Satire ed Epigrammi

Come si vive a Roma

di Giovenale e Marziale.

In occasione della visita guidata all’Insula dell’Ara Coeli, il 10 febbraio alle 16.00, proponiamo una lettura classica: le satire di Giovenale e gli epigrammi di Marziale che descrivono con precisione e arguzia le condizioni nelle quali si viveva a Roma tra

Insula romana – ricostruzione.

il I e il II secolo dopo Cristo. Entrambi i poeti si trovano a vivere in una Roma affollata e caotica, che corrisponde per Marziale alla Regio VII, dove, nella contrada detta “al Pero”, sulle prime propaggini del Quirinale oggi corrispondente all’area da Via Rasella a Piazza Barberini, si trovava l’insula in cui era situata la sua abitazione, mentre per Giovenale lo scenario dove si trovava la sua abitazione era un’insula all’interno della Suburra.  

Giovenale Satira III.239-267: “Il caos ed i pericoli di Roma. Il giorno”
Quando il ricco è chiamato (a svolgere) i suoi obblighi, la folla (gli) cede
il passo e la smisurata liburna corre sopra le teste
e nel frattempo all’interno (egli) legge o scrive od anche dorme;
poiché la lettiga con la tenda chiusa induce il sonno.
Nondimeno arriverà prima: a me l’onda della folla che mi precede
impedisce d’andar velocemente, e l’intero popolo radunato


che segue mi pressa sui lombi; uno mi dà una gomitata, un altro mi ferisce
con la dura sbarra (della portantina), questo mi colpisce alla testa con una trave, e quell’altro con un’anfora.
I piedi (rimangon) piantati nel fango, ed in un istante enormi suole mi calpestan da ogni lato,
ed un soldato mi pianta saldamente nel dito (del piede) il chiodo (della sua calzatura).

Giovenale.

Non vedi che gran fumo per ricevere la sportula?
Cento convitati, e ognuno col suo proprio supporto per la cucina.
Lo stesso Corbulo sosterrebbe a stento sul capo il peso di così tanti vasi
enormi, e di tutti quegli arnesi posti sulla testa, che quel giovane sfortunato
schiavetto trasporta col capo eretto mentre anche corre a ravvivare il fuoco.
Le tuniche appena rammendate si strappano a pezzi, scuotendo il carro
avanza un lungo abete, e su un altro carretto vien portato un pino;
oscillano da quell’altezza e (intanto) minacciano la gente.
Se poi l’asse (di quella biga) che sostiene quel marmo ligure cedesse
e rovesciasse (il suo carico) spandendolo (sulla folla) come un fiume (sparge l’acqua) dal monte,
cosa (mai) resterebbe dei corpi? Chi sarebbe capace di ritrovar le membra? Chi rintraccerebbe le
ossa (stesse dei malcapitati)? Il cadavere del poveraccio spappolato e calpestato si disperde in ogni dove nello stesso modo del suo soffio vitale. Nel frattempo nella (sua) casa tranquillamente (servi e familiari) di già lavano i piatti
e ravvivano il fuoco soffiandovi sopra mentre i raschietti stridono sull’untuosa mensa e riempite le ampolle vi si predispongono le coperture di lino.
Questi preparativi sono velocemente eseguiti dai ragazzi, mentre quel poveraccio
di già siede sulla riva (dell’Acheronte) e da novizio è terrorizzato dall’infame
traghettatore (Caronte) sventurato per non poter sperare sulla sua barca di betulla onde passare quei
furiosi gorghi fangosi, non potendo porgere dalla sua bocca l’obolo (per il transito).

Giovenale Satira III.268-314: “I pericoli notturni di Roma”.

Satire di Giovenale. Edizione 1875.

Considera ora gli altri e differenti pericoli della notte:
dalle abitazioni coi tetti torreggianti (cadon) vassoi di terracotta (che ti)
colpiscon la testa (rompendotela), e spesso dalle finestre piovon vasi
crepati ed inutilizzabili, di una tal dimensione che il peso segna e lesiona
i massi di selce (della strada). Se ti rechi a cena
senza aver fatto testamento,
potresti esser considerato uno sciocco ed uno sconsiderato (non pensando
di poter subire) un improvviso incidente: è in agguato la morte,
da ognuna di quelle finestre aperte (da cui) osservano il tuo passaggio.
Perciò esprimi una speranza ed una pietosa preghiera,
affinché si contentino di versarti addosso solo il contenuto dei lor catini.
Un ubriaco prepotente, che per puro caso non ha ancor accoppato alcuno,
preso dalle pene, passa una notte di sofferenze come quella di Achille che piange il suo
amico, giacendo ora faccia in giù, e immediatamente dopo sdraiato supino:
[veramente per certa gente non v’è altro modo per dormire]
(a costoro) una rissa concilia il sonno. Ma per quanto reso perfido dagli anni
e svuotato dallo schietto vino che lo brucia questi si mantiene alla larga da chi indossa
un mantello di lana scarlatta ed è accompagnato da una lunghissima schiera di servitori,
provvisti di numerose torce e di bronzee lanterne.
Con me, che son solito farmi condurre dalla luna od eventualmente dalla fioca luce
d’un moccolo, di cui regolo e controllo (con parsimonia) lo stoppino,
(è con me che lui) se la prende. I disgraziati ben conoscono come inizia la rissa
se si può parlar di rissa, quella dove tu colpisci, e sol’io vengo pesantemente percosso.
Si pianta di fronte e ti ordina di fermarti. Obbedire è inevitabile;
cos’altro fare infatti, quando te lo impone un folle e quello è molto
più forte? ‘D’onde vieni?’ urla, ‘Di chi (è) l’aceto, di chi
le fave con cui ti sei rimpinzato? Qual ciabattino ha masticato con te

