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  1. Tra archeologia e letteratura: la passeggiata di Enea ed Evandro nell’Eneide. Dal Foro Boario al Campidoglio

    Virgilio nasce a Mantova il 15 ottobre del 70 avanti Cristo e muore a Brindisi il 21 settembre del 19 dopo Cristo. L’Eneide è il poema epico al quale Virgilio lavorò negli ultimi dieci anni della sua vita. Si presenta come

    Il viaggio di Enea così come lo descrive Virgilio.

    un poema che risalendo a un periodo storico antichissimo e leggendario, legittima tanto il dominio di Roma sul mondo quanto il potere interno della gens Iulia, la famiglia di Augusto che rivendica per sé la discendenza da Ascanio Iulo, figlio di Enea. L’ideologia augustea viene perciò esaltata con grande efficacia, pur in una dimensione temporale diversa da quella del presente.
    È un’opera monumentale, considerata alla stregua di un’Iliade latina, il cui

    Enea, Anchise, Ascanio e i Penati – Gain Lorenzo Bernini – 1618/1619.

    modello è Omero. Il grande poeta latino vi narra le vicende di Enea, figlio del mortale Anchise, cugino di Priamo, re di Troia, e di Venere. Di Priamo, Enea ha sposato la figlia, Creusa. Partecipa alla fase finale della guerra tra troiani e achei. Finché fugge da Troia in fiamme, portando via i Penati, il figlio Ascanio e, sulle spalle, il vecchio padre; con i Troiani superstiti salpa con venti navi da Antandro, nella regione della Troade, in Anatolia.
    Da quel momento hanno inizio le sue peregrinazioni; approda successivamente nella Tracia, a Delo, a Creta, in Sicilia, dove muore Anchise, sulle coste dell’Africa, presso la regina Didone, poi in Italia, a Cuma, donde discende nell’Averno. Per giungere infine nel Lazio, dove è accolto da Latino, re dei Laurenti, che gli promette in sposa la figlia Lavinia, già promessa a Turno re dei Rutuli. Di qui ha origine la guerra tra Enea, aiutato da Evandro, re di Pallanteo, e Turno, soccorso dai principi italici, finché questi cade ucciso in duello da Enea.
    L’arrivo nel Lazio da parte di Enea è descritto nel libro VIII dell’Eneide.  Evandro, re degli Arcadi, insieme con un manipolo di Arcadi, era giunto sulle coste del Lazio e aveva fondato Pallanteo, una città sul Palatino.
    Enea si troverà a percorrere i luoghi dove si ergerà la città Roma, di cui proprio lui e la sua discendenza saranno i progenitori, la nuova Roma che sostituirà l’antica Troia, la città abbandonata nel momento della sua rovina.
    La passeggiata si svolge a conclusione del rito di commemorazione di Ercole Invitto all’Ara Maxima il 12 agosto, data che ricorda il triplice trionfo di

    Arrivo di Enea nel Lazio – Pietro da Cortona – 1651/1654.

    Ottaviano, che ebbe luogo dal 13 al 15 agosto del 29 avanti Cristo, quasi abbreviando la distanza che separa il tempo della narrazione da quello del poeta. Comincia con l’immagine di tre uomini in cammino, il vecchio Evandro, quasi paludato, obsitus, della sua dotta vecchiezza, con vicino Enea e Ascanio: Ascanio ha il compito di portare i Penati ed Evandro detiene la conoscenza del luogo. Lo stato d’animo di Enea è colmo di stupore e meraviglia nei confronti dei luoghi che gli sfilano davanti. A quel punto Evandro ricostruisce la storia del sito a partire da un tempo del mito anteriore a quello in cui vi si erano stabiliti gli Arcadi da lui governati. In passato il Lazio era abitato da Ninfe e Fauni dai costumi primitivi; solo dopo la venuta di Saturno, cacciato dall’Olimpo, essi furono civilizzati: si aprì così l’epoca aurea di Saturno alla quale subentrarono gradualmente periodi più foschi; infine il Lazio fu diviso in vari regni. In questo scenario giunse Evandro, cacciato anch’esso dalla patria e sollecitato da sua madre, la ninfa Carmenta: costui si stabilì su di un colle, fondando la rocca di Pallanteo, dal nome del figlio Pallante da cui deriverebbe, secondo un’etimologia suggerita da Virgilio, il nome del colle Palatino. Se la biografia di Evandro sembra replicare per sommi capi quella di Saturno, è chiaro che prefigura non solo quella dell’esule Enea, ma anche quella di Ottaviano, al cui fianco si era schierato Apollo.

