prima pagina

  1. Il bello dell’architettura

    L’architettura tra funzionale, bello, utile e visione. Dalle piramidi al bosco verticale ce lo racconta Federico Cellini, architetto.

    Una “passeggiata” commentata nel tempo e nello spazio alla ricerca di motivazioni estetiche. Un’arte difficile quella dell’Architettura, in cui “Bello” e “Brutto” si intrecciano a funzioni destinate a tutti. Diventando di volta in volta luogo delle meraviglie o “ecomostro”.
    Da che la storia è tale, gli architetti hanno cercato di ottenere la perfezione dandosi delle regole spesso con la presunzione di renderle assolute, legandole a variabili indipendenti: la geometria, gli elementi costruttivi, la tecnica, i materiali, il colore e poi ancora la tradizione, la religione, il potere, l’universo e il corpo umano. Da Vitruvio a Le Corbusier passando attraverso Leon Battista Alberti e Palladio, il successo di un’opera architettonica, in quanto artistica, ha una componente irrazionale che investe non solo il gusto e la cultura dell’osservatore, pittura e scultura, o l’attitudine all’armonia sonora dell’ascoltatore, musica, ma anche la corretta risposta alla destinazione d’uso. La soddisfazione come opera d’arte non necessariamente è di chi osserva l’edificio ma anche di chi usufruisce dei suoi spazi e del committente, sovente non riuniti in una unica entità. Mostrare al mondo il proprio successo era imperativo per la famiglia Rucellai commissionando il palazzo fiorentino all’Alberti. Come pure cinquecento anni dopo farà il regime del Ventennio obbligando spesso con scarso successo ad architetti recalcitranti il linguaggio aulico dell’impero. L’evoluzione tecnica ha permesso soprattutto negli ultimi centocinquanta anni di rispondere ad esigenze nuove: l’automobile, con spazi e servizi a essa connessi, ha portato a nuove forme. Ad esempio, il raggio di sterzata ha dato spunto a Le Corbusier per modellare la pianta di Villa Savoy. La struttura a telaio, grazie al calcestruzzo armato e

    Palazzo Ruccellai – Leon Battista Alberti – Firenze.

    all’acciaio, ha svincolato le piante dagli alzati e le facciate dalle aperture. Permettendo aggetti, curve e superfici vetrate; lo sviluppo economico che ha permesso l’ingresso del televisore in ogni casa ne ha determinato una nuova distribuzione funzionale diventando, il video, il moderno caminetto attorno al quale ruotano stanze da letto di dimensioni essenziali. Le superfici ad armadio sono decuplicate in cento anni e oramai si è arrivati al rapporto “uno” tra stanze da letto e bagni; la telematica sta portando alla creazione di postazioni lavoro domestiche mentre i costi dei terreni, anche in termini ecologici, saranno tali che si dovranno pensare case con vani “multifunzione”. Le Architetture fantastiche dei collages di Archigram saranno da rivalutare all’interno di città semoventi…. Oppure, gli architetti cercheranno di inserirsi – se non addirittura sovrapporsi – a un tessuto edilizio esistente in cui la funzione nuova sarà sviluppata in linguaggi tradizionali. Dove le forme saranno riconoscibili in quanto frutto di evoluzioni “dialettali”. Nel momento in cui si cala un’opera architettonica in un contesto, si agisce su una scala maggiore dell’edificio stesso, come un sasso in uno stagno e la scelta è sempre tra il “piegarsi” o il “piegare”: come Antonio da Sangallo il Giovane fa il vuoto attorno a Palazzo Farnese creando una piazza ad esaltazione de “il dado”, così

    Villa Savoy – Le Corbusier.

    soprannominato dai romani. Pressochè in contemporanea, Baldassarre Peruzzi modella la facciata di Palazzo Massimo alle Colonne su una curva creando un prospetto dinamico e modernissimo. Il movimento, la velocità, il rapporto tra spazio tempo non è solo appannaggio della relatività einsteiniana o dei futuristi ma è pane che quotidianamente mangiamo e che gioco forza ci porterà a rivedere concetti estetici. I cui semi, gettati dai Maestri dell’Architettura, stanno già germogliando.

