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  1. Articolo

    I fori romani, dentro il cuore di Roma antica

    di Andrea Giardina

    Pubblichiamo un articolo di Andrea Giardina, storico di Roma Antica, apparso nella rivista National Geographic il 1 giugno 2018.
    I secoli di incuria e gli interventi del Ventennio fascista hanno profondamente cambiato il loro aspetto. Studi recenti ci dicono che i fori erano spazi chiusi da alte mura, isolati rispetto al fermento della vita

    Il Foro Romano in una rara immagine del 1911. Si ringrazia Roma Sparita.

    cittadina. Al loro interno, però, mille attività prendevano vita: c’era spazio per il sacro e il profano, il lavoro più febbrile e lo stanco chiacchiericcio degli sfaccendati.
    Ricostruire mentalmente le architetture, gli spazi, la vita che si svolgeva nella zona dei Fori di Roma, è un’impresa difficile e appassionante. Il problema più ovvio è rappresentato da ciò che manca. Ogni tanto qualcuno si diverte a calcolare quante sono le pagine perdute dei giuristi romani rispetto a quelle pervenute nel Digesto, quante le epigrafi, quanti gli storici e i poeti cancellati per sempre. Si potrebbe fare lo stesso con i resti dei Fori: quanti metri cubi di materiali – pietre, marmi, mattoni, malta – rimangono oggi degli antichi edifici romani? Il calcolo, anche se inevitabilmente approssimativo, darebbe la dimensione tangibile del nostro irrimediabile lutto.

    continua…

  2. Porta Asinaria

    Roma è la sola capitale europea ad aver mantenuto in modo abbastanza completo il circuito delle antiche mura difensive. Gli sventramenti tardo-

    Porta Asinaria – 1870 circa. Si ringrazia RomaSparita

    ottocenteschi e quelli del fascismo hanno devastato larghe zone della città quali il Vaticano, Piazza Venezia, l’Esquilino, ma hanno risparmiato le mura iniziate da Aureliano nel 271 e completate dai suoi successori nel 289. Mura costruite in economia, inglobando costruzioni preesistenti, come ad esempio la Piramide e l’Anfiteatro Castrense, che si dipanavano intorno alla città per 18 km per un’altezza di 7 metri.
    Porta Asinaria è una delle quattordici porte che si aprivano nelle mura. Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sull’epoca di trasformazione della porta da semplice apertura di terz’ordine ad accesso monumentale, concordano invece sul fatto che molto presto ci si rese conto che l’intera area compresa tra la Porta Metronia e la Prenestina-Labicana, oggi Porta Maggiore, non era sufficientemente sicura. Vennero pertanto erette le torri cilindriche ai lati del fornice, alte circa 20 metri, ancora perfettamente conservate, e si provvide al rivestimento in travertino tuttora visibile sul lato esterno nonché all’apertura delle finestre per le “baliste”, macchine da guerra costituite da una specie di balestra atta a lanciare sassi o grossi dardi.

    Porta Asinaria e Porta San Giovanni – 1900 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    In effetti, il restauro curato dallo stesso Aureliano poco dopo l’edificazione del muro, o da Massenzio circa un secolo dopo o ancora all’epoca dell’imperatore Onorio nel 401 – 402, promosse una porta che era poco più di una posterula al rango di porta vera e propria come la Pinciana e la Metronia.
    L’Asinaria è la sola, tra le porte antiche di Roma, ad avere contemporaneamente torri cilindriche affiancate a torri quadrangolari e questo conferma che, come le altre due, era in origine un’apertura di scarsa importanza, posta al centro di due delle torri a base quadrata che componevano la normale architettura delle mura. Una struttura così poderosa ne faceva, di fatto, una fortezza.
    Legata a diversi importanti avvenimenti storici: è famosa per essere stata utilizzata dai Goti di Totila, che la trovarono aperta, come anche la Porta San Paolo, per l’ingresso e il saccheggio della città il 17 dicembre 546 con relativa distruzione, secondo i cronisti dell’epoca, di un terzo della cinta muraria, poi frettolosamente ricostruita. Ma già qualche anno prima, nel 537, l’invito ai Goti, rivelatosi poi falso, ad entrare in Roma da quella porta costò a papa Silverio la deposizione dal soglio pontificio per tradimento.
    Nel 1084 passarono da qui anche l’imperatore Enrico IV e l’antipapa Guiberto di Ravenna per scacciare l’allora papa Gregorio VII, il cui