    Enea viene presentato a Evandro – Pietro da Cortona – 1651/1654.

    I tre uomini, dunque, partono dall’Ara Massima di Ercole, innalzata da Evandro stesso nell’angolo Sud-Occidentale della vasta area del Foro Boario, la cui posizione dovrebbe attualmente corrispondere all’angolo di piazza della Bocca della Verità, formato da via della Greca e via dell’Ara Massima di Ercole e identificata da alcuni archeologi con il sito di Santa Maria in Cosmedin. Iniziata la passeggiata, si muovono verso Nord, tenendo il Tevere alla loro sinistra, fino a raggiungere l’ara Carmentale, presso cui verrà poi costruita l’omonima porta, che conduceva al Foro Olitorio, collocabile nel punto di incontro tra via Jugario e via della Consolazione. Quindi, costeggiando le pendici orientali del Campidoglio, passano davanti al bosco, situato tra le due cime del colle, che sarà adibito da Romolo ad Asilo. Proseguendo nella passeggiata, Evandro indica, alla loro destra, alle pendici del colle Palatino, il Lupercale, vicino al luogo in cui ora sorge la chiesa di Santa Anastasia, e mostra, di fronte a loro, il bosco dell’Argileto, nell’angolo Nord – Est del Foro Romano. Successivamente Evandro porta i suoi ospiti alla rocca Tarpea e al Campidoglio, boscoso al momento della passeggiata, all’epoca di Virgilio invece coronato dal tempio di Giove

    Statua di Ercole ritrovata nei pressi dell’Ara Maxima – Musei Capitolini.

    Capitolino, costruito da Tarquinio sulla tomba di Tarpea. Da lì scorgono la Rocca di Giano e la Rocca Saturnia, forse identificabili con le due cime del colle. Chiacchierando arrivano alle lussuose Carinae, attualmente il triangolo fra via Cavour, via dei Fori e via degli Annibaldi, prestigioso quartiere residenziale all’epoca di Virgilio, ma che al tempo di Enea costituiva, assieme a quello che sarà il Foro, un semplice pascolo per gli armenti, suggerendo un’implicita esortazione alla modestia. Attraversata la valle del futuro Foro romano, Evandro, Enea e Ascanio si trovano alle pendici del Palatino.
    Tra amabili conversari, così come la passeggiata era iniziata, vario sermone, i tre protagonisti giungono affrontando un percorso in salita, subibant, sul colle Palatino, mai nominato esplicitamente, quasi per evitare l’associazione della dimora di Augusto all’umile casa di Evandro, pur sempre regia però, simbolo della paupertas, ossia dell’assenza di ciò che è superfluo, in cui vivevano gli Arcadi, e monito per il cittadino romano modello di epoca augustea.
    Non a caso però la meta della passeggiata coincide con il sito in cui sorgerà la casa Romuli e più tardi la casa di Augusto e di Livia, connotata retroattivamente con una virtuosa paupertas, cui si oppone la ricchezza delle opere pubbliche. Come se non bastasse la modestia del luogo, Evandro stesso ammonisce Enea alla moderazione nei confronti della ricchezza e gli offre, secondo la tradizione ellenistica che rimanda a Ecale e a Molorco, un umile giaciglio di foglie, affinché non si abbandoni al lusso e all’opulenza, ma rammenti i valori alla base della civiltà romana: pietas, fides, constantia, iustitia, clementia, probitas.

