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  1. Tempo di Natale: la Basilica di Santa Maria all’Ara Coeli e il Bambinello miracoloso

    «Santa Maria in Ara Coeli al Campidoglio, Chiesa regionale SENATUS

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Canaletto.

    POPULUSQUE ROMANUS»: la definizione dell’Annuario della Diocesi di Roma è tanto sintetica quanto densa di significati: se la Basilica di San Pietro in Vaticano e la Cattedrale di San Giovanni in Laterano legano l’Urbe all’apostolo Pietro e ai suoi successori, l’Ara Coeli è la chiesa del popolo romano e delle sue istituzioni civiche. E c’è più di una ragione a rendere questa chiesa unica: secondo un’antica tradizione, nel luogo dove essa sorge, l’imperatore Ottaviano Augusto avrebbe avuto la visione di una giovane donna con un bambino in braccio che gli preannunciava: «Haec est Ara Filii Dei», «questo è l’Altare del Figlio di Dio». Dopo quella visione, l’imperatore avrebbe deciso di innalzare un piccolo altare a quel Dio bambino che stava per arrivare.
    E proprio grazie alla presenza di un’effige di Gesù Bambino, la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli è carissima al cuore dei romani e dei fedeli di ogni parte del mondo: dalla fine del XIV secolo, infatti, la chiesa ospita una statuetta lignea che raffigura il Bambino Gesù – per i romani «er Pupo» o «er Bambinello» – dispensatore di miracoli e grande beniamino dei bambini, i quali, da tempi immemorabili, si recano dalla notte di Natale fino all’Epifania, al suo cospetto, a leggere pensierini, esprimere desideri e recitare preghiere.

    Il Bambinello – Basilica di Santa Maria in Ara Coeli

    La Chiesa dell’Ara Coeli, come si è soliti chiamarla familiarmente, è dunque una delle più venerabili fabbriche della città.  Già nel 574 la chiesa, denominata allora Santa Maria in Capitolio, era considerata molto antica. Secondo alcune fonti a volerla edificare fu sant’Elena, la madre di Costantino. Secondo altre, papa Gregorio Magno.
    Comunque, in quel VI secolo, annesso alla chiesa c’era anche un convento di monaci greci. Dopo i greci, erano arrivati i monaci benedettini a governare chiesa e convento, i quali, a loro volta, nel XIII secolo, lasciarono il posto ai francescani, l’ordine dei tempi nuovi.
    E mentre le vestigia di Roma antica erano ormai andate in rovina, qualcosa dell’antica gloria del Campidoglio era ancora viva entro le mura della chiesa e del convento: qui gli anziani della città si riunivano per discutere dei loro affari, alla maniera in cui il Senato era solito riunirsi ogni anno nel tempio di Giove, situato nei secoli della Roma antica, sull’altra sommità del colle capitolino.

    Scalinata della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Si ringrazia “RomaSparita”.

    In un’epoca non precisata, la chiesa, ad un certo punto, cambiò nome: da Santa Maria in Capitolio in Santa Maria in Ara Coeli. Qualche notizia sul motivo del cambiamento si rintraccia nei Mirabilia Urbis Romae, le antiche guide della città famosissime dall’alto medioevo fino al tardo rinascimento.
    Vi si afferma che la chiesa era stata costruita sul sito dove sorgeva il tempio di Giunone Moneta, dove si trovava la zecca romana, donde prese origine la parola moneta ai tempi di Augusto imperatore, che aveva proprio nei pressi del tempio di Giunone uno dei suoi palazzi. Ed era stato proprio in quel palazzo che l’imperatore, «sbigottito che il Senato volesse tributargli gli onori riservati agli dei», aveva interpellato la Sibilla Tiburtina. E la Sibilla così si era espressa: «vi sono indizi che presto dal sole scenderà il Re dei secoli venturi e la vera giustizia sarà fatta». Mentre la Sibilla parlava, l’imperatore vide aprirsi i cieli e scorse una giovane donna che teneva in braccio un bambino ammantato di luce; due voci gridarono dal cielo: «Questa è la Vergine che porterà nel suo grembo il Salvatore del mondo. Questo è l’altare del Figlio di Dio». Allora Augusto eresse un altare nel luogo stesso della visione – l’Ara Filii Dei o Ara Coeli – .
    Parecchi cronisti del Medioevo menzionano questo altare. Un’ulteriore conferma della tradizione si volle vedere in un’antica colonna sulla quale si leggevano le parole a cubicolo Augustorum, ovvero «dalla stanza degli imperatori»: la colonna è la terza nella navata sinistra della chiesa.

