In occasione dei centoventi anni dalla nascita di Lucio Fontana pubblichiamo questo articolo di Philippe Daverio apparso in “Art e Dossier” n.249 del novembre 2008.
I tagli di Lucio Fontana vengono da lontano, dal suo paese d’origine, l’Argentina. Dove la lama si intreccia imprevedibilmente alla musica, all’arte, alla letteratura, alla vita.
Mondo complicato quello dell’America Latina, molto meno unitario di quanto potrebbe lasciar pensare l’uso di una o due lingue comuni provenienti dalla penisola iberica, mondo complesso quanto lo è il costante cambiamento degli accenti nel parlare idiomi all’apparenza identici.
Racconta Luis Fernando Benedit, artista argentino concettuale, architetto
diformazione, che “a México se mata con el rifle, en el Caribe con el machete, aquí con el cuchillo”. Se nella pratica fin troppo diffusa dell’assassinio si passa appunto dal fucile (yankee) al machete (indio) fino al coltello (ispanico – italiano), è innegabile che i modi artistici possano correre il rischio di altrettante sofisticate differenziazioni. Il che avviene già nell’ambito più vicino alla lingua parlata e cioè nella letteratura, la quale segna profonde differenze di tono fra Octavio Paz e Vargas Llosa o Gabriel García Márquez, Neruda e Borges. E Jorge Luis Borges in ciò è come sempre esemplare. Inglese di lingua e d’anima, ginevrino di formazione adolescenziale è nondimeno argentino fino in fondo, al punto che mata con el cutillo, con il coltello. In quella formidabile raccolta di racconti pubblicata nel 1930 con il titolo Evaristo Carriego, v’è una pagina tra le più singolari che s’intitola appunto El Puñal, una autentica apologia della lama forgiata a Toledo, arrivata dall’Uruguay, quella che attrae chi la vede e lo spinge a giocarci. Questo pugnale scorre perfetto nel suo fodero, riposa nel cassetto ma chiede ben altro, vuole uccidere: “Quiere matar, quiere derramar brusca sangre”. Determina un’identità comportamentale che l’argentino non può cancellare.
A tal punto che Lucio Fontana ne fece il simbolo della sua arte, con quel
taglierino da grafico che usava per incidere le tele e ricavarne i famosissimi Tagli quelli documentati con la magistrale serie di fotografie scattate da Ugo Mulas. Ma già nelle prime ceramiche cotte ad Albisola prima dell’ultima guerra apparivano squarci da taglio. La meccanica gestuale proveniva dal profondo degli istinti, dal profondo della pampa, laddove nei cent’anni precedenti s’erano sposati la roncola dei contadini padani in cerca di lavoro con il pugnale della Carmen in cerca di fortuna.
Sono le medesime lame che Bendit oggi ricerca, disegna o usa nelle sue composizioni. Lo fa sicuramente con l’attenzione dell’antropologo, ma non sfugge all’osservatore il piacere recondito e inconfessato procurato durante l’esecuzione. E’ tangibile il godimento dinanzi alla lama, sia essa rappresentata oppure citata o talvolta solo evocata. E porta l’artista a progettare un coltello con fodero come opera di autentico design, eseguito con l’accortezza di un prodotto industriale perfetto.
Al suo opposto filosofico, lontano dalla concettualità, anzi impegnato in una pittura che si sforza d’essere popolare. Daniel Santoro, il vate di un articolato quanto bizzarro postperonismo, celebra pure lui il coltello come arma naturale della lotta di classe, quella fra il povero che è di pelle scura e
il figlio della borghesia elegante e bianca. Solo il coltello, quello che già usava l’indio quando rapiva la pioniera bianca per generare con essa la razza del “campo”, può aiutare l’orda barbarica dei diseredati a invadere con Perón l’elegante società di Buenos Aires, cosmopolita come Borges e mondana come la sua protettrice Victoria Ocampo. Santoro lo lascia percepire, evidente e crudele, per il risultato che la lama ottiene sulla carne umana quando l’artista raffigura la ferita nella schiena del Che, dalla quale Eva Perón estrae le viscere per appropriarsi della grinta rivoluzionaria che racchiudono.
Un coltello ossessivo che procura ferite precise, pulite e micidiali. Un coltello che dichiara la sua distanza “comportamentale” assoluta dal macello che genera il machete e dallo sconquasso dovuto allo strazio dell’arma da fuoco. Quindi una prassi che diventa percorso della mente richiedendo alla creatività artistica la medesima precisione da lama affilata e consentendole spesso la medesima determinazione, quella che le anime bonarie rischiano di confondere con la crudeltà. Si capisce così il girovagare ironico surrealista degli anni Trenta e Quaranta. Si fa più chiara pure l’evoluzione della scuola che porta negli anni Sessanta alla Otra Figuración con Jorge de la Vega, Luis Felipe Noé, Ernesto Deira, Romulo Macció. Loro sorgono assieme alla ripresa dell’impegno politico che pervade tutto il subcontinente e le sue agitazioni. Declinano tutti la medesima cifra
espressionista acuta dove il senso della violenza è dato come naturale, come prodotto della psiche che si ribella non solo al mondo ma apparentemente pure a se stessa. Il cuchillo è diventato filosofia del fare. D’altronde sono pure, quelli, gli anni nei quali la psicoanalisi argentina diventa nota nel mondo perché si espande a dismisura in patria. Il subconscio si libera e trova nella terapia una nuova forma di redenzione, non dissimile da quella che i Gesuiti da tre secoli praticano nei confessionali, quella che consente di lavare i peccati con la loro esternazione, quella che permetterà alla giunta dei generali di salire sul balcón di Plaza de Mayo nel 1983, dopo sette anni di dittatura sanguinaria, di scusarsi per la disfatta delle Falkland – Malvinas e di andarsene senza che venga loro tirato un solo colpo di schioppo.
Questo senso di autoanalisi permane oggi nelle piccole follie di Marcelo Bordese dove la dissezione dei corpi, sezionati dal taglio della mente, libera demoni nascosti nel fondo delle pieghe dell’anima. Senza ferire oltre, perché oggi la parola s’è fatta più tagliente della lama.
Roma, 15 luglio 2019.
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