Insula – ricostruzione.

fette di porro e testina di montone castrato bollito?
Non mi rispondi nulla? Parla o ti prendo a calci.
Dove ti rintani a mangiare: in qual sinagoga posso cercarti?’
Se balbetti una qualunque cosa od anche tenti di sgaiattolar via in silenzio,
è lo stesso: son sempre botte, e dopo, inferociti,
pretendono una cauzione (da te). La libertà del poveraccio è questa:
bastonato e schiantato dai pugni chiedere ed implorare affinché
gli sia concesso di andar via da lì con (almeno) qualche dente (ancora in bocca).
Nondimeno non c’è da aver paura sol di questo; infatti, (una volta che) le case
(son) chiuse, e dopo che ovunque gl’ingressi di tutte le taverne ormai silenziose
sono assicurati saldamente dalle catene, spunta chi ti deruba (d’ogni cosa).
Ed anche talvolta il bandito risolve la cosa immediatamente con una lama:
infatti tutte le volte che per sicurezza le guardie armate presidiano
la palude Pontina e la pineta Gallinaria,
allora da quei luoghi tutti (i briganti) corrono a (Roma, come fosse) una riserva (di caccia).
Qual fornace, qual incudine (ormai) non forgia massicce catene?
Per lo più producon ceppi di ferro, e c’è quasi il timore che
possano scarseggiare i vomeri, e che (le produzioni di) zappe e sarchie sian tralasciate.
Fortunati gli avi ed i loro antenati, e felici puoi ben dir
quei tempi andati quando sotto ai re ed ai tribuni
Roma vedeva un sol carcere di contenzione.

Marziale X.74: “Oh Roma, fammi dormire”
Ora, o Roma, abbi pietà per uno stanco cliente, grato,

Marziale.

ma esausto. Per quanto ancora dovrò salutare mescolato
a servi accompagnatori e ad insignificanti clienti
per racimolare cento monete di piombo in un intero giorno,
quando Scorpo in una sola ora, se vince, rimedia
quindici sonanti sacchi di scintillante oro?
A premio dei miei libretti – cosa contano in fondo? –
non (desidero) i campi della Apulia,
non Ibla, e neanche i cereali portati dal Nilo,
né quella dolce uva che dagl’impervi declivi
setini guarda alle paludi pontine.
Cosa dunque ardentemete desidero (mi) chiedi? Dormire.

Marziale I.108
Tu possiedi una splendida casa – ed imploro che sia tua
e possa ingrandirsi per molti anni a venire – ma in verità è al di là del Tevere:
mentre la mia soffitta guarda ai giardini di Agrippa,
ed ormai in questa regione stò divenendo vecchio.
Perché io possa venire a porti il mio saluto mattutino, o Gallo, dovrò cambiar residenza:
e tu meriteresti tanto, anche se la tua casa fosse più lontana.
Ma per te sarebbe cosa di poco conto, se un sol togato si aggiungesse (ai numerosi altri):
molto sarebbe per me, Gallo, se io unicamente non venissi.
Personalmente ti porgerò frequentemente il mio saluto alla decima ora:
La mattina il (mio) libro ti darà il buongiorno a nome mio.

Marziale I.117: “A Luperco”
Ogni volta che ci incontriamo, Luperco,
immediatamente (mi) dici ‘vuoi che mandi il mio servo,
in modo che tu possa dargli il (tuo) libretto di epigrammi,
che dopo aver letto prontamente ti restituirò?’
Non c’é motivo, Luperco, di affliggere il (tuo) servo.
È lontano, se vuol venire al Pero,
ed abito al terzo piano, ma gli scalini son di quelli alti.

Epigrammata – Marziale. Edizione 1490.

Ciò che vuoi puoi ottenerlo più facilmente.
Sicuramente sei solito recarti all’Argileto:
di fronte al Foro di Cesare stà una piccola bottega
ai cui stipiti dell’ingresso per l’intera altezza
stanno delle scritte che brevemente citano tutti i poeti.
Lì chiedi di me. Non appena domandi Atrectum
– questo il nome del padrone della botteguccia –
dal primo o dal secondo scaffale per cinque denari
ti darà un Marziale preso dal gruppo
lisciato con la pomice ed ornato di (rossa) porpora.
‘Non vali tanto’ tu dici? Hai colto nel segno, Luperco.

Marziale I.86: “Il vicino di casa”
Novio è il mio vicino e dalle mie finestre
con la mano si può toccare.
Chi non mi invidia e non ritiene
ch’io sia beato ad ogni istante,
potendo godere d’un tanto intimo compagno?
È tanto lontano da me quanto Terenziano,
che ora amministra le Siene della Nillica.
Non (possiamo) banchettare (insieme), e neanche vederci,
e non poss’io udirlo, né in tutta Roma
c’è chi mi sia tanto vicino e pur tanto lontano.
Devo emigrar più lontano o io o lui.
Se non desideri di veder Novio
devi esser vicino di Novio, o suo inquilino.

Roma, 28 gennaio 2018


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