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  1. Basilica di Santa Maria in Trastevere

    Piazza Santa Maria in Trastevere. Si ringrazia “Roma Ieri e Oggi”.

    Piazza Santa Maria in Trastevere è stato l’unico vero centro dell’antico Trastevere e ne è anche oggi il punto più suggestivo, dominato dalla basilica, dall’armonioso, attiguo palazzo seicentesco e da edifici che accompagnano con equilibrio gli aspetti monumentali. Al centro è la fontana che sembra ricordare l’antico càntaro dell’atrio che doveva precedere la basilica e che è stata costruita con vasca ottagonale da Carlo Fontana nel 1692.
    La storia della fontana è però assai antica. La tradizione vuole infatti che sia stata la prima fontana di Roma costruita per volere di Augusto nel I secolo avanti Cristo, alimentata dall’acqua Alsenita e spostata in questa piazza, ma posizionata all’estremità opposta rispetto alla chiesa, da Nicolò V per il Giubileo del 1450.
    Come tutte le fontane romane però anche questa subiva una continua usura e quindi fu più e più volte rifatta. Nel 1498 da Bramante per volere del

    Piazza Santa Maria in Trastevere nella pianta di Roma di Pietro Il Massaio del 1571

    cardinale spagnolo Giovanni Lopez che fu ordinato da Alessandro VI, che facendo dell’ironia sul proprio cognome fece apporre sulla fontana un’iscrizione in latino, che in italiano recita così: “Se l’acqua che cade col blando mormorio ti concilia il sonno e forma tremuli laghetti; se bevi limpidi sorsi e ti lavi, devi ringraziare il Lupo che ha rifatto la fonte. Considerando quindi il suo interessamento, o Romolo, dimmi la verità: questo Lupo ti è forse meno padre di quanto non ti fu madre la lupa?“.
    Nel 1591 fu la volta di una nuova trasformazione: la fontana venne alimentata dall’acquedotto Felice e quindi divenne una vera e propria fontana pubblica, con acqua che era buona per abbeverare uomini e animali.
    Fu Bernini che nel 1658 si occupò di nuovo del suo rifacimento, la spostò nella posizione attuale e la collegò all’acquedotto dell’acqua Paola che proveniva dal Fontanone sul Gianicolo.

    Un testo del 1600 dove si vede chiaramente la posizione originaria della fontana.

    Ma anche la fontana del Bernini non durò molti anni se è vero che di nuovo Carlo Fontana nel 1692 la ebbe a rifarla per aumentarne la capacità. Tra i suoi interventi la sostituzione delle conchiglie berniniane che divennero così più grandi e furono disposte in posizione eretta. Ma la fontana che ammiriamo oggi non è quella imponente di Carlo Fontana, ma ciò che ne resta dopo un restauro di fine Ottocento.
    Ponendosi nella piazza di Santa Maia in Trastevere risulta ben chiara l’antica topografia di questa parte del rione e l’assoluta centralità che vi ebbe la piazza stessa, collocata nel punto di convergenza delle tre strade importanti del rione: le due sistemate ai primi del cinquecento da Giulio II, via della Lungaretta e via della Scala, in prosecuzione di via della Lungara, e il seicentesco rettilineo di Paolo V, la via di San Francesco a Ripa.
    Nella gerarchia delle chiese romane, Santa Maria in Trastevere occupa un

    La fontana di Carlo Fontana.

    posto di primo piano, venendo subito dopo le quattro basiliche maggiori, San Pietro, San Paolo, San Giovanni e Santa Maria Maggiore per la sua antichità. Essa fu anche tra le prime a essere dedicata alla Madonna, insieme a Santa Maria Antiqua tra Foro Romano e Palatino e Santa Maria Maggiore. Inoltre Santa Maria in Trastevere fu la prima a essere insignita del privilegio di “basilica minore” ed è quella che più frequentemente, in certi anni giubilari tormentati da calamità e pestilenze, veniva sostituita alla lontana San Paolo fuori le Mure sulla via Ostiense nelle visite d’obbligo dei pellegrini.
    Secondo la tradizione, la chiesa sarebbe stata fondata da papa Callisto I tra il 217 e il 222 e sarebbe stata completata da Giulio I nel 352. Nel nono secolo Gregorio IV compì altri lavori per depositarvi corpi di santi tratti dalle catacombe esposte ai colpi di mano dei Musulmani. Ma radicale e decisivo per le sorti della basilica fu il rifacimento totale nel secolo XII, avviato da Innocenzo II e completato da Eugenio III, il quale costruì, in ultimo, il