    Roma, 2 febbraio 2019

  2. Santa Prassede. Il Giardino del Paradiso.

    Parallela a via Merulana, corre, prossima a Santa Maria Maggiore, via di Santa Prassede. Sulla destra, un muro e una porta anonima costituiscono l’ingresso alla chiesa di Santa Prassede, che conduce direttamente alla navata destra di un luogo di indicibile bellezza.

    Santa Prassede – Interno.

    Questa straordinaria testimonianza dell’ecclesia romana dell’Alto Medioevo si annuncia con un protiro a due colonne e timpano nella stretta e buia via di San Martino ai Monti, che è una parte dell’antica via Suburra. Vicina alla chiesa è pure l’alta casa – ogni secolo l’aggiunta di un piano – dove visse il secentesco pittore bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino.
    Pur rimaneggiata, la chiesa conserva il suo splendore di linee e colori: mosaici del secolo IX, pitture del XVI, cassettoni policromi del soffitto, bellissimo pavimento rifatto alla maniera dei Cosmati.
    E’ vero che si entra da un ingresso laterale, ma conviene portarsi subito al fondo della chiesa dove si apre un quadrato cortile che fece parte della navata principale della basilica paleocristiana e che divenne atrio nel rifacimento generale dell’edificio curato da papa Pasquale I nel secolo IX. La semplice facciata in mattoni è proprio quella che disegnò il papa Pasquale I e qui si trovano le colonne superstiti che probabilmente facevano parte della basilica sorta nel V secolo dopo Cristo e vi si apre uno scuro voltone che corrisponde all’ingresso principale.
    La tradizione vuole che proprio qui, dove oggi sorge la chiesa, la martire Prassede raccogliesse il sangue dei martiri caduti per la fede, in un pozzo. Il luogo è oggi indicato da una rota, un grosso disco, di porfido rosso, incastonato nel pavimento in stile cosmatesco. Questo pozzo cadeva nella estesa proprietà della famiglia di Prassede, e oggi gli studiosi tendono a collocare la casa di famiglia vera e propria in corrispondenza della vicina chiesa dedicata a Santa Pudenziana.

    Santa Pudenziana raccoglie il sangue dei martiri.

    La chiesa dedicata a santa Prassede ha origini molto antiche. E’ attestato che attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore sorsero molte chiese, tra cui, come riportato da una lapide del 491, un titulus Pudentis, temine con cui si indica il fatto che la casa del senatore cristiano Pudente, che si convertì tra i primi al cristianesimo grazie a San Pietro, fosse stata, in tutto o in parte, trasformata in luogo di culto cristiano. Sempre la tradizione vuole che, proprio qui trovasse ospitalità San Pietro, e che fu proprio quest’ultimo a somministrare il battesimo alle due figlie di Pudente: Prudenziana e Prassede.
    Pudente subì il martirio sotto Nerone, e, in seguito a ciò, Prassede e Pudenziana, con il consenso di Papa Pio I, fecero costruire, 142 – 145, un battistero per i nuovi cristiani all’interno della loro proprietà di famiglia. Le due sorelle, Pudenziana e Prassede, operarono, quindi, durante la persecuzione di Antonino Pio, e fu proprio questa loro attività a causare il loro martirio. Alla morte di Pudenziana, Prassede utilizzò il patrimonio della sua famiglia per costruire una chiesa sub titulo Praxedis. Nascose molti cristiani perseguitati, quando questi, furono scoperti e martirizzati, raccolse i corpi per seppellirli nel cimitero di Priscilla, sulla Via Salaria, dove anche lei trovò sepoltura insieme alla sorella e al padre. Il Liber pontificalis ci informa che papa Adriano I verso il 780 rinnovò completamente ciò che restava del titulus Praxedis.