    Foro Romano e Campo Vaccino – Giovan Battista Piranesi – 1750 circa.

    Con tratto pittorico gradito a tanti futuri amanti delle notti romane, la passeggiata archeologica di Enea si conclude con le tenebre che con ali vellutate abbracciano la meraviglia del Foro, dove echeggia ancora il muggito delle vacche al pascolo: è suggestivo riconoscervi con un balzo in un futuro, che profumerà di passato, il Campo Vaccino inciso da Piranesi e intimamente assaporato da Goethe.

    Roma, 14 luglio 2019

  2. La Valle della Caffarella, tra storia e natura

    Il parco della Caffarella.

    Nella valle della Caffarella si specchia la storia di Roma, della città e della cultura, delle genti che l’hanno popolata e del territorio nel quale si sono insediate. Situata a ridosso delle Mura Aureliane e compresa fra due direttrici dell’antichità, la via Latina e la via Appia, la valle fu teatro di miti e leggende forse suggeriti dai morbidi rilievi che ne fanno un confine naturale, certo dalla presenza dell’Almone, piccolo affluente del Tevere, dai romani ritenuto fiume sacro sin dai primordi.
    Parco pubblico dal 2000 grazie alle battaglie dal politico e ambientalista Antonio Cederna, costituisce l’accesso principale e privilegiato all’Appia Antica di cui è parte. E rappresenta l’elemento di coesione funzionale e visivo con il Parco dei Fori. Antico luogo di epoca romana, ricca di miti e leggende, il suo nome deriva dalla principale tenuta storica agricola che esisteva nella zona nel Cinquecento. Il suo valore naturalistico non è meno importante della sua rilevanza archeologica: nella valle, attraversata dall’Almone, fiume sacro ai romani, ricca di sorgenti d’acqua, i boschi di leccio e roverella si alternano fra insigni resti archeologici, ai campi coltivati, ai pascoli dando luogo al tipico paesaggio della Campagna romana. Costituisce un sistema unitario, sia dal punto di vista storico archeologico che ambientale-paesistico. A cerniera con il parco dei Fori e al confine con le aree urbanizzate, la valle rappresenta uno dei principali corridoi

    Il parco della Caffarella.

    biologici, che dalla campagna arriva fino al centro storico a beneficio del sistema ambientale della città, utile alla propagazione delle specie vegetali ed animali, alla regolazione del clima e alla mitigazione dell’inquinamento atmosferico. Stretta fra l’edificato, la Caffarella è ben caratterizzata dal punto di vista geomorfologico: presenti resti di vegetazione naturali e molte varietà di flora spontanea. È anche ricca di biodiversità, di flora spontanea e di fauna avicola e di insetti. Esiste una forte vocazione agricola della valle, che dall’età romana risulta particolarmente fertile, per la presenza di canali per irrigazione medievali e ottocenteschi. Oggi è utilizzata nelle parti private per coltivazioni e pascolo.
    La storia del parco della valle coincide, nelle premesse, con quella del parco dell’Appia: nel 1953 il Comune di Roma adottava un piano particolareggiato che prevedeva la piena edificabilità della valle a partire dalla chiesa del Domine Quo Vadis, mentre già l’anno successivo, sospese le licenze e i lavori, il vincolo di tutela del piano regolatore del 1931 viene esteso al territorio della Caffarella. Il Piano Territoriale Paesistico per l’Appia Antica del 1955 va contro agli interessi dell’allora proprietario della valle, il figlio della marchesa Teresa Torlonia, il marchese Alessandro Gerini, ricco e potente uomo d’affari soprannominato «il costruttore di Dio» per la

    Il parco della Caffarella.