    Particolare di una delle conchiglie della fontana di Carlo Fontana.

    campanile, che può essere datato tra il 1145 e il 1153. Rifacimento che venne effettuato utilizzando quasi esclusivamente i travertini e i marmi delle terme di Caracalla.
    Altri lavori vennero eseguiti nel 1584 a cura del cardinale Marco Sitico Altemps, mentre nel 1617 venne rifatto il soffitto della chiesa medesima e, per tutto il secolo, si lavorò alla costruzione delle cappelle barocche. Nel 1702, su progetto di Carlo Fontana, venne creato il protiro. Notevoli altri lavori vennero eseguiti da Virginio Vespignani sotto Pio IX.
    Nella preistoria della basilica sta un fatto straordinario che non dovrebbe essere privo di qualche obiettivo fondamento: lo zampillare dal suolo di una fonte di olio minerale che, in seguito, sarebbe stata considerata preannuncio e simbolo dell’avvento dell’era cristiana. Il luogo della “fons olei” è oggi indicato da un gradino del presbiterio.
    Nella facciata, che risulta il centro focale della bella piazza raccolta, quasi come un antico atrio, attorno alla basilica, si nota in modo particolare la

    Particolare del mosaico della facciata: Maria in trono che allatta il Bambino.

    scintillante fascia dei mosaici, forse risalenti al XIII secolo e probabilmente restaurati da Pietro Cavallini. Poi lo sguardo ascende verso l’alto dello snello campanile romanico dove splende in piccolo tabernacolo il mosaico della Vergine con il Bambino. A coronamento del campanile c’è una campana esterna, mentre più in basso si trova un grande orologio.
    Il portico con cinque cancelli è coronato da una balaustra con statue, e contiene un denso lapidario cristiano e avanzi marmorei della più antica chiesa.
    L’interno, di tipo basilicale, è a tre navate divise da due file di 22 colonne di granito. Altre due colonne sostengono l’arco trionfale e due coppie di minori colonne reggono gli archi terminali delle navate minori. La grande

    Mosaico del catino absidale.

    aula è avvolta in un’atmosfera di equilibrata, ma esaltante policromia che va dal pavimento cosmatesco ai lacunari del soffitto, fino allo sfolgorio dei mosaici dell’abside.
    Il soffitto venne disegnato dal Domenichino nel 1617 del quale è anche la grande figura dell’Assunta, dipinta su rame, che si trova al centro del complesso lavoro di intaglio, di dorature e di pittura. I mosaici absidali sono su tre fasce: in basso, tra scene dipinte del Cinquecento, domina un riquadro del Cavallini con la “Madonna e i Santi”; al di sopra sono le scene della vita della Vergine Maria dello stesso autore; più in alto sono i mosaici del XII secolo con scene simboliche nel semicatino e figure di profeti nel frontone.
    Nel presbiterio, dominato dal cinquecentesco soffitto a cassettoni, si notano il ciborio su colonne di porfido, rifatto dal Vespignani, plutei e candelabro pasquale dei Cosmati.

    Cappella Altemps. La volta.

    In una piccola nicchia in fondo alla navata destra sono conservati alcuni strumenti di morte e di tortura utilizzati per numerosi martiri: catene, pesi di ferro e pietre. Secondo la leggenda tra questi strumenti di tortura ci sarebbero anche le catene e i pesi che furono legati al collo di San Callisto quando questi fu gettato nel pozzo per annegarlo. Il pozzo teatro del martirio è invece conservato nella vicina chiesa di San Callisto.
    A fianco dell’abside e nel transetto ci sono interessanti monumenti funebri di varie epoche: da notare quello Armellini nel transetto di destra e, in quello di sinistra, un altare gotico e i due monumenti laterali.
    Fra le cappelle, risaltano quella Altemps, sulla sinistra dell’abside, progettata da Martino Longhi e coperta di stucchi e dipinti, e quella D’Avila di Antonio Gherardi risalente al 1680, improntata a una architettura particolarmente fantasiosa per i giochi prospettici e illusionistici che portano il borrominismo alle estreme conseguenze.
    Si notano ancora nella chiesa un crocefisso ligneo dei primi del Quattrocento, un ciborio di Mino del Reame e il sepolcro dall’autore della chiesa medievale Innocenzo II, le cui spoglie vennero qui fatte trasferire dal Laterano all’epoca di Pio IX. La cappella del battistero è di Filippo Raguzzini.