    Il pavimento in stile cosmatesco della chiesa di Santa Pudenziana.

    La chiesa attuale venne completamente ricostruita nell’822 da papa Pasquale I, in occasione della traslazione dei resti di duemila martiri dalle catacombe, ormai definitivamente esposte alle impunite incursioni saracene nella campagna romana.
    Una scalinata portava all’atrio; qui si alzava la semplice facciata romanica quale ci appare oggi, salvo l’aggiunta dell’equilibrato portale collocato nel 1560 da san Carlo Borromeo, titolare della basilica.
    L’interno conserva sostanzialmente la foggia della chiesa del secolo IX, con le tre navate basilicali divise da antiche colonne di granito che reggono un architrave di spoglio, con l’arcone trionfale e l’abside luccicante di mosaici. Coppie di pilastri intercalati alle colonne sorreggono tre grandi archi trasversali aggiunti per rinforzo nel secolo XII e irrobustiti nel XVI, mentre sulle pareti della navata mediana grandi pannelli manieristici dal festoso colore raccontano le storie della Passione.
    Interessante è il pavimento in stile cosmatesco, realizzato nel corso di restauri condotti da Antonio Muñoz nel 1917. La fredda levigatezza del marmo segato a macchina e l’estrema precisione dei bordi delle pietruzze denunciano l’opera moderna, che è comunque di ottimo gusto per quanto attiene al disegno e alla scelta dei colori.

    Arcone dell’abside di Santa Praseede.

    Nel Settecento, il cardinale Ludovico Pico della Mirandola fece trasformare e ampliare il presbiterio occupando lo spazio del transetto e portando avanti l’ingresso della “confessione”. Questa ha nel fondo un antico affresco della Madonna Regina fra le Sante Prassede e Pudenziana, e un paliotto cosmatesco; un corridoio d’accesso è affiancato da quattro bellissimi sarcofagi strigilati e sovrapposti a coppie, contenenti reliquie di martiri, uno è dedicato alle spoglie delle due sorelle martiri. Una scritta racconta come qui Giovan Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, avvertì l’ispirazione a dedicarsi al recupero dei cimiteri sotterranei.
    Dai due lati della confessione si sale al livello del presbiterio mediante ampie scale con gradini in splendido marmo rosso antico, tanto apprezzato che, al tempo del Dipartimento del Tevere, si era progettato di asportarlo per utilizzarlo a Parigi nel trono di Napoleone.
    Nel presbiterio si notano le due transenne laterali che reggono le cantorie, costruite da tre colonne ciascuna, il cui fusto è suddiviso in rocchi da corone d’acanto. Tutta la sistemazione del presbiterio è settecentesca, come lo è il mosso baldacchino di Carlo Fontana, che riutilizzò le quattro colonne di porfido di quello originario.
    Nell’abside, gli apostoli Pietro e Paolo presentano le due sorelle al Cristo dominante al centro, mentre Pasquale I offre il modellino della chiesa. L’intera composizione è ispirata da quella dell’abside dei Santi Cosma e Damiano.

    Giulio Bargellini in Santa Prassede.

    In basso, con il motivo del fiume Giordano, c’è una teoria di pecorelle. Nell’arco absidale una serie di “seniori” dell’Apocalisse tendono all’Agnello mistico le loro corone di gloria. Nell’arco trionfale torme di eletti sullo sfondo dei cieli sono accolti dagli angeli nella Città celeste.
    Tuttavia le più alte emozioni sono riservate dalla Cappella di San Zenone detta anche Giardino del Paradiso che Pasquale I eresse a metà della navata destra come mausoleo della madre Teodora: si tratta della più significativa testimonianza della cultura artistica bizantina che sia rimasta a Roma, come documento della lunga fase di predominio politico e culturale dell’Oriente.
    Introduce alla cappella un arco con decorazione musiva cui si sovrappongono due colonne di granito nero sorreggenti un meraviglioso architrave. Su di esso poggia una grande e pregevole urna funeraria.