    La così detta Colonna di Augusto. Si ringrazia Alvaro de Alvariis.

    Che la tradizione si riferisca al Campidoglio e a Ottaviano Augusto può essere anche dovuto al fatto che nel secolo XI esisteva nella zona dell’Ara Coeli un edificio di mole considerevole noto come camera o palatium Octaviani, nel quale, tra l’altro, fu ospitato un emissario dell’imperatore Enrico III, Rex romanorum dal 1039 al 1056, e dal 1046 imperatore del Sacro Romano Impero.
    Nel transetto sinistro dell’Ara Coeli, entro un tempietto con otto colonne, un’urna di porfido che si dice contenesse le spoglie mortali di sant’Elena, madre di Costantino, poggia su un altare incassato nel pavimento ritenuto proprio l’Ara Coeli fatto costruire da Augusto. Nell’abside un affresco ritrae Augusto e la Sibilla Tiburtina tra i santi e gli angeli, cosa davvero inusitata per un imperatore pagano. In verità questa profezia fu talmente cara ai fedeli romani che le Sibille compaiono tra gli elementi decorativi delle chiese cristiane. Agli albori del XII secolo la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli assume, definitivamente, il ruolo di chiesa del popolo romano: è il 1143 quando a Roma ebbe luogo la cosiddetta renovatio Senatus, ossia il rinnovamento dell’antica istituzione in opposizione al potere del sovrano Pontefice, allora era papa Innocenzo II. Un anno dopo fu istituito il Comune di Roma con a capo il potente Giordano Pierleoni, il quale scelse il Campidoglio e quindi l’Ara Coeli come sede dell’istituzione cittadina. E proprio nella chiesa ebbero luogo, per anni, le assemblee dei rappresentanti del popolo. Nel 1250, papa Innocenzo IV decise di affidare chiesa e

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Interno.

    monastero ai francescani, i quali ristrutturarono gli edifici che continuarono ad essere oltre che luogo di culto, anche il centro della vita politica del libero comune. I francescani ne cambiarono anche l’orientamento: prima verso i Fori, ora verso la basilica di San Pietro in Vaticano. Una strana commistione tra religione e politica, che però, nonostante tutto, manteneva distinte l’una dall’altra. Nel 1348 si procedette alla costruzione della bellissima scalinata con 122 scalini che ammiriamo ancora oggi, commissionata dal comune come voto alla Madonna affinché ponesse fine alla peste che imperversava in tutta Europa. Ad inaugurare la scalinata fu Cola di Rienzo, tribuno del popolo e grande studioso di antichità romane. Benché non fosse mai stato anticlericale, ma anzi avesse sempre accuratamente coltivato il sostegno papale alle proprie imprese, la figura di Cola di Rienzo fu assai cara all’immaginario risorgimentale e massone, che ne fece l’eroe antesignano di un risorgimento di Roma rimasto incompiuto. Ma tornando alla nostra chiesa, va ricordato che proprio entro le sue mura Francesco Petrarca fu laureato poeta nel 1341. E che, nel 1571, vi fu celebrato il trionfo di Marcantonio Colonna, comandante della Lega cattolica contro i Turchi a

    Una Processione a Santa Maria in Ara Coeli – Oswald Achenbach.

