«Chi ha rivelato Roma ai romani è stato un non romano, un veneto, Silvio Negro, capo della redazione romana del Corriere della Sera e vaticanista di fama europea» ha scritto Stefano Malatesta nell’introduzione alla nuova edizione del prezioso volume di Negro “Roma, non basta una vita”, giunta in libreria solo pochi mesi fa in quarta edizione da Neri Pozza, dopo quella del 1965.
Pubblichiamo “Illustri vittime dell’Anno Santo”, un saggio del 1951.
I trattori romani che si mostrano piuttosto delusi a proposito dell’Anno Santo, hanno fatto male a credere che mesi buoni per i pellegrinaggi siano quelli di gennaio e di febbraio. Tutta la storia degli Anni Santi dice proprio il contrario, non solo, ma la detta storia…segnala quasi regolarmente insieme con l’affluenza dei pellegrini nei mesi buoni la loro carenza in quelli controindicati, con la conseguente delusione di osti ed albergatori.
Il cronista Paolo Del Mastro, annotando quanto avvenne, ad esempio, nel 1450, dice che, dopo la prima affluenza natalizia per l’inizio del perdono, seguì una stasi che preoccupò molto gli «industrianti», tanto che pareva a ciascuno d’essere «disfatto». Ma con la buona stagione si aprì il flusso e fu tanto notevole che, sia Paolo Del Mastro che i suoi colleghi, per descriverlo non seppero far altro che attaccarsi alle vecchie immagini degli eserciti di formiche e delle nuvole delle cavallette. Al solito, passare sul ponte di Castel Sant’Angelo per andare alla basilica di San Pietro diventò un problema per l’ingorgo della folla e si dovettero prendere le misure d’ordine che già avevano colpito la fantasia di Dante, e mettere drappelli di sorveglianti per farle osservare. «Ed io, Paolo – dice il Del Mastro – ci fui più volte, insieme cogli altri, colli bastoni in mano a sfollare la gente».
La calca fu tale su quel ponte, nonostante che il 1450 sia stato anche anno della pestilenza, che il 19 dicembre, un’ora prima di notte, mentre la gente defluiva da San Pietro, avvenne un incidente che costò la vita a centosettantadue persone alle quali, secondo il De Mastro cronista scrupoloso, bisogna aggiungere anche quattro cavalli e una mula. Per capire come potesse verificarsi un fatto del genere si deve tener presente che il ponte Sant’Angelo era l’unico di passaggio sul Tevere per andare dalla città a San Pietro, che per arrivare al tratto centrale del ponte si saliva su un ripido declivio sia da una parte che dall’altra e che, ai due lati del transito, v’erano sul ponte stesso baracche, negozi e banchi di venditori. Furono alcuno quadrupedi che imbizzarrendosi e mettendosi a scalciare provocarono il tragico parapiglia: al numero dei calpestati e soffocati nella stretta si aggiunse poi quello dei disgraziati spinti fuori dalle spallette i quali, caduti nel Tevere, vi annegarono.
Così per ordine di Nicolò V, il primo Papa umanista, fu fatto alla fine del Giubileo quello che si sarebbe dovuto fare dall’inizio, fu così liberato il ponte dalle botteghe e con il materiale ricavato nelle demolizioni furono attenuati i dislivelli laterali. Di più, per facilitare il transito, fu allora abbattuto sulla sinistra del Tevere l’arco di Graziano Valentiniano e Teodosio che sbarrava in un certo senso la via, obbligandola a passare sotto i suoi tre fornici.
Abituato al luogo comune delle distruzioni compiute dai barbari l’uomo della strada stupisce sentendo dire che per tutto il Medioevo i grandi edifici della Roma antica erano in piedi, per quanto sconquassati dai terremoti e spogliati delle cose di maggior valore, e che furono distrutti proprio dal Rinascimento. Non solo, anche la rete stradale era in gran parte quella antica e l’arco di Graziano era stato costruito più di mille anni prima in quel punto per ricordare una sistemazione di portici interessante le grandi vie di tutta quella zona di Roma. Era a tre fornici quest’arco e come tutta la bassa latinità, compreso l’arco di Costantino, doveva incorporare elementi di scultura tolti di peso da monumenti più antichi. Addosso alla chiesa di San Celso, che esiste ancora, in parte era già crollato quando avvenne il fattaccio sul ponte, comunque in quell’occasione scomparve del tutto e fu una vittima dell’Anno Santo.
Né fu l’unico fra i monumenti della Roma antica che caddero allora sotto il piccone demolitore per dare più agevole passaggio alle schiere dei romei. Altre vittime illustri fece, ad esempio, cinquant’anni dopo Alessandro VI anche per il Giubileo del 1500 volle aprire una strada nuova da Castel Sant’Angelo a San Pietro più comoda della vecchia via porticata percorsa fino ad allora dai pellegrini. Quella strada, che i romani chiamarono Borgo Nuovo e che è scomparsa solo alcuni decenni fa, assorbita da via della Conciliazione, volle essere dritta e perciò sacrificò, tra molte altre cose, anche un monumento di cui disponeva la Roma di quel tempo e che in termini d’oggi si potrebbe definire la seconda tomba di Caio Cestio.
Si trattava infatti di un sepolcro antico a piramide, costruito proprio come la tomba di Caio Cestio, largo alla base quaranta piedi e altro altrettanto, sorgente all’incrocio di via Trionfale con la via Cornelia, in una località che corrisponde al lato sinistro della chiesa della Traspontina. In quel sepolcro di strana foccia e di grandiosa semplicità l’ingenua fantasia medioevale aveva creduto vedere la tomba di Romolo, ma Papa Borgia, uomo del Rinascimento, non ebbe pietà né per l’opera né per la leggenda e per ottenere che la nuova via risultasse diritta, fece distruggere la meta Romuli. Non possiamo però condannarlo ed inveire contro la necessità del traffico o imprecare contro le occasioni che lo rendono più intenso, Anno Santo compreso, senza rischiare di darci la zappa sui piedi. Noi uomini del Novecento facciamo infatti, ogni volta che l’occasione si presenta, esattamente come i nostri padri del passato, siamo pronti a inveire contro i distruttori di prima, ma quando una reliquia antica si trova sulla nostra strada siamo anche prontissimi a toglierla di mezzo. Così Mussolina fece sparire la mera sudante per sgomberare l’accesso alla via dei Trionfi e così Roma era pronta a distruggere qualche mese fa l’unico notevole avanzo che le resta delle sue mura repubblicane, perché lo trovava fastidioso in una piazza ch’è sì vastissima, ma che da quel rudero rimarrà malamente tagliata in due proprio nei pressi della nuova facciata della stazione.
«Hanno fermato Annibale, non fermeranno il traffico», dicevano or non è molto minacciosi titoli di giornali su due colonne. Si poteva trasportarle altrove, ma le mura repubblicane hanno resistito perché il Ministero dell’Istruzione ha tenuto duro per loro: non è detto ancora, purtroppo, che la gratitudine dei visitatori dell’avvenire sarà di compenso ai moccoli degli autisti.
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