    Porta Asinaria – 1954 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    liberatore, Roberto il Guiscardo mise a ferro e fuoco tutta l’area lateranense, arrecando gravi danni alla porta e alle mura circostanti. Anche il re Ladislao di Napoli entrò da qui nel 1404, e quattro anni dopo ne ordinò, per la prima volta, la chiusura per motivi difensivi. Ma fu riaperta dopo solo un mese. Venne definitivamente chiusa nel 1574, contemporaneamente all’apertura della vicina Porta San Giovanni, resa necessaria nell’ambito della ristrutturazione dell’intera area lateranense per agevolare il traffico da e per il Sud d’Italia. A quell’epoca, del resto, la porta Asinaria era divenuta ormai quasi inagibile per il progressivo innalzamento del livello stradale circostante, circa 9 metri, e anche per questo era ormai del tutto inadeguata a sostenere il volume di traffico, sebbene apparisse molto più imponente dell’altra.
    E’ proprio l’interramento progressivo che, però, ha consentito la conservazione, come è avvenuto anche per la Porta Ostiense, della fortificazione interna, conferendo all’intera struttura l’aspetto di un’opera difensiva autonoma.
    La porta deve il suo nome all’antica via Asinaria, percorso molto precedente alla stessa cinta muraria, che l’attraversava confluendo, più avanti, nella via Tuscolana. All’interno della città la via Asinaria diventava invece, con un singolare accostamento toponomastico, la Via Santa, che dal Laterano conduceva alla Basilica di San Pietro: in occasione delle incoronazioni dei nuovi pontefici nel Medioevo essa veniva percorsa dai papi neoeletti in processione, nella loro duplice veste di Pontefice e Vescovo di Roma. In documenti risalenti al 934 essa viene indicata con il nome di “Porta S. Johannis Laterani”, mentre nel XIII secolo è attestata la denominazione di Porta Lateranense.

    Porta Asinaria, Porta San Giovanni, Piazzale Appio e Basilica di San Giovanni. Si ringrazia RomaSparita.

    Nei pressi della porta venne rinvenuta una delle pietre daziarie, sistemate nel 175 e scoperte in tempi differenti nelle vicinanze di alcune porte importanti, ne sono state trovate solo altre due, vicino alla Salaria e alla Flaminia. Queste pietre erano poste a individuare una sorta di confine amministrativo, e nei loro pressi si trovavano gli uffici di dogana. Ma se questi uffici provvedevano alla riscossione delle tasse sulle merci in entrata e in uscita dalla città, in epoca medievale, dal V secolo e almeno fino al X, vennero adibiti anche alla riscossione del pedaggio per il transito dalle porte, alcune delle quali, secondo una prassi divenuta normale, erano addirittura di proprietà di qualche ricco possidente o appaltatore. In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno. Da un documento del 1474 si apprende che il prezzo d’appalto per la porta San Giovanni, da leggersi pertinente alla Porta Asinaria visto che la San Giovanni venne aperta un secolo dopo, era pari a ”fiorini 74, sollidi 19, denari 6 per sextaria”, dove con la parola sextaria si indica che il

    Porta Asinaria in una stampa antica.

    pagamento avveniva in rate semestrali: Si trattava, secondo gli studiosi, di un prezzo abbastanza alto, e intenso doveva quindi essere anche il traffico cittadino per quel passaggio, per poter assicurare un congruo guadagno al compratore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce, che venivano emessi.
    Dopo la chiusura avvenuta nel 1574 la porta rimase chiusa per più di due secoli quando il 21 aprile del 1954 venne riaperta in occasione della festa del Natale di Roma, dopo un lungo e accurato restauro. Oggi la porta è utilizzata solo come passaggio pedonale.

    Roma, 16 febbraio 2019

  3. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

    Villa Giulia, splendido esempio di villa rinascimentale suburbana, fu fatta edificare da Papa Giulio III tra il 1550 e il 1555.

