Alle pendici del Palatino, tra il Circo Massimo e Piazza della Bocca delle Verità si ergono le chiese di Sant’Anastasia, San Teodoro, San Giorgio al Velabro e Santa Maria in Cosmedin.
Al Foro Olitorio, San Nicola in Carcere sta incastonata tra i templi dedicati a Giunone Sospita, a Giano e a Spes: tutte chiese, queste, che “parlano greco”. Il motivo è dato dal fatto che tra il VII e l’VIII secolo, ai tempi della dominazione bizantina, si stabilirono a Roma monaci greci fuggiti dall’iconoclastia, il movimento religioso sorto nella chiesa di Bisanzio, contraria ad ogni forma di culto delle immagini sacre e propugnatore della loro distruzione. L’area in questione, da sempre, aveva ospitato popolazioni straniere, soprattutto greche, per via degli scambi commerciali sulle rive del Tevere. Qui i monaci scampati alle persecuzioni iconoclaste avevano fondato le diaconie, vale a dire ospizi per pellegrini, poveri e malati. Nel corso del tempo, quelle diaconie si sarebbero trasformate in edifici di culto, o sarebbero state inglobate nelle chiese già esistenti. Quelle chiese sarebbero poi state intitolate a santi orientali.
Accanto a questo motivo di grande interesse, ce n’è un altro d’immenso fascino: vale a dire il mito delle origini di Roma e del suo abitato. Basti pensare che Ottaviano, nel 42 a.C. si era fatto costruire una grande casa sul Palatino rivolta all’Aventino. Casa che, tredici anni dopo, fece interrare per edificarvi sopra una dimora-santuario degna del suo nuovo status di Augusto, principe di un impero universale. La sua imponente casa dominava l’antico approdo sul Tevere, dove, secondo la leggenda, avevano attraccato le navi di eroi greci e dove erano sorti i primi culti di Fauno al Lupercale. Augusto si considerava a tutti gli effetti erede dei re aborigeni del Lazio – Pico, Fauno e Latino – e soprattutto di Enea e della famiglia albana dei Giulii, in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare.
Inoltre la tradizione voleva che nei paraggi paludosi del Velabro fossero stati ritrovati i gemelli Romolo e Remo. Il mito di fondazione dà quindi il via ad una capillare ricerca archeologica e, dopo gli scavi condotti nel 2007 dalla soprintendenza archeologica, a sedici metri di profondità nei sotterranei della chiesa di Sant’Anastasia, alcuni studiosi, in particolare Andrea Carandini, si sono persuasi di aver finalmente rintracciato il Lupercale, cioè il luogo dove la celeberrima lupa avrebbe allattato Romolo e Remo.
Nel volume La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale (Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, pagg. 284) Carandini ha proposto un’ipotesi affascinante: nel IV secolo d.C. la domus Augusti aveva ospitato sul suo avancorpo rivolto al Circo Massimo la chiesa di Sant’Anastasia, sorellastra di Costantino, l’imperatore che con l’Editto di Milano del 313 aveva concesso la libertà di culto ai cristiani. Egli si era poi occupato della data della festa di Pasqua durante il Concilio di Nicea (325 d.C.) e aveva patrocinato, subito dopo, l’istituzione del Natale, fissato al 25 dicembre e celebrato per la prima volta proprio nella chiesa di Sant’Anastasia, probabilmente nel 363.
Dunque: «alle pendici del Palatino si erano succeduti natali, epifanie e fondazioni tra Romolo, Augusto e Cristo», scrive Carandini.
Nel IV secolo, Costantino aveva fatto edificare le prime costruzioni cristiane, riservate al culto, lontane dal centro di Roma per non turbare la suscettibilità della maggioranza dei romani ancora legata alle divinità pagane. Salvo una: Sant’Anastasia.
Secondo un catalogo delle chiese di Roma dell’VIII secolo, solo due chiese si trovavano nell’ordine davanti a Sant’Anastasia: il Laterano e la seconda basilica sul Cispio che prenderà il nome di Santa Maria Maggiore. La posizione in terza fila stupisce, visto che oggi la chiesa è quasi dimenticata, ma in antico la sua importanza era legata al fatto che la sua posizione centralissima, alle radici del Palatino verso il Circo Massimo, ne fece la parrocchia (titulus) della corte e dei palazzi palatini, dei quali era segnacolo prospicente.
La chiesa alle pendici del Palatino fu dotata anche di battistero, caratteristica unica che condivideva con San Giovanni in Laterano, San Pietro e Santa Maria Maggiore.