    seguito della sua vittoria nella battaglia di Lepanto: lo straordinario soffitto dell’Ara Coeli ne ricorda la celebre vittoria. Sempre qui, dal XIV al XIX secolo, si celebrava il Te Deum di ringraziamento del popolo romano alla presenza del Papa. Nonostante il carico di storia e di tradizioni che questa chiesa vanta, il vero motivo per cui è famosa in tutto il mondo è la presenza del Bambinello, una scultura di Gesù Bambino intagliata nel XIV secolo da un frate francescano nel legno d’ulivo proveniente dal Getsemani. Tranne che nel periodo delle feste natalizie, durante le quali viene trasferita nel presepe allestito in una cappella della navata sinistra, la sacra effige viene conservata in una custodia di vetro posta sull’altare di una piccola cappella accanto alla sacrestia. Purtroppo, la statuetta fu rubata nel febbraio del 1994 e mai più ritrovata. Al suo posto fu posta una copia che ha continuato a elargire tante e tante grazie: nella cappellina due grandi contenitori di vetro pieni zeppi di lettere spedite da bambini e da fedeli di tutto il mondo contenenti le richieste di miracoli. Spesso sono indirizzate semplicemente «Al Bambino, Roma». I foglietti, poi, vengono bruciati senza che siano stati aperti dai padri francescani, i quali non si intromettono in quello stupendo dialogo tra Gesù e i suoi piccoli. Molte volte, prima di quel 1994, si è tentato

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Giovan Battista Piranesi.

    di rubare il Bambinello: nel febbraio del 1794, una donna se lo portò a casa e lo sostituì con una copia perfetta. Ma a mezzanotte dello stesso giorno, le campane dell’Ara Coeli si misero a suonare e alle porte del convento i francescani ritrovarono il Santo Bambino che fu subito rimesso al suo posto, mentre la copia andava in mille pezzi. E poco prima di quel febbraio del 1994, giorno del furto definitivo, qualcuno si portò via gli ori e i gioielli che ricoprivano la statuetta. Dopo alcuni mesi, i fedeli di ogni parte del mondo ne donarono altrettanti. Molti sono i malati che, ancora oggi, chiedono ai padri francescani di poter vedere e toccare il Bambinello: e allora ecco che la statuetta lascia la sua cappellina per andare in visita a chi ne ha bisogno. Oggi i trasferimenti avvengono il più delle volte in taxi. Ma per secoli si è utilizzata una bellissima carrozza e successivamente un’automobile cardinalizia. A tal proposito a Roma rimane famoso l’episodio di quando alcuni soldati fermarono un’automobile cardinalizia che tentava di attraversare Piazza Venezia mentre Benito Mussolini teneva un discorso. Appena si accorsero che trasportava il Santo Bambino al capezzale di un malato, la lasciarono proseguire immediatamente. Si spera sempre che la statuetta rubata possa tornare prima o poi al suo posto. Anche se pare che il Signore non sembra curarsi troppo del dettaglio, continuando a elargire con larghezza la sua grazia attraverso la semplice copia.

    Roma, 13 dicembre 2019

  2. Le tombe di via Latina, gioiello dell’arte funeraria

    Nel mezzo della periferia romana, tra le moderne via Appia e via

    Sarcofago per due in marmo greco – Tomba dei Pancrazi – Parco Archeologico della Via Latina.

    Tuscolana, si incastona ancora perfettamente conservato un tratto del III miglio dell’antica via Latina. Risparmiato dall’invadenza del cemento, questo frammento di campagna romana conserva intatto il fascino arcadico della sua dimensione originaria di strada antica fiancheggiata da alberi e sepolcri. Tra il corteo di sempreverdi e l’allineamento delle tombe, qui è possibile ritrovare il gusto e la passione per il passato, come in un’ottocentesca promenade. La strada con i suoi basoli conduce verso una realtà solitaria e agreste, lontana dai rumori assordanti del traffico. Essa ha origini remote: la rotta naturale, già seguita in età preistorica, venne utilizzata dagli Etruschi per colonizzare la Campania nel tra l’VIII e il VI secolo avanti Cristo. Tracciata definitivamente dai Romani intorno tra il IV e il III secolo avanti Cristo, congiunse Roma a Capua attraversando i monti Lepini, Ausoni, Aurunci e le valli dei fiumi Sacco e Liri mantenendo la sua importanza per tutta l’antichità.