    Villa Giulia

    Come sempre in questi casi la parte residenziale dell’edificio ha dimensioni relativamente modeste e strettamente connessa con il giardino costituito da terrazze collegate da scalinate scenografiche, ninfei e fontane adorne di sculture.
    La villa è il risultato dell’interazione tra tre dei più grandi artisti dell’epoca: Giorgio Vasari, l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola e lo scultore e architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati. Anche la decorazione pittorica ad affresco è di notevole pregio, e a essa avevano contribuito pittori diversi tra i quali Taddeo Zuccari.
    L’elemento caratteristico della villa era il ninfeo, in origine ricchissimo di decorazioni, alimentato da una canalizzazione dell’Acquedotto Vergine che corre in profondità e si manifesta nella fontana bassa, e che costituisce il primo “teatro d’acque” di Roma.
    L’edificio fu ampliato una prima volta nel 1912 e poi di nuovo nel 1923.
    Il Museo di Villa Giulia nacque nel 1889 per iniziativa di Felice Barnabei, un archeologo e politico italiano.

    Ninfeo di Villa Giulia

    Il primo nucleo di reperti esposti proveniva da Falerii, l’odierna Civita Castellana, capoluogo dei Falisci, un popolo che si era insediato nel territorio compreso fra i Monti Cimini ed il Tevere, territorio che era stato oggetto già nel 1880 di attente indagini topografiche e di scavi. Alle antichità di Falerii si aggiunsero via via quelle provenienti da altri centri dello stesso territorio (Corchiano, Narce, ecc.), materiali da abitati, santuari e necropoli del Lazio meridionale (Gabii, Alatri, Satricum, più tardi Palestrina), dell’Etruria (Cerveteri e in seguito Veio), dell’Umbria (Todi, Terni).
    Nella prima metà del ‘900 si vennero ad intensificare le attività di scavo nella zona di Veio e Cerveteri. I reperti archeologici qui portati alla luce, confluiscono nel museo di Villa Giulia che accentua così il carattere etrusco dei materiali raccolti ed esposti.
    Il museo diviene così il Museo Nazionale Etrusco e ancora oggi raccoglie reperti relativi ad alcune delle città etrusche più importanti, quali Vulci, Cerveteri e Veio.

    Apollo – Veio

    Gli Etruschi furono un popolo dell’Italia antica di lingua non indoeuropea e di origine incerta affermatisi in un’area geografica indicata con il nome di Etruria, che si estendeva, grosso modo, dalla Toscana all’Umbria fino al fiume Tevere e al Lazio settentrionale. Successivamente le popolazioni etrusche si espansero in Emilia Romagna e in Lombardia, arrivando fino al Veneto, e al sud raggiunsero la Campania.
    La civiltà etrusca influenzò notevolmente la civiltà romana con la quale si fuse al termine del primo secolo avanti Cristo. L’inizio della fusione è convenzionalmente posto con la conquista della città di Veio da parte dei Romani nel 396 avanti Cristo.
    Ancora oggi resta poco conosciuto il processo che ha portato alla formazione della civiltà etrusca così come essa si è venuta organizzando nell’Etruria, processo di formazione che va tenuto distinto dalla questione relativa alla provenienza di questo popolo, altro aspetto relativamente al quale esistono diverse teorie.
    Dagli studi condotti sui reperti giunti fino a noi, si può evincere che gli Etruschi sono probabilmente il risultato dell’interazione di popoli diversi visto che nella loro cultura compaiono elementi greci, sirio – fenici, italici, egizi, mesopotamici, urartei e indoiranici.
    E’ interessante notare che l’influenza degli antichi Grci sugli Etruschi detreminò la comparsa nella cultura di questi ultimi di una fse storico – culturale definita orientalizzante, che corrisponde circa all’VIII secolo avanti Cristo. I contatti avvennero soprattutto attraverso le colonie della Magna Grecia, ovvero con le colonie greche nell’Italia meridionale. Tra i diversi ambiti nei quali si osserva l’influenza greca certamente va annoverata la ceramica. Vi furono infatti csambi di vasellame tra Etruschi e Greci, ma anche scambi di tecniche produttive ed artistiche, con un miglioramento tecnologico nella civiltà etrusca dei forni e dei torni.