    Roma, 23 febbraio 2020

  2. “C’era una volta Sergio Leone”

    C’era una volta Sergio Leone”, è il titolo evocativo della grande mostra

    Sergio Leone con Federico Fellini.

    all’Ara Pacis con cui Roma celebra, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei miti assoluti del cinema italiano. Il percorso espositivo racconta di un universo sconfinato, quello di Sergio Leone, che affonda le radici nella sua stessa tradizione familiare: il padre, regista nell’epoca d’oro del muto italiano, sceglierà lo pseudonimo di Roberto Roberti, e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta “Per un pugno di dollari” con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson.
    Nel suo intenso percorso artistico Sergio Leone attraversa il “peplum”, ovvero il filone cinematografico storico-mitologico, riscrive letteralmente il “Western” e trova il suo culmine nel progetto di una vita: “C’era una volta in America”. A questo sarebbe seguito un altro film di proporzioni grandiose, dedicato alla battaglia di Leningrado, del quale rimangono, purtroppo, solo poche pagine scritte prima della sua scomparsa.
    Leone, infatti, non amava scrivere. Era, piuttosto, un narratore orale che sviluppava i suoi film raccontandoli agli amici, agli sceneggiatori, ai produttori, all’infinito, quasi come gli antichi cantori che hanno creato l’epica omerica. Ma ciò nonostante, il suo lascito è enorme, un’eredità creativa di cui solo oggi si comincia a comprendere la portata. I suoi film sono, infatti, “la Bibbia” su cui gli studenti di cinema di tutto il mondo imparano il linguaggio cinematografico, mentre molti dei registi contemporanei, da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Francis Ford Coppola a Quentin Tarantino, da George Lucas a John Woo, da Clint Eastwood ad Ang Lee continuano a riconoscere il loro debito nei confronti del suo cinema.
    Le radici del cinema di Sergio Leone affondano, naturalmente, anche nell’amore per i classici del passato – in mostra i film dei giganti del western, da John Ford ad Anthony Mann – e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che ritroviamo nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesaggi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera “Love” di Robert Indiana, straordinario simbolo, in “C’era una volta in America”, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova.
    Per Leone la fiaba è il cinema. Il desiderio di raccontare i miti, il West, la Rivoluzione, l’America, utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, entra però sempre in conflitto con la sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e attraversato la stagione neorealista.
    A partire da “Per qualche dollaro in più” Leone può permettersi di assecondare la sua fascinazione per il passato e la sua ossessione documentaria per il mito curando ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente.
    Grazie ai preziosi materiali d’archivio della famiglia Leone e di Unidis Jolly Film i visitatori entreranno nello studio di Sergio, dove nascevano le idee per il suo cinema, con i suoi cimeli personali e la sua libreria, per poi immergersi nei suoi film attraverso modellini, scenografie, bozzetti, costumi, oggetti di scena, sequenze indimenticabili e una costellazione di magnifiche fotografie, quelle di un maestro del set come Angelo Novi, che ha seguito tutto il lavoro di Sergio Leone a partire da “C’era una volta il West”. Seguendo queste tracce, la mostra “C’era una volta Sergio Leone” è, quindi, suddivisa in diverse sezioni: “Cittadino del cinema”, “Le fonti dell’immaginario”, “Laboratorio Leone”, “C’era una volta in America”, “Leningrado e oltre”, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, “L’eredità Leone”.
    Sarà inoltre pubblicato dalle Edizioni Cineteca di Bologna il volumeLa rivoluzione Sergio Leone”, a cura di Christopher Frayling e Gian Luca Farinelli.
    Dalla scheda di presentazione ufficiale della mostra pubblicata sul sito del Museo dell’Ara Pacis.