    Cappella di San Zenone – Soffitto.

    L’interno è degno del nome “Paradiso” che si dà alla cappella. Idealmente poggiando su quattro colonne collocate negli angoli del piccolo vano quadrato, quattro angeli in mosaico con le braccia alzate reggono al centro della volta tutta d’oro un tondo col volto di Cristo. Altri mosaici sono nelle lunette e sull’altare dove è collocata l’antica immagine di Santa Maria liberaci dalle pene dell’inferno. Molto interessante è il pavimento, coevo alla costruzione della cappella e quindi esempio di transizione tra l’antico opus sectile marmoreum e i lavori che i marmorari romani cominciarono ad eseguire nel secolo XI.
    In una attigua piccola cappella, viene conservata la colonna detta della Flagellazione, un piccolo tronco di diaspro sanguigno che il cardinale Giovanni Colonna portò da Gerusalemme nel 1223. In un’altra cappella, pure vicina a quella di San Zenone, si trova una bella tomba quattrocentesca della scuola di Andrea Bregno; in un pilastro di fronte è il primo monumento funebre realizzato dal giovanissimo Gian Lorenzo Bernini.
    Interessanti sono le Cappelle Borromeo e Olgiati che si aprono nella navata di sinistra. In fondo alla navata destra, tombe e marmi della chiesa preesistente. In sagrestia, belle tele di cui una Flagellazione già attribuita a Giulio Romano e una impressionante Deposizione di Giordano De Vecchi.

    Roma, 2 febbario 2019

  3. Giacomo Balla al Museo Bilotti di Villa Borghese

    Il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, situato nel cuore del grande parco romano, è il luogo ideale per accogliere questa mostra

    Villa Borghese dal balcone – Giacomo Balla.

    antologica di Giacomo Balla, incentrata esclusivamente sul tema della Villa Borghese stessa, tema più volte affrontato dal pittore nel suo primo periodo di permanenza a Roma. La mostra permette, quindi, di conoscere, indagare e studiare il pittore forse meno noto, quello che dipinge prima di FuturBalla, ovvero del Balla futurista.
    Giacomo Balla si trasferisce a Roma con la madre Lucia Giannotti nel 1895, allontanandosi dalla sua città natale, Torino. Per il primo anno è ospite dello zio paterno Gaspare Marchionne Balla, residente al Quirinale in quanto Guardiacaccia di Sua Maestà il Re. Di qui va a vivere in via Piemonte 119, entrando in contatto con Alessandro Marcucci, Duilio Cambellotti e Serafino Macchiati. Conosce così Elisa Marcucci, sua futura moglie, che sposa in Campidoglio nel 1904.
    I coniugi Balla andranno a vivere nel quartiere Parioli, in un convento situato tra via Parioli, oggi via Paisiello, e via Nicolò Porpora. All’interno del fabbricato, di proprietà dei Sebastiani, grazie all’interessamento del sindaco Nathan, la famiglia Balla dispone di un appartamento con un lungo balcone che dà direttamente sugli spazi verdi di Villa Borghese, più volte ritratto in dipinti anche successivi al periodo futurista.

    Maggio – Giacomo Balla.

    Sarà proprio dal balcone di questo appartamento che nasceranno una parte cospicua delle opere presentate in mostra, opere che sono indagine sulla natura e sul rapporto natura – città, un tema caro ai pittori italiani degli inizi del Novecento, testimoni della trasformazione che stava subendo il paesaggio urbano. Si può affermare, quindi, che il tema della natura ai confini della città, è per Balla ciò che è per Paul Cézanne la Montagne Sainte-Victoire: materia da indagare, da provare e riprovare, da scarnire fino all’astrazione.
    Ma a Roma in questo momento la natura è ancora fortemente presente nell’orizzonte e nella prospettiva della città, e Balla ne fa oggetto della sua indagine, insieme alla luce. Indagine quest’ultima, a tratti quasi ossessiva. Una luce, analizzata e studiata in ogni suo aspetto a testimoniare l’interesse di Balla per la fotografia, interesse che è un interesse d’infanzia mediato dal padre fotografo dilettante.