Fino alla fine del V secolo Sant’Anastasia era però indicata come titulus Anastasiae. Fu il trasporto delle reliquie da Sirmium (l’attuale Sremska Mitrovica in Serbia, fu un’importante città della Pannonia romana) a Costantinopoli e poi a Roma che trasformarono il titulus Anastasiae in titulus Sancta Anastasia, ovvero in chiesa.
Come si è detto fu Costantino a stabilire la data del 25 dicembre quale giorno della nascita di
Cristo. Probabilmente questa data fu fissata in accordo con il vescovo di Roma, Silvestro, e fu scelta per affiancare il Natale di Cristo, a quello del Sole Invitto, essendo il 25 dicembre pochi giorni dopo quello del solstizio d’inverno (che cade ogni anno o il 21 o il 22 dicembre) e comunque il primo giorno in cui si apprezza l’aumento della durata del girono rispetto alla notte.
Nei primi secoli del cristianesimo non esisteva una tradizione stabilita e unitaria relativa al giorno della nascita di Cristo, che, sostanzialmente, la Chiesa delle origini non festeggiava.
Solo nel secondo quarto del IV secolo emerse un documento che attestava l’esistenza a Roma del Natale, fissato il 25 dicembre: è la Depositio Martyrym del calendario di Filocalo, abbozzo del calendario liturgico databile al 336 d.C. La nuova festa romana si diffuse poi in Africa, in Italia e in Oriente, così che in poco meno di un secolo era presente nell’intero mondo cristiano.
Fu probabilmente papa Sisto III ad introdurre il costume di celebrare, poco dopo la mezzanotte del 24 dicembre, una prima messa nella basilica di Santa Maria Maggiore. Quindi il vescovo di Roma si recava a Sant’Anastasia, dove prima del sorgere del sole, celebrava la seconda messa di Natale. Infine egli celebrava una terza messa in San Pietro al sorgere del sole.
In questa maniera veniva rispettata la tradizione introdotta da Costantino secondo la quale il primo Natale era stato celebrato presso il titulus Anastasiae.
L’itinerario ispirato al mito delle origini e alla “grecità” di quest’area di sublime bellezza, conduce quindi alla chiesa di San Teodoro (san Toto, per i romani), posta lungo la suggestiva strada omonima, che corrisponde, per il primo tratto, all’antico Vicus Tuscus, che proseguiva per l’attuale Via dei Fienili. I legami antichissimi di questa chiesa, intitolata a un santo soldato orientale, col mondo greco-bizantino si sono saldati definitivamente il 1° luglio del 2004, quando papa Giovanni Paolo II la concesse alla comunità greco-ortodossa di Roma, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo II. A pianta circolare.
La chiesa fu costruita sugli horrea di Agrippina, depositi annonari rimasti in funzione anche in epoca medievale. Della costruzione originaria resta la parte absidale con il mosaico databile al VII secolo che ricorda notevolmente quello dell’abside della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Sembra inoltre che fino al secolo XVI sia stata qui custodita la Lupa bronzea proveniente dall’antico Lupercale. Per molto tempo si è ritenuto che si trattasse di quella che oggi si trova ai musei capitolini, che invece studi accurati hanno dimostrato essere un’opera etrusca cui venne aggiunta dal Pollaiolo, nel XV secolo, il gruppo dei gemelli.
A San Teodoro succede la bellissima chiesa di San Giorgio al Velabro, che col suo appellativo ricorda che qui, si estendeva una palude soggetta alle ricorrenti piene del Tevere, dove la tradizione colloca il ritrovamento della cesta che aveva trasportato Romolo e Remo.
La chiesa è certamente anteriore al VI secolo e ricorda l’insediamento di una colonia greca. Lo stesso titolare, San Giorgio, è un martire della Cappadocia; esso dovette essere molto venerato a Roma se vecchi racconti collegano a questa chiesa le devozioni ufficiali di Cola di Rienzo e se lo stesso tribuno, muovendo all’occupazione del Campidoglio nel 1347, spiegava una bandiera che raffigurava il santo cavaliere nell’atto di trafiggere il drago. San Giorgio al Velabro – le cui linee romaniche sono state ripristinate attraverso un restauro del 1928 – presenta una pianta basilicale con le navate divise da due file di sedici colonne di spoglio, in marmo e in granito. La facciata, il campanile e il portichetto, devastati il 26 luglio del 1993 dall’esplosione di un’autobomba quale attentato di mafia, e in seguito restaurati, appartengono ad un rifacimento del XII secolo.
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