormiente, la fanciulla di Anzio, la Niobide morente e il Dioniso bronzeo.

    Il Pugile a Riposo (particolare) – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Il Pugile in riposo è una statua in bronzo, greca, datata al IV secolo avanti Cristo, attribuita a Lisippo e rinvenuta alle pendici del Quirinale. L’atleta è colto subito dopo il combattimento. E’ stanco e ferito, come testimoniano gli inserti di rame che vogliono richiamare appunto le ferite e il sangue che ne è sgorgato, la possente figura e la struttura muscolare sono contenute e contrastano con la testa che di scatto è girata verso la sinistra, come se l’atleta fosse stato richiamato a sorpresa e stia iniziando un dialogo. L’insieme crea una palpabile tensione nella sala che induce ad interagire con il pugile, e spinge quasi a parlargli ancora in un orecchio.
    La Niobide Morente è un’altra statua di forte impatto emotivo. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un originale greco databile tra il 440 e il 430 avanti Cristo, rappresenta una donna colpita a morte da una freccia che le si è conficcata nella spalla. La donna è ritratta nel momento in cui consuma le sue ultime energie nel tentativo di estrarre la freccia medesima, cadendo per questo in ginocchio.
    La figura femminile è in genere interpretata come Niobide, ovvero come la figlia del re Niobe che si vantò di essere più prolifica di Latona, madre di Apollo e Artemide, avendo partorito sette figli. Per questo motivo Apollo e Artemide la punirono uccidendo lei e i suoi figli su ordine della madre.
    Il Discobolo è invece una copia del II secolo dopo Cristo di quello di Mirone, l’artista che lo realizzò nel V secolo avanti Cristo. L’originale greco da sempre rappresenta l’ideale dell’atleta e il modello da studiare per la riproduzione corretta di un corpo umano in movimento. Questa copia in marmo, di età antonina, è considerata la copia più fedele all’originale in bronzo.

    Augusto come Pontefice Massimo – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Tra i ritratti degli imperatori molto nota è la statua di Augusto come Pontefice Massimo, ovvero con la toga, com’era di moda negli ultimi decenni del I secolo avanti Cristo e che era ritenuta un po’ il costume tradizionale romano, e il capo coperto come era caratteristico dei sacerdoti durante i riti sacri. Si suppone che avesse nella mano destra la patera e nella sinistra il volumen. Il volto è un ritratto molto fedele di Augusto, comprese le rughe sulla fronte e ai lati del naso che indicano uno stato di età avanzata.
    Ma al Museo del Palazzo Massimo non c’è solo la statuaria, ma sono anche esposte testimonianze importanti della cultura romana quali i Fasti Antiates, due pannelli affrescati ritrovati nei pressi della Villa di Nerone ad Anzio, databili tra l’88 e il 55 avanti Cristo e contenenti il calendario romano di Numa Pompilio, in uso prima della riforma di Gaio Giulio Cesare, comprendente le festività romane e l’elenco delle magistrature principali, quali quella di consoli e censori del periodo compreso tra il 173 e il 67 avanti Cristo.
    In una sala successiva si può seguire l’evoluzione del calendario e l’applicazione della riforma di Giulio Cesare grazie al ritrovamento e all’esposizione dei Fasti Praenestini, così detti perché affissi a Praeneste, che illustrano un calendario di età augustea nel quale è ormai entrata in vigore la riforma di Cesare con l’anno di 365 giorni.
    Il museo raccoglie anche importantissimi sarcofagi di cui, probabilmente il più noto è il sarcofago di Portonaccio.
    Il meraviglioso sarcofago risalente al 180 dopo Cristo è stato ritrovato nel 1931 in via delle Cave di Pietralata. La scena rappresentata sul fronte è una serrata battaglia che si articola su più piani e la cui visione comunica tutta la concitazione del momento: ovvero la lotta e la sconfitta dei barbari.
    Il coperchio riassume varie fasi della vita del defunto, la nascita, l’educazione, il matrimonio riassunto dalla scena della dextrarum iunctio, la morte. Le scene hanno anche il ruolo di celebrare le virtù del defunto: la sapienza, sottolineata dalla presenza delle Muse, la concordia e la clemenza riservata ai barbari sconfitti.
    Come è nella tradizione della produzione del sarcofago la testa ritratto del defunto veniva terminata alla morte dell’acquirente, che comprava il sarcofago da vivo. In questo caso la testa ritratto non è terminata, non è possibile quindi definire con certezza il proprietario del sarcofago.