    Autoritratto notturno – Giacomo Balla.

    E’ questo interesse a guidarlo e a fargli incontrare prima il mondo del Divisionismo, ancora a Torino incontrerà Pellizza da Volpedo, e a utilizzare in pittura delle luci dal vivo che sono luci fotografiche e che nella mostra al Museo Billotti sono esemplificate, tra le altre, dalle opere a pastello, una delle tecniche utilizzate all’inizio dal pittore, in cui la luce viene rappresentata da tratti istantanei di colore apparentemente fuori

    Alberi e siepe a Villa Borghese – Giacomo Balla.

    contesto, ma che sono utili a Balla per mostrare gli effetti della luce e del colore, nell’interazione naturale di un campo aperto. E lì dove viene usata una tecnica più “convenzionale” come la tela e l’olio, Balla non può esimersi dal rendere l’immediatezza della luce colpendo la tela con il retro del pennello, asportando e graffiando la tela. I graffi sono evidenti e chiari in primo piano, ad esempio, nell’opera Villa Borghese dal balcone del 1907.
    Non è un caso perciò che nel dipanarsi della mostra insieme all’opera di Balla vengano presentati gli scatti del fotografo Mario Ceppi realizzati negli stessi luoghi dei dipinti in mostra. I sei scatti esposti hanno “lo stesso taglio fotografico delle opere realizzate da Giacomo Balla”, spiega la curatrice della mostra, Elena Gigli. “Siamo andati in giro per Villa Borghese per ritrovare le stesse costruzioni, gli stessi momenti, gli stessi alberi che l’artista ha ritratto”. La ricerca è una ricerca importante perché anche la Villa nel tempo si è trasformata, ma ciò nonostante, è stato possibile riconoscere, all’interno del Museo Pietro Canonica, un albero ritratto nei pastelli di Balla esposti in mostra.

    L’ortolano – Giacomo Balla.

    Un altro aspetto che emerge dalla mostra è il rinnovato interesse degli artisti del primo Novecento italiano, e anche di Balla, per il trittico, una modalità compositiva molto in uso in periodo Medievale.
    Balla però non ritrae solo ciò che vede dal balcone di casa. La sua indagine sulla natura e la luce lo porta a scendere e passeggiare per i viali della Villa andando a scovare scorci particolari, reperti archeologici e anche pietre che vengono trattate come se fossero i personaggi principali di una storia. Nel dipinto che mostra una delle fontane di Villa Borghese l’acqua che zampilla è resa asportando il colore con energia utilizzando proprio il manico del pennello.
    A Roma, di fatto, Balla si muove in un ambito culturale che fa riferimento al socialismo umanitario e al positivismo scientifico ed è anche per questo motivo che l’interesse dell’artista non è solo per il paesaggio urbano, ma anche per la condizione umana, indagata a fondo nel ciclo Dei viventi tra il 1902 e il 1905, di cui anche in mostra troviamo alcuni esempi che includono non solo soggetti del mondo comune, ma anche gli affetti familiari, porti al visitatore con un realismo poetico, e i ritratti

    Ritratto di donna e due paesaggi – Giacomo Balla.

    commissionati dal mondo della borghesia romana, a cominciare dal sindaco Nathan. Anche in questi ritratti emerge la ricercatezza delle inquadrature e colpisce la posa dei soggetti che è tipica delle fotografie, ad esempio con la scelta di tagli ravvicinati, o di questa peculiare modalità di utilizzare la luce come nel caso dell’Autoritratto notturno del 1919, in cui la luce colpisce il volto del pittore quasi abbagliandolo e mettendo in risalto gli occhi chiari, che diventano magnetici per chi osserva il dipinto.