    Latona – Veio

    Un altro ambito in cui è chiara l’influenza greca è nella religione. Molte delle divinità etrusche in questo periodo vennero infatti reinterpretate e fatte corrispondere a divinità greche ad esempio Tinia venne associata a Zeus, Uni ad Era, Aita ad Ade.
    Dal litorale e dall’entroterra toscano, dove praticavano l’agricoltura ancge grazie ad opere di bonifica delle zone paludose, gli Etruschi si espansero veso nord nella Pianura Padana.
    Svilupparono sia le tecniche di estrazione che di lavorazione dei metalli, soprattutto il ferro.
    La lavorazione dei metalli fu uno degli elementi che spinse la crescita dei commerci via mare di città quali Cerveteri, Vulci e Tarquinia.
    E’ possibile che fossero di origine etrusca anche i Reti, un popolo che occupava il Trentino alto Adige.
    Se così fosse gli Etruschi oltre a controllare i traffici sul Mar Tirreno controllavano anche quelli che avvenivano verso il Nord Europa.
    In Umbria gli Etruschi fondano la città di Perugia che diviene una delle dodici lucumonie etrusche.
    I primi villaggi etruschi erano costituiti da capanne con tetto molto spiovente in paglia o argilla. Le città si distinguevano dagli insediamenti italici perché non erano disposte a caso ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio alcune città erano poste in cima ad alture così da poter controllare ampie zone sottostanti terrestri o ampi bracci di mare, oppure sorgevano in territori fertili ed estreamente adatti all’agricoltura, come nel caso di Veio e Tarquinia.
    La città sorgeva intorno ad una coppia di assi viari orientati nord – sud (cardo) ed est – ovest (dcumano), un assetto urbanistico che risultò rivoluzionario rispetto a quello adottato dai greci e che successivamente divenne modello per molte altre civiltà tra cui quella romana.

    Ercole – Veio

    Le città erano spesso protette da mura ciclopiche in argilla o tufo o pietra calcarea in cui si aprivano porte.
    Moltissime delle informazioni sulle abitazioni e sulla vita quotidiana degli Etruschi sono state ricavate dallo studio delle necropoli, le “città dei morti” sempre poste al di fuori della cinta muraria. Le necropoli sono sempre composte da sepolture ipogee, ovvero da ambienti sotterranei sovrastati da un tumulo, che riproducevano la disposizione delle abitazioni con arredi, vasi, stoviglie, armi, gioielli, ecc…. Ognuna di queste tombe si articolava in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del defunto. Gli affreschi alle pareti delle tombe riproducevano scene di vita quotidiana.
    Gli Etruschi credevano nell’esistenza di una vita dopo la morte che era una prosecuzione della vita terrena.
    Altre tombe erano ricavate all’interno di cavità naturali preesistenti. Le tombe a edicola erano costruite completamente a livello della strada. Erano a camera unica ed avevano la forma di un tempio in miniatura, ma in pratica avevano una forma molto simile a quella delle abitazioni con tetto a doppio spiovente.
    Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia sono esposti i reperti tra i più famosi provenienti dalle città etrusche quali il Sarcofago degli Sposi proveniente da Cerveteri e risalente al VI secolo avanti Cristo. Il Sarcofago degli Sposi, capolavoro dell’arte etrusca in terracotta, fu trovato nel 1881 in una tomba della Banditaccia, allora di proprietà dei Principi Ruspoli, dai quali Felice Barnabei, il fondatore del Museo, lo acquistò rotto in più di 400 frammenti. Formato da una cassa a forma di letto da convito (kline) e da un coperchio con la rappresentazione di una coppia coniugale semidistesa a banchetto, alla moda orientale, il sarcofago è in realtà un’urna cineraria destinata ad accogliere le ceneri di due defunti.