    Sarcofago di Portonaccio 8particolare) – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    L’attribuzione quindi viene attualmente dedotta dalle insegne militari che sono rappresentate sempre sul bordo superiore della cassa. L’aquila della Legio IIII Flavia e il cinghiale della Legio I Italica fanno pensare che il defunto sia Aulus Iulius Pompilius, ufficiale di Marco Aurelio al comando di due squadroni di cavalleria nella guerra contro i Marcomanni, tra il 172 e il 175 dopo Cristo.
    La decorazione del sarcofago è decisamente ispirata a diverse scene della colonna Antonia e il fregio principale frontale è completato dalla riproduzione dei momenti successivi della battaglia, riprodotti sui fianchi del sarcofago.
    Tra i reperti unici e più interessanti esposti nelle sale del Palazzo Massimo ci sono gli arredi delle così dette navi di Caligola, ritrovate nel lago di Nemi e riportate in superficie tra il 1928 e il 1932. Della struttura delle navi, da considerarsi più come delle piattaforme galleggianti, oggi restano appunto le decorazioni, in parte conservate nel museo presso il lago di Nemi, poiché nel 1944 un incendio probabilmente causato dai Tedeschi, le distrusse completamente.
    Molte ipotesi si sono fatte sulla funzione delle due navi, oggi la più accreditata è che esse fossero destinate alla celebrazione di feste religiose, visto che il lago di Nemi aveva una sacralità elevatissima legata alla presenza del tempio di Diana Aricina, centro politico e religioso molto importante per le popolazioni italiche che lo frequentarono assiduamente fino all’avvento del cristianesimo.

    Testa di Medusa dalle Navi di Nemi – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Tra i reperti appartenuti alle navi di Caligola si possono ammirare i rostri di forma leonina o di lupo, delle teste di medusa in bronzo che competono in fascino con quella del Bernini conservata ai Museo Capitolini, le erme bifronte in bronzo e la balaustra decorata con eleganti testine dal profilo decisamente greco.
    Il museo conserva gli affreschi della villa di Livia a Prima Porta e della Villa Farnesina di cui abbiamo estesamente parlato in una precedente occasione, ma le decorazioni parietali e pavimentali sono completate da una collezione di mosaici di cui le più note sono forse le due tarsie marmoree provenienti dalla “Basilica di Giunio Basso”, un’aula di rappresentanza dell’edificio fatto erigere dal console Giunio Basso nel 331 dopo Cristo, sul colle Esquilino, che durante il pontificato di papa Simplicio, verso la seconda metà del V secolo dopo Cristo, venne trasformata nella Chiesa di Sant’Andrea Catabarbara.
    Le due meravigliose opere in opus sectile, la cui evoluzione “moderna” troverà la più alta espressione nelle opere prodotte dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze voluto da Ferdinando I de’ Medici nel 1588, rappresentano due scene di argomento diverso:

    Pompa circensis dalla Basilica Giunio Basso – Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo

    una è un episodio della saga degli Argonauti, ovvero il rapimento del giovane Hylas da parte delle ninfe, nella seconda si può ammirare una pompa circensis, ovvero la processione che precedeva l’inizio dei giochi nel circo. La tarsia della Basilica di Giunio Basso mostra, al centro del circo, il patrono dei giochi, forse da identificarsi con Giunio Basso stesso, mentre alle sue spalle le quattro fazioni sono presentate: la rossa o russata, l’azzurra o veneta, la verde o prasina e la bianca o albata.
    Altre due tarsie provenienti dal medesimo edificio sono conservate ai Musei Capitolini.