    Roma, 25 gennaio 2019

  4. Il Monte de’ Cocci a Testaccio

    È certamente la più curiosa delle alture di Roma. Ai Sette Colli originari, l’espansione edilizia degli ultimi due secoli ha aggiunto molte altre colline;

    Il Monte dei Cocci in una ripresa aerea.

    e a tutte queste vanno aggiunti quelli che si possono definire i «monti archeologici»: modesti dislivelli provocati dall’accumulo di residui di antichi edifici quali il Monte Giordano, Monte Savello, Monte Citorio e Monte Cenci. Tuttavia Monte Testaccio, che è anch’esso un’altura artificiale, ha ben differente origine.
    Infatti, con la sua altezza di 54 metri sul piano circostante e con il suo perimetro di circa un chilometro, il Monte dei Cocci altro non è che un accumulo di anfore abbandonate e sistematicamente ammucchiate in un ben definito luogo di scarico. Dalla fine dell’età repubblicana a quella imperiale, il naturale approdo sul Tevere venne trasformato in un vero e proprio porto mercantile detto Emporium, grazie all’azione di due edili nel 193 avanti Cristo, Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo. Il porto fu dotato di horrea, ovvero di un esteso sistema di magazzini, di cui faceva parte anche la Porticus Aemilia i cui resti oggi possono essere visti tra gli edifici del quartiere Testaccio.

    Una ricostruzione degli horrea.

    Le operazioni di smistamento avvenivano nei pressi del porto. Le merci che potevano essere conservate venivano inviate ai magazzini, altre raggiungevano le botteghe della città dopo essere state spostate in anfore di dimensioni ridotte che potevano essere caricate sui carri, rispetto a quelle che venivano utilizzate sulle imbarcazioni provenienti dalle diverse aree di produzione.
    In particolare subivano questo trattamento le merci come l’olio, il vino e il pesce. Le anfore contenenti vino potevano essere riutilizzate in città, ad esempio per la raccolta delle urine necessarie per il funzionamento delle fulloniche, ma quelle contenenti olio e pesce no, e per questo le testae, anfore in latino, di risulta dovevano venivano accantonate con una particolare tecnica che prevedeva un regolare accatastamento dei cocci, frapponendo ai vari strati di materiale abbandonato degli strati di terreno e soprattutto calce che dessero consistenza alla costruzione, ed eliminassero il cattivo odore che si sarebbe generato dalla decomposizione dei residui organici.

    Zone di produzione di olio e grano nell’antica Roma.

    Un accumulo di tale entità e altezza fu reso possibile dalla presenza di una strada principale e di due stradelle che potevano essere percorse da carri trainati da muli ricolmi di cocci e di anfore frammentate. Funzionari chiamati curatores supervisionavano la rottura delle anfore e il loro trasporto fino alla cima della collina.
    Ma questa, che è a tutti gli effetti una enorme discarica, conserva al suo interno moltissime informazioni archeologiche, che investono diversi ambiti della ricerca storica. Ad esempio, attraverso i tituli picti, note scritte a pennello o a calamo con il nome dell’esportatore, indicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti durante il viaggio, la data consolare, e che si ritrovano sulle anse, è stato possibile ricostruire non solo le vie dei commerci, ma anche la struttura stessa della catena commerciale e le relative regole. Le informazioni contenute nei tituli picti hanno, quindi, contribuito a scrivere la storia del commercio nell’antica Roma.

    Bollo betico del III secolo dopo Cristo con riferimento ad una famiglia che commerciava in olio.

