Per la loro mole, per il fatto di sorgere pressoché isolate in un luogo caratterizzato da folta vegetazione e legato ai miti delle Ninfe e del Bosco magico in cui esse vivevano, le Terme di Caracalla sono state la meta di molti viaggiatori italiani e stranieri tra l’Ottocento e il Novecento.Delle Terme essi hanno scritto nei diari o da esse hanno tratto ispirazione per i versi o le prose.
Vi proponiamo qui qualche pagina di questi scritti.
“…Nessun luogo desolato fu mai né più sublime, né più bello. Il muro perpendicolare è un seguito di precipizi ricoperti da alberi in fiore.
A ogni posto pinnacoli aerei di pietre si raggruppano in combinazioni del più strano effetto; quel muro sembra proprio un altro colle boschivo. [….] Questo poema (il “Prometeo liberato”) fu scritto per la maggior parte sulle scoscese rovine delle Terme di Caracalla, tra le floride radure e le macchie di odorosi alberi in fiore che formano sinuosi labirinti sulle loro immense spianate e sugli archi vertiginosi sospesi nell’aria. Il luminoso cielo azzurro di Roma, e l’effetto della vigorosa primavera, che ridestandosi in quel clima divino impregna di nuova vita gli spiriti fino a inebriarli, ispirarono questo dramma…”.
Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822)
“…Stupende. Massicce. Le rovine formano, per così dire, ponti naturali di migliaia di archi. Ci sono spazi erbosi e cespugli fra le rovine, che vengono su alti. Ho pensato a Shelley. Certo qui si alimentò la sua ispirazione. Corrisponde alla sua concezione drammatica, al suo stato d’animo.
C’è ancora una maestosa, desolata grandezza…”.
Herman Melville (1819 – 1891)
“….Avendo finito di visitare il Foro, siamo andati a vedere stamattina le rovine delle terme di Caracalla, che si trovano in città, cioè dentro le cinta delle mura.
Abbiamo percorso tre quarti di lega, e durante l’ultima mezz’ora abbiamo camminato in mezzo a vigne e colline, lontano da ogni abitazione. Dopo aver oltrepassato il Campidoglio e il Colosseo, abbiamo seguito le rovine delle mura di Romolo, quindi abbiamo visto le rovine del Circo Massimo e siamo risaliti lungo il rigagnolo dell’Aqua Crabra; infine siamo arrivati alle enormi mura di mattoni, meta del nostro viaggio.
Questi resti informi, notevoli soltanto per la grandiosità delle mura che restano in piedi, furono un tempo uno dei luoghi più lussuosi di Roma. C’erano in queste terme milleseicento sedili di marmo, simili a quello di porfido che si conserva al Louvre, che fa venire in mente un aneddoto sull’elezione del papa. Qui duemilatrecento persone potevano fare il bagno contemporaneamente, e senza vedersi l’un l’altro; ogni cameretta era rivestita di marmi preziosi ed ornata di bronzi dorati. Al nostro arrivo un povero disgraziato, un contadino consumato dalla febbre, ha messo un mozzicone di torcia in cima ad una canna di dieci o dodici piedi, e ci ha condotto in un luogo oscuro, dove ci ha mostrato i ruderi della prima cinta di queste terme. Son cose utili a vedersi, perché possono servire come segno di un ricordo, ma non sono interessanti.
Le mura immense di cui parlo formano quattro sale; la barbarie degli ultimi secoli le ha spogliate di tutto ciò che è stato possibile portar via; si distinguono soltanto le nicchie in cui erano le statue. Alcuni di noi si sono arrischiati a salire per una scala a chiocciola, su cui si vedono resti di un mosaico; giunti in cima al muro, sono rimasti colpiti dall’estensione delle terme, in cui si trovava riunito tutto insieme tutto ciò che può servire ai diversi esercizi ginnici, così necessari anche alle persone ricche prima dell’invenzione della polvere da sparo.
Non ci sono colonne in queste terme, e secondo me ciò toglie loro ogni espressione, per me sono come rovine orientali. Ma avevano qualcosa che gli antichi ammiravano molto: una grande volta appoggiata su una griglia di bronzo, almeno per quel che si può comprendere leggendo il testo di Elio Sparziano.
Ci sono giorni in cui questi ruderi informi possono piacere molto; ma secondo me riescono tanto più interessanti quanto meno la descrizione che se ne dà è complicata.
E’ così informe questo monumento che non può avere che un pregio: la realtà. In altre parole, l’arte non può far altro che un inutile racconto, oscuro non appena scende in particolari, e quindi non può dare idea di queste rovine; occorre assolutamente averne sott’occhio una veduta pittoresca; pochi pittori sarebbero capaci di farne una sufficientemente caratterizzata.
Siamo stati colpiti dal bel verde delle piante, che crescono al riparo di quelle enormi muraglie, e che sono per la maggior parte velenose, se dobbiamo credere alla nostra guida….”.
Stendhal (1783 – 1842)
“….Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità del suolo, lasciando in qualche punto vedere la campagna. Volte alte e leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d’arco prolungati e sottili, che minacciano rovina… Si guarda e si pensa. E’ triste, è penoso lo sforzo che si fa per ricondurre nella mente nostra l’intero edifizio….Quegli avanzi son come le note interrotte d’una musica lontana, di cui s’indovina, più che non si sente, la melodia….”
Edmondo De Amicis (1846 – 1908)
“…Le mura salivano, altissime, coperte di cespugli d’erba e di spini, con la solidità che sfida i secoli. Nel mezzo degli stanzoni vastissimi, il suolo aveva ceduto, era diventato concavo, come quello di una vasca, e vi si raccoglieva un pantanello di acqua nerastra…. Sul lamentevole cielo di novembre si disegnava un altissimo pezzo di muro sgretolato, uno scoglio irto, a picco, che pareva salisse su, su, nella regione delle nubi….”
Matilde Serao (1856 – 1927)
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