Il grande piazzale solitario corrisponde alla cima del Fagutale, la vetta
occidentale dell’Esquilino. Qui la moglie dell’imperatore Valentiniano III, Eudossia, fece costruire sopra precedenti edifici una chiesa per conservarvi le catene della prigionia di san Pietro a Gerusalemme. Consacrata nel 439, la chiesa, che porta anche il titolo di “eudossiana”, venne più volte restaurata e rifatta. Importanti lavori vi condusse il nipote di Sisto IV, il cardinale Giuliano Della Rovere, che sarebbe poi stato Giulio II. Una vistosa modifica la chiesa doveva successivamente subire nei primi anni del Settecento ad opera di Francesco Fontana.
Dall’alto di un’ampia gradinata, domina la piazza l’elegante portico a pilastri ottagonali, attribuito a Baccio Pontelli o, forse a maggior ragione, a Meo del Caprino.
Attraverso un bel portale marmoreo con stemmi del cardinale Della Rovere nell’architrave, si entra nel vasto interno a tre navate, delle quali la centrale sembra ancora più ampia a causa del soffitto ligneo ribassato che comprende il grande dipinto del “Miracolo delle Catene” di Giovanni Battista Parodi, 1706. Splendide sono le robuste 20 colonne di granito; qui ha ampiamente operato nel 1872 Virginio Vespignani al quale si deve
l’altare maggiore con baldacchino e la sottostante “confessione” in cui, attraverso due sportelli aperti, si vede l’urna dorata, realizzata nel 1856, che contiene le catene di san Pietro, quella della prigione di Gerusalemme si sarebbe saldata, secondo tradizione, a quella della prigione romana del Carcere Mamertino. Nella cripta sottostante c’è un bel sarcofago paleocristiano con le presunte reliquie dei fratelli Maccabei, ornato con scene del Nuovo Testamento.
Ma non c’è dubbio che la chiesa abbia il suo punto focale nel michelangiolesco Mausoleo di Giulio II, nonostante che esso sia solamente la deludente attuazione del grandioso progetto immaginato dal combattivo pontefice, e che sia persino privo delle spoglie di lui, sepolte nella basilica di San Pietro.
Giulio II infatti aveva immaginato la propria tomba al centro della Basilica di San Pietro sotto la grande cupola e sopra la tomba dell’Apostolo, al
luogo dell’odierno baldacchino. Il progetto aveva in sé dell’irriverente, oltre che del presuntuoso. Ma può essere compreso, se lo si paragona alla personalità del Della Rovere, uomo di grandi vedute e di grandi risoluzioni, ivi compresa quella di abbattere l’antico San Pietro, oltre che di grandi passioni, ira compresa: fu lui a sollevare il bastone sulle spalle del grande Buonarroti!
Eppure la gigantesca statua del Mosè riscatta tutta la triste vicenda della tomba rimasta incompiuta perché Michelangelo ne venne distratto dalle opere di volta in volta commissionategli dai successivi pontefici, e fu la «tragedia della sua vita», come egli si espresse. L’opera è una delle realizzazioni fondamentali di tutta la storia artistica, uno dei sommi capolavori di ogni tempo e basta da sola ad assicurare la gloria dell’autore e del committente che l’espressione e l’atteggiamento del sommo legislatore ebraico rievoca in maniera sorprendente.
A Parigi e a Firenze sono le statue dei Prigioni che avrebbero dovuto figurare nel monumento. Qui si trovano invece due belle statue di Lia e di Rachele, opere sempre di Michelangelo compiute da Raffaello da Cantalupo, e altre mediocri statue di discepoli.
Due anni fa è stato realizzato un nuovo sistema di illuminazione del capolavoro che ha svelato una sorta rapporto “segreto” fra la bellezza del Mosè e la luce del sole. Un segreto scoperto da Antonio Forcellino, il restauratore e architetto cui la Soprintendenza per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma ha affidato i lavori di pulitura del capolavoro nell’ambito dei lavori di restauro che hanno interessato tutta la struttura della Tomba di Giulio II: «Michelangelo», spiega Forcellino, «ha lustrato con il piombo solo le parti più aggettanti della statua, quelle che ricevevano la luce diretta del sole, lasciando le altre a una finitura più rustica fatta con pomice e sabbia. In tal modo la scultura acquista una profondità del tutto nuova, un carattere pittorico. Del resto questo gli era possibile perché era anche un grandissimo pittore. È evidente come il braccio sinistro sia portato a un lustro che riflette la luce in maniera straordinaria, mentre il torace arretra di molto perché il trattamento finale si è fermato alla pomice».