    Tomba dei Valeri – Particolare del soffitto a stucco bianco – Parco Archeologico della Via Latina.

    Anche in età medievale, infatti, fu preferita come viabilità per Napoli per la migliore conservazione rispetto all’Appia e la presenza di una serie di edifici di culto cristiani lungo il tracciato. Entrando nel Parco archeologico delle Tombe della Via Latina è oggi possibile percorrere un tratto del selciato originale della strada. Con una gradevole passeggiata a piedi si possono ammirare le ricche tombe risalenti ad un periodo compreso tra il I e il II secolo dopo Cristo che si affacciavano sul percorso, che presentano ancora perfettamente conservate le decorazioni policrome sulle facciate e all’interno: volte rivestite d’intonaco dipinto e stucco, pareti affrescate con scene di carattere funerario e ricchi pavimenti in mosaico si conservano ancora sostanzialmente intatti nel loro contesto originario. Dalla strada è inoltre possibile raggiungere la Basilica di Santo Stefano, raro esempio di impianto paleocristiano eretto sotto il pontificato di Leone Magno intorno alla metà del V secolo. Il Parco archeologico delle Tombe della Via Latina è stato istituito nel 1879 a seguito dell’acquisizione da parte dello Stato di una vasta area in cui erano stati portati alla luce notevoli resti di età romana. Grazie ai recenti lavori di restauro è oggi possibile accedere all’interno di alcuni dei sepolcri più spettacolari in piccoli gruppi per non comprometterne lo stato di conservazione: il cosiddetto Sepolcro Barberini, o dei Corneli. Il monumento funerario, databile al II secolo dopo Cristo, è costituito da due piani sopraterra e da uno ipogeo in eccellente stato di conservazione. Il piano superiore è coperto da una volta a crociera interamente rivestita di intonaco affrescato a sfondo rosso ed elementi in stucco. Si riconoscono gruppi di personaggi, vittorie alate su bighe, amorini, uccelli, animali marini, soggetti mitologici e sfondi architettonici. La Tomba dei Valeri. Se ne conservano gli ambienti ipogei riccamente decorati, databili alla metà del II secolo dopo Cristo, mentre l’elevato è una ricostruzione ipotetica realizzata nella metà dell’Ottocento. Un elaborato rivestimento in stucco bianco, articolato in 35 medaglioni e riquadri, orna le lunette e la volta a botte dell’ambiente sotterraneo.

    Tomba dei Valeri – Uno scorcio del soffitto decorato in stucco bianco – Parco Archeologico della Via Latina.

    Soggetti dionisiaci, figure femminili e animali marini sono rappresentati nei medaglioni, mentre nel tondo centrale si trova una delicata figura velata a dorso di un grifone, che rappresenta la defunta portata nell’aldilà. La Tomba dei Pancrazi. Gran parte della struttura visibile è una costruzione moderna che protegge il monumento sottostante impostandosi sui muri originali databili tra il I e il II secolo dopo Cristo che si conservano per circa un metro di altezza. Entrando nel sepolcro si possono ammirare gli ambienti sotterranei splendidamente decorati con mosaici sui pavimenti e volte e pareti affrescate con colori brillanti e stucchi in eccellente stato di conservazione. Vi sono raffigurate scene mitologiche, paesaggi naturali e architettonici, immagini femminili e di animali. Al centro di una delle camere ipogee campeggia un grande sarcofago per due deposizioni in marmo greco.