    propensione a mescolare un’abilità affaristica e la vocazione di benefattore. Costui si impegna affinché nella nuova versione del Piano del 1958 la valle della Caffarella risulti praticamente sparita. Ci vorranno ben 42 anni prima che tutta l’area si trasformi in proprietà pubblica. Fondamentali sono stati i fondi del Giubileo, con cui furono sistemati i primi 70 ettari della valle e restaurati i monumenti principali e grazie ai quali l’Ente Parco regionale dell’Appia Antica ha potuto acquisite in locazione il Casale del Dio Reticolo e realizzare il primo centro di educazione ambientale. Restaurati e ripuliti dai rifiuti e liberati dalle baracche e orti abusivi anche il ninfeo di Egeria, la torre Valca e il Colombario Costantiniano.
    Altra storia per la chiesa di Sant’Urbano: purtroppo si trova all’interno di una proprietà privata ed è solitamente chiusa al pubblico. Essa costituisce uno dei monumenti meno conosciuti della Roma fuori le Mura, benché sia di grande valore per almeno due ordini di motivi: il primo è che è un vero e proprio tempio antico, eccezionalmente mantenutosi nella sua integrità grazie alla sua trasformazione in chiesa; il secondo è che conserva un ciclo pittorico che è un raro testimone dell’arte romana degli inizi dell’XI secolo, frutto e simbolo della particolare temperie politica, spirituale e culturale della Roma post-ottoniana. Nel II dopo Cristo l’area di nostro interesse – che prende nome dalla famiglia Caffarelli a cui appartiene il bel casale cinquecentesco su vicolo della Caffarella – faceva parte del Triopio, una vasta villa suburbana di proprietà di Erode Attico, che fu poi nel IV secolo inglobata nel grandioso complesso di Massenzio.

    Il parco della Caffarella.

    Uomo politico, retore, letterato, amante delle belle arti, Erode Attico era nato ad Atene intorno al 100. Venuto a Roma sotto Antonino Pio, ottenne il consolato nel 143 e sposò una nobile e ricca romana, Annia Regilla, che gli portò in dote, tra l’altro, i possedimenti della via Appia tra il II e il III miglio. La proprietà, che comprendeva campi di grano, boschi, vigne, oliveti, praterie, formava una specie di piccola borgata abitata dai lavoratori, schiavi per lo più, impiegati nella coltivazione dei campi. All’epoca di Erode Attico, l’area risulta antropizzata già da almeno quattro secoli: sulla collina che sorge tra il Circo di Massenzio e la Via Appia Pignatelli sono stati rinvenuti i resti di una villa d’età repubblicana, fine del II secolo avanti Cristo che aveva, come sostruzione verso l’Appia, un criptoportico a doppia galleria. Erode Attico dunque restaurò una villa più antica, e non trasformò un fondo agricolo in residenza, come talvolta si legge, arricchendola di architetture, statue, decorazioni pittoriche e rivestimenti marmorei.

    Roma, 27 giugno 2019

  3. Storie e leggende della romanità ai rioni Ponte, Parione e Regola

    Ogni rione di Roma è una stratificazione di stili architettonici di epoche diverse, e di storie di personaggi leggendari. Storie e personaggi che non attendono altro che farsi raccontare. E questo accade in modo particolare nei bellissimi rioni Ponte, Parione e Regola.

    Ponte Sant’Angelo – Piranesi.