    Roma, 23 febbraio 2020

  3. Roads of Arabia. Treasures of Saudi Arabia.

    La mostra racconta la storia dello sviluppo della penisola araba nel corso

    Orecchini a campanella in mostra.

    dei millenni ed esplora come gli elementi culturali siano una fusione di tradizione e modernità. Gli oggetti esposti comprendono capolavori archeologici e opere d’arte iconiche, che abbracciano secoli di storia araba. La mostra, unica nel suo genere – portata a Roma dal Ministero della Cultura dell’Arabia Saudita e dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo d’Italia – esplora il ricco patrimonio della penisola arabica attraverso capolavori archeologici, importanti opere d’arte e documenti antichi. Includendo oltre un milione di anni di storia, dalla preistoria alla formazione del Regno dell’Arabia Saudita, il percorso espositivo illustra la profondità e l’ampiezza della civiltà araba.
    Sono esposti oltre 450 manufatti rari, venuti alla luce grazie ad importanti scavi archeologici. Saudi Aramco è l’exclusive sponsor dell’evento che è supportato dalla Fondazione Alda Fendi. Accompagna la mostra il catalogo, edito da Electa, con un ricco apparato di saggi di approfondimento che ci avvicinano al mondo archeologico saudita per scoprire i molti siti archeologici, situati in tutto il mondo arabo, patrimonio mondiale dell’UNESCO.
    PER SAPERNE DI PIU’: ROADS OF ARABIA

    Roma, 16 febbraio 2020

  4. Il Mitreo del Circo Massimo

    Il Foro Boario, la pianura compresa tra il Campidoglio, il Palatino,

    Una ricostruzione del Foro Borio.

    l’Aventino e il Tevere, è un luogo cruciale per la storia della fondazione della città di Roma. Si ritiene oggi, che proprio qui abbia avuto luogo la nascita di una realtà “urbana” già prima della fondazione leggendaria di Roma che viene collocata nel 753 avanti Cristo.
    Un’altra caratteristica di questa ampia pianura è quella di essere legata a doppio filo alla presenza del punto di guado e di approdo sul fiume e la vocazione a mercato degli animali. Questo legame stretto è testimoniato anche dal mito: qui si svolge una parte dell’epopea di Ercole. E’ proprio qui, infatti, che l’eroe approda con la mandria sacra sottratta a Giasone ed è proprio qui che il gigante Caco gliela sottrarrà, rifugiandosi poi sulle

    Una ricostruzione del Circo Massimo in cui si vedono i carceres in prossimità dell’edificio in cui fu poi ricavato il mitreo.

    pendici dell’Aventino.
    D’altra parte la natura geologica del monte Aventino, ricco di grotte in cui ripararsi, di boschi e di acque sorgenti, ne farà, dal più antico un luogo ideale per il pascolo delle greggi. Nel mito quindi Ercole salirà all’Aventino, sconfiggerà Caco e si riprenderà le mandrie.
    Il punto di approdo sito nella pianura del Foro Boario coincideva con l’area del guado: chi veniva da Nord, dove per Nord si intende in questo caso il territorio degli Etruschi, e volesse proseguire verso Sud o raggiungere la foce del Tevere, attraversava il fiume proprio sfruttando la presenza dell’isola e si immetteva su una via che passava alla base del monte Aventino e che decorreva quasi parallela all’attuale Via Marmorata.
    La presenza dell’approdo e del guado fa di questa pianura, già in tempi antichissimi, un crocevia di genti e di ve di comunicazione fra l’attuale Campania a Sud e i territori etruschi a Nord, tra il Tirreno e la zona più interna corrispondente ai territori falisco – sabini. E’ quindi naturale che

    Lo sbocco della Cloaca Massima nel Tevere.

    qui si viene a creare, soprattutto dopo la bonifica, dovuta alla costruzione, alla fine del VI secolo avanti Cristo, della Cloaca Maxima, un mercato e un’estesa area sacra: non solo Ercole, con il tempio di Ercole Vincitore, ma anche l’Ara Massima dedicata a Ercole ma precedentemente dedicata al dio fenicio Melqart, e ancora templi dedicati alla Fortuna e alla Mater Matuta, e ad altri dei, divinità antichissime, italiche ma anche di popoli orientali.
    Quale luogo quindi può essere più adatto per collocare un mitreo se non un’area in cui si commerciava con animali, tra cui proprio i bovini, e dove genti di diversa provenienza potevano incontrarsi ed erigere i propri templi?
    Il Mitreo viene scoperto negli anni Trenta del Novecento, esso infatti si trova sotto un palazzo a Nordest del Circo Massimo verso il Tevere. Il