    Roma, 11 dicembre 2019

  3. Le “Madonnelle stradaiole”, la religiosità popolare romana

    Chi di noi non si è imbattuto passeggiando per i vicoli o le strade meno trafficate di Roma nella vista improvvisa su un muro o agli angoli di un palazzo storico di una Madonna dipinta sotto un baldacchino? Le “madonnelle stradarole”, così vengono chiamate a Roma le edicole sacre, sono il simbolo e, al tempo stesso, la testimonianza di una religiosità popolare, di strada e di quartiere, e più in generale di un modo di vivere la città.
    A volte hanno avuto un’importanza così alta al punto da essere trasferite all’interno delle basiliche per essere onorate in modo ufficiale e da tutta la città, come la Madonna di Strada Cupa, un’edicola che stava ai piedi del Gianicolo, trasferita nel 1625 nella basilica di Santa Maria in Trastevere in una cappella costruita appositamente a riconoscimento dei molti miracoli che aveva compiuto.
    Le edicole romane rappresentano un’immagine sacra, prima fra tutte Maria, principale protettrice dei cristiani e mediatrice presso suo figlio Gesù, ritratto come il Salvatore. Proprio nella più antica edicola rimasta nel cuore di Roma, in via dei Cappellari, risalente al secolo XIV, è raffigurata una Crocefissione e la figura del Salvatore è presente anche in altre, mentre il soggetto più diffuso è quello della Madonna della Pietà o la Madonna Addolorata o le Madonne con il bambino. Le immagini sono contenute in una forma che può essere un semplice medaglione con cornici a stucco, decorato al massimo con qualche nastro, alle forme più complesse dove sono presenti pilastri, cherubini e putti, ecc., che insieme – in epoca barocca – davano vita a composizioni spettacolari e scenografiche. Altro elemento che caratterizza le edicole sacre romane è il baldacchino, realizzato quasi sempre in metallo a forma di tenda e a spicchi, arricchito da un orlo a frange e fiocchi.

    San Francesco a Ripa.

    «Credo che prima ancora del sentimento religioso», scrive Giuseppe De Fiori nel volume “Le vie di Roma – Le edicole sacre”, Bonsignori Editore, «sia stata la necessità di illuminare gli angoli bui di una Roma rinascimentale violenta, popolata di agguati ed assassinii, a porre sui cantoni dei palazzi, ai crocevia delle strade strette e malsicure, un lume, che forse proprio perché destinato alla Madonna, veniva rispettato più di un semplice lampione». Questo perché l’edicola si pone al centro di uno spazio che non è solo sacro, ma anche profano all’interno del quale assume un valore proprio rispetto al rione, trasformando situazioni potenzialmente critiche, luoghi di passaggio o di “margine”, in uno spazio sicuro, svolgendo così una funzione di salvaguardia dell’ordine costituito. Non a caso le edicole si trovano ai confini tra rioni e agli incroci, luoghi che era necessario proteggere, quasi che l’uomo avesse bisogno di consacrare la città per difenderla dai pericoli interni ed esterni. Come scrive lo storico Francesco Pitocco in “Le vie di Roma – Le edicola sacre” «le edicole romane acquistano il loro valore proprio dal rapporto con il loro “bacino d’utenza” culturale, rione o quartiere che sia; rapporto vissuto privatamente dai singoli, ma anche gestito e organizzato collettivamente da confraternite o congregazioni varie, prima fra tutte quella di San Filippo Neri, che segnano nelle immagini votive il segni del possesso di un’area della città, al contributo da famiglie aristocratiche, al decoro urbano, attraverso la collocazione di una madonnella sul palazzo o sulla chiesa familiare».

    Santa Maria in Portico.

