La storia di Villa Torlonia ha inizio nel 1673 quando la vigna, posta ad un miglio esatto da Porta Pia, venne acquistata dal cardinale Benedetto Pamphilj, un ecclesiastico davvero singolare, un mecenate che vantò, come ospiti, tra gli altri, musicisti quali Arcangelo Corelli e Georg Friedrich
Handel. Quest’ultimo, in virtù del profondo rapporto d’amicizia che li legava, musicò per lui alcune Cantate i cui testi vennero scritti dal cardinale Pamphilj stesso. Ma non fu, questo, un caso isolato.
Benedetto Pamphilj, infatti, amante della musica colta, scrisse anche libretti di opere poi musicate da Alessandro Scarlatti.
Per esercitare al meglio queste sue prerogative di mecenate ed amante della musica, al fine di organizzare eventi mondani, il cardinale acquistò la proprietà nota con il nome di Vignola, posta poco distante da Porta Pia, ma molto meno estesa dell’attuale Villa Torlonia. In seguito, chiamò Giacomo Moraldo, Mattia de’ Rossi e Carlo Fontana affinché questi si occupassero della sua sistemazione e la rendessero un luogo ameno ed adatto a ricevimenti.
Il casino principale, che si trovava nella posizione esatta in cui oggi sorge il Casino Nobile, aveva sale dipinte con paesaggi, uccelli e fiori. Era arredato con eleganza e aveva una loggia impreziosita da statue.
Non sono molte le notizie che si possono reperire relative a questo periodo di storia della proprietà, delle sue architetture e dei suoi arredi. Ancora meno sono quelle riguardanti i cambiamenti avvenuti all’interno della villa quando i Colonna ne diventano i successivi proprietari.
Testimonianze più complete, si hanno, invece, a partire dal 1797 quando la proprietà venne acquistata da Giovanni Torlonia, un personaggio che oggi verrebbe definito un “self made man”, il capostipite di quella che diventerà una delle famiglie nobiliari più ricche della città di Roma.
La famiglia Torlonia manterrà, a far data dal 1797, la proprietà della villa per circa due secoli, periodo in cui, per mezzo dell’acquisizione di nuove proprietà, questa divenne più estesa, anche più di come la vediamo oggi. Tra i grandi architetti chiamati a dare un nuovo aspetto alla proprietà, appare Giuseppe Valadier, probabilmente uno dei pochi in grado di interpretare i desideri e le ambizioni di una famiglia che ormai poteva vantare principi e non solo marchesi.
La villa di oggi, nell’interezza del parco e di una gran parte degli edifici, appare al visitatore dopo lunghi e attenti restauri resisi necessari dopo i danni prodotti dall’occupazione degli Alleati, tra il 1944 e il 1947, e il successivo abbandono in cui la villa cadde e rimase fino al 1978 quando il Comune di Roma l’acquistò dietro la pressione esercitata dai cittadini.
I restauri non hanno certamente potuto restituirne l’originaria integrità, ma hanno permesso, comunque, di leggerne i complessi significati e le architetture del Parco e dei suoi edifici.
La realizzazione di ciò che oggi è possibile vedere, almeno in parte, comincia nel 1828, quando la villa diviene proprietà di Alessandro Torlonia che chiama gli architetti Giovan Battista Caretti e Giuseppe Jappelli: il primo ad occuparsi della parte nord del giardino e degli edifici che qui insistevano o che qui dovevano essere realizzati, il secondo, vero architetto del verde, a realizzare un giardino all’inglese come quello che lo stesso Alessandro Torlonia aveva potuto ammirare quando era stato ospite di lord Hamilton a Pain’s Hill, giardino realizzato da William Kent, considerato l’architetto inglese iniziatore della moda del giardino paesistico inglese.
Sia Caretti che Jappelli avranno un rapporto burrascoso con Alessandro Torlonia e con la nobiltà romana tutta, e, sebbene per motivi diversi, entrambi interromperanno il loro lavoro prima del suo completamento. Ciò nonostante, la parte dei rispettivi progetti effettivamente realizzata risulterà di tale dirompente bellezza da fare della Villa Torlonia un unicum mai imitato a Roma.
In particolare, Jappelli, decide di realizzare nel settore sud del giardino una scenografia orientale, uno degli elementi che doveva essere presente in ogni giardino all’inglese. Tra le diverse possibilità e modelli “orientali” a cui potersi ispirare – cinese, indiano, giapponese, ecc… – Jappelli scelse di rifarsi al mondo arabo ed in particolare di farsi guidare dal testo dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. La narrazione inizia con quella che oggi conosciamo come la Casina della Civette, completamente irriconoscibile nella sua trasformazione in piccolo villaggio medievale risalente al 1920, ma inizialmente realizzata in forma di Capanna Svizzera/romitorio, che nella narrazione jappelliana diviene l’abitazione dell’Eremita, che Ludovico Ariosto pone su uno scoglio solitario nel Mediterraneo.
Si passa poi ad una struttura non ancora restaurata: una grotta che svolgeva la funzione della tomba di Merlino nel romanzo cavalleresco. Il campo di Agramante, riassunto dall’insieme della Serra e della Torre Moresca (restaurate entrambe ma purtroppo non disponibili alla visita) e il Campo Cristiano, che corrisponde al Campo dei Tornei. Completavano la narrazione altri due ambienti: la selva e l’isola di Alcina.
La selva, ovvero il boschetto in cui Angelica incontra Sacripante, oggi non è altro che un’area del parco dove la vegetazione ha preso il sopravvento e che risulta impossibile da attraversare,
contraddicendo l’originaria impostazione di Jannelli, che aveva immaginato questa parte del parco ricca si di una vegetazione intricata, che suggeriva uno spazio in cui perdersi per poi ritrovarsi.
L’isola di Alcina è invece andata completamente perduta. Il lago nella quale essa era stata realizzata fu infatti prosciugato alla fine dell’Ottocento e oggi al suo posto troviamo una piana alberata.
La visita, che vuole anche ricordare il cinquecentenario della prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, è un’occasione per far rivivere, in parte con la fantasia, in parte con la lettura dei brani che hanno ispirato Jappelli, i luoghi come l’architetto li aveva realizzati, a partire proprio dalla Casina delle Civette.