    Tra ponte Sant’Angelo, i Banchi vecchi e nuovi, piazza dell’Orologio, via dell’Anima, Piazza Navona, Campo de’ Fiori. Qui, secolo dopo secolo, è stato tutto un gran via vai di mercanti, cambiavalute, patrizi e plebei, nobildonne e cortigiane.
    Intanto, Ponte – il V rione – il cui nome deriva da ponte Sant’Angelo, raffigurato sullo stemma istituito nel XVI secolo. Nell’antica Roma il rione era incluso nella IX regione augustea e considerato parte del Campo Marzio.
    L’attuale ponte sant’Angelo riprende l’antico ponte Elio, fatto costruire dall’imperatore Adriano per collegare il suo mausoleo al resto della città. Un altro ponte fu fatto costruire da Nerone e fu detto trionfale perché per di lì passava la via Trionfale, poi detta Sacra, che veniva fatta percorrere dagli eserciti reduci dalle battaglie. Tale ponte fu poi detto Pons Vaticanus, perché connetteva la zona del Vaticano al resto della città e successivamente Pons Ruptus, ovvero Ponte Rotto, perché già diroccato in tempi medievali. Nell’antica Roma in questa zona c’era un porto che veniva utilizzato per portare i materiali necessari alla costruzione delle grandi opere nel Campo Marzio. La vita nel rione è continuata ininterrottamente anche durante il Medioevo e nel periodo moderno. Contribuì a ciò anche il fatto che molte persone si stavano trasferendo dalle zone in collina, dove mancava l’acqua,

    La mappa da Pirro Ligorio (1561) in cui si vedono sia il Ponte Adriano che il Ponte Vaticano.

    verso la riva del Tevere, dove si sopravviveva bevendo l’acqua del fiume. Inoltre il rione si trovava all’estremità del ponte sant’Angelo, e qui confluivano tutte le strade maggiori che portavano a San Pietro, quindi c’era anche un continuo afflusso di pellegrini, che arricchiva l’economia della zona: c’erano locande, osterie, commercio di oggetti sacri, ecc.
    Fino al tempo di papa Sisto V, il rione comprendeva anche una porzione al di là del Tevere, che poi fu separata per creare il rione Borgo. Durante il XVI secolo Ponte aveva grande importanza soprattutto per la sua rete viaria, e per questo furono costruiti grandi palazzi di famiglie sia aristocratiche che mercantili seguendo progetti di grandi artisti. Ciò contribuì ad abbellire moltissimo il rione che ben presto divenne celebre. Uno spettacolo piuttosto frequente era un piccolo corteo guidato da una persona velata vestita di nero che portava un crocifisso in spalla. Su di un carro c’era un condannato incatenato che baciava in continuazione un’altra immagine di Gesù.  La meta del corteo era l’attuale piazza di Ponte sant’Angelo in cui era sistemata una forca per impiccare il condannato. Nonostante Ponte fosse una zona ricca e rigogliosa, era anche quella più colpita dalle frequenti alluvioni del Tevere.
    Da un ponte ad un cavallo alato: è questo il simbolo di Parione, il VI rione di Roma. Sull’origine del nome non c’è uniformità: pare derivi da paries, parete, muro. Era quanto restava in passato di un rudere ormai scomparso,

    La giostra del saracino in Piazza Navona il 25 febbraio del 1634 – G.B. Tomassini.

    i resti del palazzo del prefetto Cromaziano: un edificio altissimo, adorno di mosaici, oro e cristalli. È un po’ piano nobile della città, con Campo de’ Fiori come anticamera e Piazza Navona salone delle feste. Pasquino, dal canto suo, è il soprammobile inquietante, l’erma della lingua immobile ma capace di schernire papi e aristocratici per secoli. Del resto, la vera vocazione del rione è da lungo tempo legata alla cronaca, alla maldicenza e alla stampa. È qui infatti che nascono in pieno Rinascimento le prime tipografie romane, come quella dei tedeschi Sweynheim e Pannartz o quella di Blado a Campo de’ Fiori, fucina di tecnici specializzati, dalle cui officine uscì la prima pianta prospettica di Roma, tutte nei pressi di Pasquino, come pure le prime librerie “incisorie” e “cartarie”. È Piazza Navona, però, il grande teatro all’aperto di Parione, con spettacoli che hanno fatto la storia di Roma: corse di cavalli e soprattutto “naumachie”, giochi navali di antica origine. Là c’era lo stadio di Domiziano. La piazza che veniva allagata nelle notti d’agosto diventava una sorta di carnevale estivo che vedeva giocare insieme popolo e nobiltà, tra carrozze arrancanti nell’estemporaneo lago e tuffi di ragazzini che raccattavano monete gettate nella fontana. Appariva in quelle notti sui tetti di piazza Navona, secondo la credenza popolare, il fantasma di Olimpia Maidalchini Pamphilj, la cognata di papa Innocenzo X. Un’avida arrampicatrice sociale che prosciugò gli averi della. Per i romani era “Pimpaccia” e Pasquino la bollò: «chi disse donna disse danno. Chi disse femmina disse malanno. Chi disse Olimpia Maidalchini disse femmina, danno e rovina».