    Chi veniva in visita a Roma non poteva non rimanerne colpito. Il filosofo e scrittore francese Ernest Renan scriveva al suo amico Marcelin Barthelot in una lettera del 1849: «Dopo un quarto d’ora che camminate per Roma siete subito rapiti dalle tante immagini che si accumulano prodigiosamente: quadri, statue, chiese, monasteri, dovunque, ma non vi riscontrate mai niente di banale o di volgare: ovunque c’è invece la presenza dell’ideale». Le edicole sacre non sono solo una testimonianza religiosa, dunque, ma anche un prezioso documento di arredo urbano dalla fattura preziosa, avvolte da un alone di romanticismo che ci riporta al passato e all’identità romana anche se oggi, travolte da un caos che non apparteneva alle loro origini, spesso non si notano, rischiando di smarrire un’identità collettiva.
    La loro origine si fa risalire addirittura alla Roma di Servio Tullio, sesto re di Roma, tra il 578 avanti Cristo e il 539 avanti Cristo, nate con la funzione di proteggere le regioni e i quartieri in cui era stata suddivisa. Erano molte e “gestite” da corporazioni religiose che celebravano riti propiziatori e organizzavano feste, anche per gli schiavi, e giochi. Al tempo di Augusto erano 265 e sotto Costantino 423. «I compita Larum», così si chiamavano le edicole sacre dei romani antichi, – scrive Laura Cardilli ne “Le vie di Roma – Le edicole sacre” – «erano costituiti da piccoli recinti dapprima a cielo aperto con ingressi a seconda delle strade al cui intersecarsi si trovavano, con sedili per gli offerenti, che ospitavano presso l’ara l’immagine della divinità, i devoti vi appendevano per offerta vari oggetti che consentivano tra l’altro di effettuare il censimento della popolazione sia schiava che libera».

    Via Acerbi.

    Il trascorrere dei secoli non ha cancellato usi e riti che si consumavano ai piedi delle madonnelle, tutt’altro. Essi sono sopravvissuti in maniera persistente in epoche diverse e lontane tra loro. È il caso di molte edicole, soprattutto rinascimentali, realizzate secondo i canoni classici come l’“edicola di ponte” di Antonio di Sangallo il Giovane per l’edificio in via dei Coronari-angolo vicolo Domizio e affrescata con L’Incoronazione della vergine da Perin del Vaga o l’edicola nei pressi del crocevia della via Appia con il vicolo della Caffarella, fatta costruire a pianta circolare alla fine del Cinquecento dal cardinale inglese Reginald Pole, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma, che soggiornò in Italia – e a Roma – per molti anni.
    Nel Settecento la devozione verso le madonnelle si accentua ancor più con la nascita del fenomeno dei “miracoli mariani” del 1796 – 1797, verificatisi a ridosso della proclamazione in Campidoglio della Repubblica filo francese,15 febbraio 1798. A Roma il primo movimento degli occhi della Madonna si manifesta il 9 luglio del 1796 nella Madonna dell’Archetto, una piccola madonnella stradarola del rione Trevi, già dal secolo precedente oggetto di culto per i suoi miracoli. Il 1796 fu un anno dei molti prodigi. Gaetano Palma, procuratore generale della congregazione dei Pii Operai, così descrive quanto accadde all’immagine di Maria di vicolo delle Muratte nel luglio del 1796, come riporta Massimo Cattaneo nel libro “Le vie di Roma – Le edicole sacre”: «Se è lecito che io manifesti il giudizio da me formato sopra li suddetti diversi movimenti degli occhi di quell’Immagine, che da me fu esternato in tal occasione, e lo espressi ad alcune pie Persone, che me ne interrogarono, dirò di avere io creduto, che, la mossa perpendicolare degli occhi significasse, che la SS.ma Vergine portasse all’Eterno Padre le preghiere dei di lei divoti; Colla mossa poi orizzontale ci volesse dare ad intendere il suo amore verso i medesimi divoti, mostrando con quel giro d’occhi, che lei teneva a sé presenti tutte quelle Persone, che ivi si trattenevano a venerarla, ed indicando, che le teneva sotto la sua valevolissima protezione».
    Il biennio repubblicano è per le edicole sacre motivo di scontri tra le nuove istituzioni e coloro che – soprattutto nei rioni popolari romani – difendono la loro presenza. Famosa, e particolarmente sanguinosa, è la rivolta del 25 febbraio 1798 a Trastevere, dove trasteverini, monticiani, regolani e borghigiani si rifiutano più volte di levare le immagini sacre dalle strade, così come ordinato dal governo repubblicano. I romani continuano, al contrario, a radunarsi vicino alle madonnelle, rinnovando l’importanza che questi spazi esterni avevano anche sul piano dell’identità religiosa. I pochissimi irriducibili lanciano sulle immagini sacre di strada sterco e sassi, contestando così contro la politica moderata che nuovo governo aveva nei confronti anche del potere religioso.
    Anche nella prima metà dell’Ottocento le edicole tornano protagoniste della vita cittadina, questa volta nei confronti della rivoluzione industriale, documentando la resistenza verso ogni innovazione, persino verso i progetti dell’illuminazione della città. Accadde che il popolo mostra il suo grande attaccamento alle madonnelle anche quando le nuove autorità vogliono dotare Roma di un sistema di illuminazione pubblica, che segue quello già realizzato nelle grandi città europee. I romani considerano l’introduzione dei lampioni come un oltraggio alle immagini di Maria, dato che i lumini apposti accanto ad esse rappresentano l’unica fonte di luce nei bui angoli delle strade di Roma. A nulla servono gli editti delle autorità: il popolo preferisce sempre pagare delle multe piuttosto che asservirsi alle nuove disposizioni in materia di illuminazione pubblica, tanto che persino Stendhal, nelle “Passeggiate romane”, scritte tra il 1827e il 1828, parla della funzione delle madonnelle come elementi d’illuminazione della città.
    Ma la modernità fa il suo corso nonostante tutto. Le lampade vengono collocate davanti l’immagine votiva, divenendo elemento artistico: «i due fanali di ferro tutti intagliati con li ampioni» della madonnella della facciata su via del Plebiscito del palazzo Doria Pamphilj, come descritti nella “Nota della spesa fatta nella nuova immagine della SS.ma Vergine” ne sono un esempio.