    Altre informazioni ricavate dagli studi, ancora in corso, sui cocci riguardano i cultivar di olivo che venivano utilizzati in epoca romana e la provenienza dell’olio, con una predominanza dell’olio spagnolo, soprattutto dalla regione della Betica, e dell’olio di origine africana.
    Ogni anfora conteneva circa 70 litri di olio importato dalla Spagna meridionale o dall’Africa del Nord e si è stimato che con le anfore accumulate a formare il Monte Testaccio siano stati trasportati a Roma circa 1,75 miliardi di litri di olio d’oliva, che veniva poi distribuito gratuitamente ai cittadini romani come parte del sussidio alimentare.
    E’ stato calcolato che il consumo di olio di oliva fosse di circa 50 litri pro capite all’anno, e bisogna immaginare che in ogni villaggio, città o accampamento dell’impero esistesse una montagnola di cocci di anfore d’olio simile a quella del Monte dei Cocci.
    I Romani furono i primi che fecero dell’olio un prodotto agricolo destinato alla vendita internazionale e alcun autori latini, come Catone e Columella, scrissero dell’olivo e della sua coltura, arrivando a identificare 20 cultivar diverse e a distinguerne i livelli di qualità: così l’oleum viride,

    Olive carbonizzate ritrovate a Pompei.

    l’olio verde preparato da olive acerbe era il migliore, seguiva poi l’oleum maturum, ovvero quello ricavato da olive mature, e infine c’era l’oleum cibarium preparato a partire da olive ormai guaste e che corrisponde al nostro olio lampante.
    Vasti oliveti vennero piantati dai Romani nell’Africa del Nord e accanto a questi sorsero enormi frantoi in grado di trattare enormi quantità di olive.
    Furono istituite borse merci in ciascun porto per fissare il prezzo dell’olio e si formare delle corporazioni per la sua commercializzazione. Si distinguevano: gli olearii, che erano dei venditori al dettaglio, i diffusores e i mercatores che invece operavano su scala più vasta.
    Un prodotto di tale importanza venne utilizzato come merce di scambio. Ad esempio Giulio Cesare volendo punire la città fenicia nell’attuale Libia Leptis Magna per aver preso parte alla resistenza contro  l’invasione romana, le inflisse di versare a Roma una quantità di olio di oliva pari a 1.067.800 litri.

    Torchio per olive del II secolo dopo Cristo – Volubilis – Marocco.

    L’olio divenne l’equivalente del petrolio di oggi. Settimio Severo, ad esempio, apparteneva ad una famiglia di Leptis Magna che si era arricchita proprio producendo e commercializzando olio, e poco dopo la sua ascesa al trono, chiese ai cittadini di Lepis Magna una donazione volontaria annua di un milione di libbre di olio di oliva, che poi egli distribuì gratuitamente al popolo della città di Roma.
    Si ritiene che il monte abbia funzionato come discarica per un lungo periodo di tempo, almeno dal 140 dopo Cristo fino alla metà del III secolo. Poi, nel corso dei secoli successivi, il motivo dell’accumulo dei cocci fu dimenticato, tanto da far sorgere intorno al colle numerose leggende per giustificare la sua origine: chi sosteneva fossero i risultati degli errori di lavorazione delle vicine botteghe di vasai, chi asseriva fossero i resti delle urbe cinerarie traslate dai colombari della via Ostiense, mentre una leggenda raccontava che la collina fosse stata formata dei resti del grande incendio di Roma nel 64 dopo Cristo. Per secoli il monte fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché a causa del suo utilizzo come discarica non era ritenuto meritevole di particolare menzione. Il nome mons Testaceum appare per la prima volta in un’iscrizione databile al VII secolo circa, conservata nel portico della chiesa romana di Santa

    Una bottiglia di olio e un pane carbonizzato provenienti da Pompei.