    Sarcofago degli Sposi – Cerveteri

    L’uomo con il busto nudo e il resto del corpo coperto dal mantello cinge con gesto amoroso le spalle della donna, abbigliata con cappello e calzature con la punta rialzata; entrambi nelle mani tenevano vasi o altri oggetti da mensa, non conservati. Nella rappresentazione della coppia a banchetto, tema tanto frequente nei monumenti funerari, è colto un momento importante della vita aristocratica etrusca, che esaltava il rango e l’opulenza e rifletteva antichi ideali e forme rituali derivate dal mondo greco omerico. L’opera, modellata in un unico momento, ma tagliata verticalmente in due metà per evitare danni durante la cottura, in origine doveva essere ravvivata da forti colori di cui resta traccia sulle gambe del letto conviviale, colori che in parte si conservano nel sarcofago gemello, anch’esso da Cerveteri, al Museo del Louvre di Parigi dal 1863. L’attenzione dello scultore è concentrata sulle teste dalla nuca molto arrotondata, sui volti dall’ovale sfinato con gli occhi allungati, mentre la struttura dei corpi è nascosta da un panneggio dalle linee fluide, di grande raffinatezza anche nei dettagli. Datato tra il 530 e il 520 a.C., il sarcofago mostra caratteri stilistici propri di quella corrente artistica cosiddetta ionica che, avviata da artigiani provenienti dalle città greche dell’Asia minore, domina in Etruria nella seconda metà del VI secolo.
    Da Veio, in terracotta policroma risalente anch’essa al VI secolo avanti Cristo provengono la statua di Apollo e quella di ercole, affrontati nella contesa per la cerva cerinite dalle corna d’oro sacra ad Artemide/Diana, che costituisce una delle dodici fatiche di Ercole.

    Sette Contro Tebe (frammento) – Pyrgi

    Le statue facevano parte dell’apparato decorativo del tempio di Apollo. Di questo complesso decorativo facevano parte anche una statua di Hermes/Mercurio di cui giunge una splendida testa, e Latona con il piccolo Apollo in braccio, rappresentata forse nell’atto di colpire il serpente pitone per allontanarlo da Delfi.
    Da Pyrgi, l’antico porto di Cerveteri, proviene l’altorilievo in terracotta con la raffigurazione dei mito dei Sette contro Tebe, risalente al V secolo avanti Cristo e facente parte della decorazione del così detto tempio A dedicato a Leucotea – Ilizia, ovvero l’etrusca Uni.
    Dal così detto tempio B di Pyrgi provengono anche le lamine d’oro risalenti alla fine del VI secolo avanti Cristo, che costituiscono la più antica fonte storica dell’Italia preromana. Due delle lamine sono in lingua etrusca, mentre la terza è in fenicio. Il testo etrusco più lungo e quello fenicio hanno lo stesso contenuto pur non essendo l’uno la traduzione letterale dell’altro. Questa coppia di lamibe è un documento importante per la comprensione dell’etrusco.

    Lamine d’oro – Pyrgi

    Le due lamine riportano la dedica di un “luogo sacro” alla dea fenicia Astarte, assimilata alla dea etrusca Uno, da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio designa re di Caere. Segue nell’iscrizione fenicia la motivazione della dedica: in ringraziamento dell’aiuto ricevuto dal donatore tre anni prima, in occasione della sua ascesa al potere. Nell’iscrizione etrusca più breve è ricordato lo stesso personaggio per alcune azioni rituali nel medesimo luogo sacro.

    Roma, 9 febbraio 2019

  4. Articolo

    Quelle piccole, grandi storie popolari

    di Paolo Mattei

    Tratto dal mensile “30Giorni” pubblichiamo il dialogo che Paolo Mattei realizzò con padre Virgilio Fantuzzi, critico cinematografico della “Civiltà

    Don Pietro Pellegrini (Aldo Fabrizi) con Marcello (Vito Annichiarico) figlio della Sora Pina.

    Cattolica”, che parla dei luoghi in cui fu girato ”Roma città aperta”, e che ricostruisce quella realtà brulicante di vita e di racconti che ispirò il film capostipite del neorealismo italiano. L’articolo fu pubblicato nel numero 07/08 del 2001.

    Tre amici, nel luglio 1944, si ritrovavano abitualmente a mangiare in una trattoria nei pressi di via del Tritone, al centro di Roma. Si raccontavano storie della vita, storie di guerra e di resistenza. Da qualche giorno nella capitale erano giunti gli Americani e il cammino dei liberatori proseguiva verso il Nord, dove i combattimenti e la resistenza continuavano.

    continua…