    Uno degli ambienti del mitreo del Circo Massimo.

    palazzo in origine era la sede del pastificio Pantanella e venne acquistato dal Governatorato di Roma negli anni Venti del Novecento per creare al suo interno la sede dei Magazzini del Teatro dell’Opera di Roma. Durante i lavori di scavo per la creazione di alcuni depositi nel 1931 venne rinvenuto, a una profondità di circa 14 metri, un edificio costruito e modificato su un arco di tempo piuttosto lungo. Attualmente possono essere identificate tre grandi fasi di edificazione: la prima risalente alla prima metà del I secolo dopo Cristo, la seconda risalente alla seconda metà del medesimo secolo, e infine la fase che va dalla fine del III secolo all’inizio del IV secolo dopo Cristo. L’edificio, nel suo complesso è allineato all’antica via ad duodecim Portas, che corrisponde alla moderna via dell’Ara Massima di Ercole. La via lo separava dai carceres del Circo Massimo, cioè dai cancelli da cui

    Pianta del mitreo del Circo Massimo.

    prendevano il via i cavalli che correvano nel Circo Massimo. Non è al momento noto la destinazione di uso dell’edificio, la cui fase costruttiva risale alla prima metà del I secolo. Esso è costituito da quattro ambienti paralleli divisi da spessi muri in laterizio e tagliati longitudinalmente da un corridoio che collegava l’ingresso principale a Sud-Ovest con quello posto lungo il lato Nord-Est. Non è nota la destinazione d’uso di questi locali che oggi vengono interpretati alternativamente come horrea, ovvero dei magazzini di stoccaggio delle merci del mercato, oppure delle stalle per i cavalli che poi avrebbero corso nel Circo Massimo.
    Alla fine del I secolo dopo Cristo la struttura dell’edificio venne modificata profondamente: vennero creati a Sud-Est dei nuovi setti murari molto robusti che avevano la funzione di sostenere le volte del secondo piano. L’esistenza di questo secondo piano è oggi testimoniata dalla presenza di

    Il rilievo di Mitra nel mitreo del Circo Massimo.

    una scalinata che conduceva a una terrazza prospiciente il Circo Massimo. E’ possibile che in questa fase l’edificio diviene ancor più funzionale al Circo stesso, ad esempio è probabile che esso venisse utilizzato come deposito degli attrezzi di scena degli spettacoli.
    Il mitreo viene realizzato tra la fine del III e l’inizio del IV secolo dopo Cristo. La sua presenza non porta a una sostanziale modifica dell’edificio, ma certamente a una sua consistente modificazione decorativa: ad esempio gli ambienti vengono rivestiti con marmi di pregio.
    L’ingresso al mitreo avviene da Est, quindi esso è rivolto verso il Circo Massimo in corrispondenza dei carceres. Questo ambiente si presenta ancora oggi pavimentato e appare laterale rispetto alla sala principale del mitreo, che quindi non era a vista di chi entrava: i rituali che si svolgevano all’interno della sala del culto erano quindi celati ai passanti. Per

    Rilievo della tauroctonia – Cautes, la spiga di grano e la scena del trasporto del toro nella grotta.

    raggiungere la sala del rito è necessario percorrere un lungo corridoio, che immette in un vestibolo e solo a partire da questo locale che si sviluppa il vero santuario dove si riunivano gli iniziati. L’inizio dell’area propriamente usata come santuario è segnato dalla presenza di due nicchie al cui interno si scorgono due basi marmoree su cui appoggiavano le due statue dei dadofori, portatori di fiaccola, Cautes e Cautopates. Uno aveva la fiaccola alzata e simboleggiava il giorno, l’altro portava la fiaccola abbassata a simboleggiare la notte.
    La zona del vero e proprio santuario è costituita da una serie di ambienti successivi e comunicanti tra loro. Di questa zona fa parte anche un ambiente dotato di un ingresso con architrave di marmo e gradino, che resa piuttosto isolato dalla struttura propria del santuario, e che oggi viene interpretato come apparitorium, ovvero come una sorta di sacrestia.
    Un arco immette nell’ambiente più sacro del mitreo. Questo presenta lungo i lati due podi su cui i fedeli iniziati prendevano posto per partecipare delle funzioni rituali e del banchetto. Al centro del pavimento un grande tondo di alabastro inserito in un quadrato di cipollino simboleggiava il disco solare. Sulla parete di fondo è stata collocata la tauroctonia, ovvero l’episodio più