    Maria in Cosmedin mentre l’originario nome di epoca romana è ignoto.
    Sfruttate per secoli sono state le proprietà isolanti dell’argilla di cui il monte risulta costituto. Così lungo le pendici del colle artificiale sono state scavate numerose grotte al cui interno la temperatura si attesta tutto l’anno intorno ai 10°C. I locali scavati tra i cocci vennero adibiti a cantine, dispense e stalle e successivamente, a partire dal Medioevo, furono sede di osterie. In epoca più moderna i grottini furono adibiti a ristoranti e locali notturni.
    Probabilmente per la sua posizione decentrata rispetto alla città il Monte dei Cocci venne, sin dal Medioevo, utilizzato quale scenario per alcuni momenti del Carnevale Romano, costituiti da giochi crudeli e cruenti a carico di animali. Si allestivano qui infatti delle vere e proprie tauromachie, di cui la più popolare era la così detta “ruzzica de li porci”.

    La Ruzzica de li porci a Monte Testaccio.

    In questa occasione carretti di maiali vivi venivano lanciati giù dalla collina e quando si sfracellavano in basso il popolo dava la caccia ai frastornati animali. Dal XV secolo, trasferito il carnevale in via Lata per volontà di papa Paolo II, il monte divenne il punto di arrivo per la Via Crucis del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Golgota. Il corteo in questo caso partiva da una casa oggi scomparsa a Via Bocca della Verità, che ancora nell’Ottocento conservava il nome di “Locanda della Gaiffa”, quindi passava per la casa dei Crescenzi che diveniva la casa di Pilato, proseguiva per Santa Maria in Cosmedin, e attraversando l’arco di San Lazzaro, arrivava sulla cima del monte dove veniva simulata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni.
    Più tardi sarà meta privilegiata delle “ottobrate romane”, le tipiche feste romane, che vedevano sfilare verso le osterie e le cantine del Testaccio i carretti addobbati a festa delle “mozzatore”, le donne che lavoravano

    Il poeta improvvisatore a Testaccio nel mese di Ottobre – Bartolomeo Pinelli.

    come raccoglitrici d’uva nel periodo della vendemmia: tra canti, balli, gare di poesia, giochi e chiacchiere, ci si rinfrancava dal lavoro e soprattutto si “innaffiava” il tutto con il vino dei Castelli Romani, conservato nelle cantine scavate alle pendici del monte. Un esplicito riferimento a monte Testaccio è contenuto nella novella El licenciado Vidriera dello scrittore Miguel de Cervantes raccolta nell’opera Novelle esemplari pubblicata nel 1613. «Cosa volete da me ragazzi, testardi come mosche, sporchi come cimici, coraggiosi come pulci? Sono forse io il Monte Testaccio a Roma che mi gettate contro cocci e tegole?»
    Occorre tuttavia attendere fino al settecento perché al monte e ai reperti lì accatastati venga riconosciuto valore archeologico: l’abitudine dei romani di prelevare materiale dalle pendici del colle stava mettendo in pericolo l’abitabilità dei locali sottostanti tanto da muovere le autorità, nel 1742, a emettere un editto a tutela «…di un’antichità così celebre». A tale divieto, per le stesse motivazioni, si aggiunse due anni dopo la proibizione di pascolare armenti sul monte Testaccio.

    Ottobrata a Testaccio – Bartolomeo Pinelli.

    Le prime organiche ricerche archeologiche sul monte furono condotte a partire dal 1873 da Heinrich Dressel cui si deve la valorizzazione storica del sito e un imponente lavoro di catalogazione dei cocci e di classificazione delle anfore, sulla base dei bolli e dei tituli picti rinvenuti su alcuni di essi.
    Durante l’assedio di Roma del 1849, su monte dei cocci fu posizionata una batteria di artiglieria che da tale altezza prendeva agevolmente e insistentemente di mira i francesi accampati vicino alla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Similmente, durante la seconda guerra mondiale, sulla cima del colle fu installata una batteria antiaerea posizionata su basamenti di cemento, i cui resti sono ancora visibili.

    Roma, 20 gennaio 2019