Il Mosè di Michelangelo è sempre stato oggetto di interpretazioni tra le più varie. Se ne sono occupati con puntiglio, specialmente negli ultimi due secoli, critici d’arte, iconologi, teologi e psicanalisti. “Non ho mai provato un’emozione così forte di fronte a un’opera d’arte…La mia attenzione è caduta così sul fatto, apparentemente paradossale, che proprio alcune delle creazioni artistiche più meravigliose e travolgenti sono rimaste oscure alla nostra comprensione. Le ammiriamo, ci sentiamo sopraffatti dalla loro grandezza, ma non sappiamo dire che cosa rappresentano”, scrisse
Sigmund Freud nell’introduzione del suo saggio Il Mosè di Michelangelo del 1913. Sappiamo che nella storia dei viaggi freudiani, l’Italia occupa un posto centrale. Il vero innamoramento per il Bel Paese si realizza pienamente per Freud nel 1901, quando riesce a trovare il coraggio di spingersi finalmente fino a Roma, la città dei suoi sogni. Tutto a Roma gli piace: la mitezza del clima, la luce, i profumi. Durante le giornate a Roma, Freud passeggia ebbro di stupore per l’arte, il paesaggio, i piaceri della buona tavola, tanto da dichiarare che quello era il luogo dove avrebbe voluto trascorrere la sua vecchiaia. Non c’è angolo della città che non abbia visitato: da San Pietro alla Sistina e alle stanze di Raffaello, dalla via Appia al Gianicolo, dal Pantheon a San Pietro in Vincoli, dove vede per la prima volta il Mosè di Michelangelo, fonte di emozioni delle quali continua a nutrirsi per anni. Nel 1914 esce sulla rivista «Imago» il saggio “Il Mosè di Michelangelo”, dove Freud espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Non è un saggio psicoanalitico del Dottor Freud sulla figura del patriarca ebraico, a questo penserà anni dopo nel 1934-1938 scrivendo “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, dove attraverso la psicoanalisi viene ricostruita la storia di Mosè e del monoteismo ebraico, ma è una relazione-rivelazione, confidenziale, intima, delle impressioni del Signor Freud davanti a “quel Mosè”, quella raffigurazione precisa, così come Michelangelo l’aveva fissata nel marmo quasi quattrocento anni prima.
L’indagine psicoanalitica viene, in un certo senso, messa da parte, Freud non è interessato alla psico-biografia del Buonarroti, né all’analisi della storia e della personalità del patriarca Mosè, è teso solo a spiegare le suggestioni che la statua gli suscita.
Era tornato ad ammirarla quasi ipnotizzato, giorno dopo giorno e, alla fine, era come se la statua parlasse con lui, raccontandosi.
Quello che principalmente gli rivela sono le azioni e i gesti che precedono la posizione finale in cui Michelangelo l’ha fermata, il retroscena.
Freud dà voce alla storia di “quel” Mosè, così come è risuonata dentro di lui, come la statua stessa gliel’ha confessata: l’opera d’arte viene lasciata libera di comunicare, di esprimersi, di sconvolgere ogni teoria, ogni preconcetto esistente.
Le interpretazioni e le descrizioni discordanti sull’aspetto della scultura, fatte nel corso dei secoli, intrigano Freud più che mai, tanto che diradare il mistero diventa per lui quasi un bisogno, una necessità.
La tesi di Freud è originale. Il punto di partenza dell’osservazione è il nodo della barba nella mano sinistra di Mosè, un dettaglio, un aspetto apparentemente secondario, che, come la pratica psicoanalitica gli ha dimostrato, si rivela capace di aprire una finestra su una nuova visione della realtà e sulla sua comprensione.
Contrapponendosi all’interpretazione più accreditata secondo la quale la guida spirituale degli ebrei sarebbe stata rappresentata da Michelangelo nel momento in cui prorompeva il gesto d’ira per l’idolatria del popolo, causando la rottura delle tavole della Legge, Freud, vede Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento.
Un’immagine che non corrisponde affatto al condottiero della tradizione biblica, uomo iracondo e soggetto alle passioni: il Mosè di Michelangelo e Freud è capace di controllare la sua collera, che pure è presente nello sguardo, nell’impeto del balzo trattenuto, nella torsione improvvisa della testa. Egli non rompe le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis.
Se consideriamo che Freud scrisse il saggio nello stesso periodo del dissidio con Jung, possiamo immaginare come si sia sentito vicino a quel Mosè deluso, scandalizzato dall’infedeltà dei suoi: il popolo della psicoanalisi, ingrato come il popolo ebraico, stava deviando dalla retta via, rinunciando alla giusta dottrina per volgersi ad altri culti.
Eppure, il ritratto conclusivo che traccia Freud di “quel” Mosè è quello di un saggio, consapevole della missione divina di cui è latore, capace di formidabile autocontrollo: la ragione che domina sulle passioni che prorompono.
Nella statua di Michelangelo Freud, in fondo, vede se stesso.
Nella fattezze fiere mirabilmente scolpite, nello sguardo pieno di dolore e di sdegno, nell’impeto represso, nell’autocontrollo ritrovato con fatica, nella consapevolezza della grande missione da compiere “malgrado tutto”, Freud proietta quello che si agita dentro di lui, e attraverso l’analisi della statua, illustra e dirime il proprio conflitto interiore.
Roma, 1 maggio 2019.