    Il rilievo della tauroctonia – Il Sole e il corvo.

    importante della storia di Mitra, ovvero l’uccisione del toro da parte dell’eroe dal cui sangue si origina la vita.
    La scena è stata rinvenuta fuori posto e di fatto non se ne conosce, a oggi, la collocazione esatta.
    L’archeologo Antonio Maria Colini, che durante gli sterri legati all’apertura della “Via del Mare”, negli anni tra il 1936 e il 1937, ebbe la possibilità di esplorare tutto il settore tra la via della Bocca della Verità e la via di Porta Leone descrive, nel suo testo intitolato “Rilievo mitraico di un santuario scoperto presso il Circo Massimo”, con queste parole la scena della tauroctonia: ….“(Mitra ha il volto) piegato di fianco, incorniciato da riccioli, ha un aspetto molto giovanile: gli occhi fissi lontano danno ad esso un’aria di sognante astrazione. Il dio indossa una tunica a maniche, serrata alla cinta, e un paio di brache che coprono anche i piedi; sulle spalle ha gettata la clamide; sul capo porta il berretto frigio ornato d’una stella. L’aria tagliata nella corsa lo investe e ne solleva gli indumenti. Mitra è saltato in groppa al toro….”

    Il rilievo della tauroctonia – La Luna, Cautopates, la testa del toro e il pugnale.

    La scena è quella canonica e vi sono tutti gli elementi classici: i dadofori Cautes e Cautopates, la spiga che nasce dalla coda del toro, il cane e il serpente che ne leccano il sangue, lo scorpione che lo morde ai genitali. In una scena più piccola a sinistra Mitra trasporta il toro nella grotta, mentre nei due angoli opposti, in alto, sono scolpiti il Sole e la Luna. Vicino al Sole c’è il corvo, che ne è la sua rappresentazione, che ha il ruolo di indicare a Mitra i passi da compiere.
    Antonio Maria Colini prosegue la sua descrizione: ….“Il fondo della scena è tutto ineguale, ma liscio, tranne che nell’angolo sinistro, ove è scolpita la roccia della mistica montagna in cui s’apre in basso l’imboccatura della grotta. Avanti a questa è rappresentata una piccola figura simile in tutto ai dadofori (e quindi a Mitra), ma d’aspetto ancor più giovanile, che porta sulle spalle un toro trascinandolo per le zampe anteriori. Sul terreno sotto di esso guizza un piccolo serpe. La roccia, scolpita a bozze e a fori, s’innalza compatta per un tratto, poi forma una risega dalla quale emerge una sorta di vetta. Sopra l’imboccatura della grotta da un foro s’affaccia una lucertola”….
    Nella parte superiore del rilievo è visibile la seguente iscrizione: “DEO SOLI INVICTO MITHRAE TI(BERIUS) CL(AUDIUS) HERMES OB VOTUM DEI

    Il rilievo della tauroctonia – Il cane, il serpente e lo scorpione.

    TYPUM D(ONO) D(AT)” ovvero «Al dio Sole invitto Mithra, Tiberio Claudio Hermes in seguito ad un voto dà in dono».
    La scena della tauroctonia ha dimensioni imponenti, 87 cm di altezza e 164 di lunghezza, e anche per questo motivo è uno dei rilievi mitraici più importanti che si conoscano. Nella sua posizione originale era collocato su parete mediante perni e grappe.
    In questo mitreo è stato poi ritrovato anche un secondo rilievo di dimensioni minori, anche questo oggi collocato in una posizione non originale, in cui è riportata un’altra scena di uccisione del toro.

    Roma, 8 febbraio 2020