    Donna Olimpia – Alessandro Algardi – 1646/1647.

    Da una corruzione fonetica del latino renula – sabbia sottile – deriva il nome del VII rione: il rione Regola, da cui anche Arenula, che è il nome di una via e di un largo. Un tempo infatti il rione era soggetto alle piene del Tevere, lungo la cui riva orientale si estende in lunghezza; quando l’acqua si ritirava lasciava le strade coperte di sabbia. Nel Medioevo il rione era chiamato Regio Arenule et Chacabariorum, che faceva riferimento ai chacabariis, ovvero i calderai che realizzavano pentole e simili utensili da cucina. Un rione famoso per i suoi artigiani e in particolare i conciatori e gli artigiani del cuoio, che usavano soprattutto pelli di cervo per confezionare abiti. Da cui la scelta dello stemma: un cervo, appunto. Alcuni toponimi del rione sono rimasti legati alle antiche attività commerciali che qui si svolgevano: pettinari, balestrari, catinari, coronari, ecc. Nell’antica Roma l’area di Regola faceva parte del Campo Marzio ed era una porzione della Regio IX, Circo Flaminio. Il cuore di questo rione, dalla forma lunga e stretta, è piazza Farnese, chiamata piazza del Duca fino alla prima metà del Cinquecento, ornata da due fontane gemelle ricavate da antiche vasche delle Terme di Caracalla e chiusa sul lato a Sud – Ovest dal maestoso Palazzo Farnese.
    Nel corso della passeggiata, il racconto di personaggi, realmente vissuti o leggendari, tutti traboccanti di romanità: dall’eccentrico Conte Tacchia, a Pasquino. Da Pimpaccia, la terribile donna-virago al dramma della bellissima Costanza de’ Cupis. Fino all’episodio del papa morto in uno sgabuzzino al rogo di Giordano Bruno a Campo de Fiori, il filosofo dei tanti universi.

    Roma, 22 giugno 2019

  4. Articolo

    Stanley Kubrick – L’Odissea di un grande visionario – 3/4

    di Paolo Ricciardi

    In occasione dei venti anni dalla morte del grande regista Stanley Kubrick pubblichiamo, in quattro puntate, con vero piacere un testo di Paolo Ricciardi che attraversa e analizza, sebbene brevemente, tutta l’opera, ma forse sarebbe più corretto dire l’epopea, di Kubrick.
    Qui si può leggere la prima parte del testo.
    Qui la seconda.

    Barry Lyndon è un film che assume un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Kubrick perché costituisce il momento di maggiore libertà e distanza dai temi sociali, filosofici e politici che a Kubrick sono sempre stati attribuiti: violenza, politica, sesso.

    Barry Lyndon – Stanley Kubrick – 1975.

    E’ un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall’autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto.
    La storia viene continuamente ridotta a quadro, a immagine da mostrare, da guardare: una grande tessitura visiva iniziata in esterni, nella profondità di campi lunghissimi e nella fredda luce del nord, dove le figure si stagliano nette sugli orizzonti sconfinati, e chiusa nel fondo nero di una carrozza.
    La vita del protagonista è un percorso non solo narrativo ma soprattutto iconico e raffigurativo. Predomina una visione frontale dello spazio, una prospettiva sicura che conduce a uno spazio scenico geometrico. In un certo senso si tratta di inquadrature che corrispondono alla visione rinascimentale, che danno quindi un realismo elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali.

    continua…