I tesori del Celio: Chiesa di Santo Stefano Rotondo

Il Celio è tra i sette colli di Roma il più affascinante: un lungo e silenzioso promontorio che si distacca da un pianoro dal quale nascono l’Esquilino, il Viminale e il Quirinale. Esso corrisponde a quella porzione di territorio che si distende verso la valle occupata dal Colosseo e dalla basilica dei Santi Quattro Coronati.

Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

A partire dal VI secolo, il Celio fu annesso alla II Regione ecclesiastica per la sua vicinanza alla Basilica Lateranense, tanto che per l’intero colle venne spesso utilizzato il toponimo di “Laterano”. Nuove chiese cominciarono a sorgere su antichissimi tituli, i primi luoghi di culto cristiani, il più delle volte ambienti di case private, e sugli xenodochia, centri di accoglienza per pellegrini e ammalati.
Lungo il colle, tagliato in parte da Villa Celimontana, sta una costellazione di chiese di sublime bellezza, in cui si incrociano e si sovrappongono storie di santi, di martiri, di papi e di sovrani.

Partendo dalle pendici, si comincia con San Clemente per proseguire, inerpicandosi per il colle, con i Santi Quattro Coronati, Santo Stefano Rotondo, Santa Maria in Domnica, San Tommaso in Formis, la basilica e i luoghi del martirio dei santi Giovanni e Paolo, e la chiesa e del tre cappelle dedicate a San Gregorio Magno: un itinerario da capogiro.
In tale costellazione di chiese, Santo Stefano Rotondo è la più misteriosa. Le sue origini sono antiche e ricalcano la cronologia di molti luoghi di culto del Celio, primordiali spazi religiosi pagani riconvertiti ad uso cristiano. Santo Stefano non si sottrae a questa sorte. La prima basilica fu edificata per volere di Papa Simplicio tra il 468 e il 483 e in quell’intreccio di anni risultava essere uno dei primi templi cattolici. Trascorsi quasi due millenni mantiene tutt’oggi un record importante, quello di presentarsi come la più grande chiesa a pianta centrale esistente al mondo. Datazione fondamentale per capire quando tutto ebbe inizio è il 415, anno in

Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

cui furono ritrovate a Rappa Gamela, vicino Gerusalemme, le reliquie di santo Stefano, lapidato nel 35 dopo Cristo per la sua attività di predicatore.
Con una virtuale macchina del tempo dobbiamo scavalcare Simplicio, e fermarci al I secolo dopo Cristo: i resti di un antico mitreo e dei Castra Peregrina, caserma di epoca imperiale che accoglieva e smistava le legioni straniere, ci raccontano che sotto la Chiesa dedicata a Santo Stefano diacono e protomartire vi era un altro tempio, stavolta pagano, e un’area per gli eserciti. Una vicinanza non così sospetta se ci si ricorda del legame quasi imprescindibile che associava il dio Mitra ai militi: questi ultimi infatti si affidavano alla divinità persiana perché garante di protezione della categoria nonché di vittorie nelle battaglie.
Rintracciate e riconosciute le fondamenta della nostra basilica, la pianta – costituita in passato da tre anelli concentrici e a croce latina – ci suggerisce un’altra evidente suggestione che fece da modello per Santo Stefano: la famosa chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, voluta dall’imperatore Costantino tra il 326 e il 334. Lì un muro esterno e due colonnati anulari circondavano il sepolcro di Cristo. La scelta di tale configurazione non era marginale ma anzi funzionale: in tal modo i fedeli potevano avvicinarsi gradualmente e con movimento continuo all’oggetto della loro visita senza creare “ingorghi” tra chi entrava e chi usciva. Non è un caso che le chiese con santuario hanno corridoi e ballatoi e sono edificate a pianta centrale: tutto ciò segue la precisa logica che permette di girare intorno al sacrario stabilendo una delle usanze tipiche dei pellegrinaggi. Gli antenati di queste strutture religiose circolari risalgono all’Età Imperiale, e infatti come dimenticare i perimetri murari della Villa di Adriano a Tivoli?, ma dobbiamo spingerci geograficamente e

Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

cronologicamente più lontano, in quell’Oriente ellenistico – la vasta zona tra Egitto, Siria e Anatolia dopo il 324 avanti Cristo – per ritrovare gli edifici governativi che fecero da esempio ai palazzi dell’Impero romano e che come un filo rosso tessono le trame storiche e artistiche tra la Grecia e Roma. Ma queste sono le radici; noi adesso vediamo ciò che rimane di un tronco e di una chioma fortemente sfoltite dal passaggio dei secoli, ma non per questo prive di fascino e incanto. La chiesa ha subito azioni di spoglio – umane, meteorologiche, ambientali e non ultime culturali – e i conseguenti interventi conservativi e restaurativi ce la restituiscono per ciò che è: un impianto fortemente diverso da quello concepito da Simplicio. Non vediamo più l’anello esterno basso e sopraelevato nei quattro punti contrapposti così da formare la croce greca, ma dalle fonti sappiamo che entrando ci si immergeva in una navata anulare bassa coperta da volte a botte dove si incontravano le cappelle; queste conducevano allo spazio centrale invece molto alto. Per enfatizzare lo stupore del visitatore, secondo alcuni testi, si alternavano nell’anello esterno tratti coperti a zone aperte così da creare un suggestivo gioco di luci e ombre. Gioco ripetuto all’interno dai colonnati circolari che formavano pieni e vuoti luministici per un effetto scenografico garantito. Sappiamo che i papi Giovanni I e Felice IV tra il 523 e il 529 ordinarono dei ricchi ornamenti purtroppo oggi non più visibili, ma possiamo constatare uno dei provvedimenti più significativi di quel momento: la chiusura di molti ingressi che permettevano l’accesso

Martirio dei Santi Giovanni, Paolo e Bibiana – Pomarancio e Antonio Tempesta – Santo Stefano Rotondo.

alla Chiesa. Questo perché pochi erano i credenti che gravitavano intorno alla zona del Celio – nel Medioevo progressivamente abbandonata – e perché la basilica non possedeva un ordine clericale stabile. Di quegli interventi rimane l’antico trono, proveniente forse dal Colosseo, che sulla sinistra dell’ingresso approva la nostra entrata. I restauri del XIII ci restituiscono un trono muto e monco nelle sue parti più caratteristiche, i braccioli e la spalliera. Un secolo più tardi, tra il 642 e il 649 ricopre il soglio pontificio Teodoro I che si lancia in una decisione piuttosto intraprendente, quella di spostare le reliquie dei martiri Primo e Feliciano a Santo Stefano. Cosa c’è di così ardito in tale provvedimento? Per la prima volta le spoglie inizialmente depositate nel cimitero di Via Nomentana e quindi fuori dalle mura urbane, entrano in città. Si erge una cappella, proprio di fronte all’altare maggiore, in uno dei bracci della croce iscritta e si cambia la conformazione del muro retrostante l’altare sostituito da un’abside sporgente. Visibile ai nostri occhi di visitatori moderni è la sistemazione dell’XI secolo quando si restringono i volumi della cappella per ricavare la sagrestia e un coro secondario. Gli affreschi raffiguranti il martirio dei santi eseguiti da Antonio Tempesta nel 1586 sembrano avvolgere e dialogare cromaticamente con l’altare scolpito da Filippo Barigoni nel 1736. Elemento che più di tutti caratterizza la cappella è la preziosa testimonianza dell’arte musiva nel catino absidale: qui un seppur rovinato mosaico del VII secolo ci frena davanti le composite ed eterogenee tessere che perfettamente si armonizzano tra loro grazie a un intonaco che trattiene bene i materiali ed evita la formazione di fessure intermedie.

Martirio di San Vito, San Modesto e Santa Crescenza – Pomarancio – Santo Stefano Rotondo.

Una tale abilità è attribuibile solo a un artista bizantino attivo a Roma e coadiuvato da maestranze locali. Al di là dei tecnicismi, ciò che stupisce è la soluzione adottata per rappresentare i due Santi che prima di divenir tali erano stati gettati in pasto ai leoni e agli orsi per poi essere decapitati. Non si sceglie di raffigurare il momento dell’atroce martirio, ma quello della piena serenità della Trasfigurazione, quando i due sono assunti ormai in Paradiso. Se prima di ammirare il mosaico si lambisce con gli occhi la parete circolare, soffermarsi nello spazio intimo e racchiuso della cappella non può che rincuorare l’animo. Infatti nei trentaquattro riquadri affrescati dal Pomarancio – al secolo Nicolò Circignani – nel 1583, troviamo la più truce rappresentazione dei supplizi che in ordine cronologico iniziano con la crocifissione di Cristo, primigenio atto di feroce violenza persecutoria. I colori vividi, i visi trasformati dal dolore o, dipendentemente dal ruolo, dal sadismo, restituiscono episodi drammaticamente realistici e raccapriccianti. La chiarezza didascalica, seppur cruenta ed enfatizzata dalle scritte in latino e italiano, di questa prova pittorica si deve ricondurre alla funzione che dal 1580 in poi assolve la basilica di Santo Stefano: in quell’anno, infatti, papa Gregorio XIII consegna la chiesa al Collegium Germanicum, un convitto diretto dai Gesuiti. La basilica si ritrova, così, ad essere punto di raccolta e di studio dei futuri ecclesiastici e ciò spiega la necessità educativa dell’apparato decorativo, adeguata alla nuova vocazione didattica della Chiesa. Ricordiamoci che siamo in piena Controriforma, che i gesuiti erano gli affidatari del verbo tridentino e che sull’arte grava adesso più che mai l’urgenza di coinvolgere e quasi sconvolgere il fedele in un’esperienza religiosa che rasenta il misticismo.

Roma, 30 marzo 2019


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