    Quartiere Coppedè.

    E così passano i secoli, ma loro, le madonnelle stradaiole, sono sempre lì a guidare il corso della vita rionale romana. E ancora oggi «la devozione è tanta, nei vicoli di Trastevere alle prime luci dell’alba tornano a casa le professioniste della notte: sole o in coppia, si segnano devote davanti alla madonnella sull’angolo, e ora, sulla soglia di casa, sembrano aver perduto volgarità e spavalderia», come afferma Giuseppe De Fiori ne “Le vie di Roma – Le edicole sacre”. A testimonianza che le madonnelle non rappresentano solo la memoria in città, ma sono ancora oggetti fortemente vivi.

    Roma, 21 luglio 2019

  4. Santa Maria dell’Anima, la chiesa della Nazione tedesca

    Con la “tedesca” Santa Maria dell’Anima inizia un nuovo itinerario alla scoperta delle chiese nazionali presenti a Roma.

    Santa Maria dell’Anima – Roma.

    Intanto, cosa sono esattamente? Va ricordato sempre che una nota caratteristica di Roma è costituita dalla sua universalità, cioè non solo dal suo essere sempre stata aperta all’accoglienza più cordiale di tutti i forestieri, ma dall’aver ospitato consistenti colonie permanenti raccolte attorno a proprie particolari istituzioni e finanche riconoscibili da proprie specifiche attività.
    Se questo si verificò fin dai primi tempi cristiani con la creazione di scholae aventi carattere di culto, di assistenza e perfino militare, si accentuò nell’epoca rinascimentale e barocca quando gli apporti demografici da altre terre si fecero sempre più consistenti, anche in relazione alle grandi opere artistiche che richiesero la collaborazione degli uomini più geniali ed industriosi. La presenza a Roma delle nazioni straniere riguardò soprattutto quei paesi che ebbero più radicati rapporti con il centro della cattolicità. Sia per la fedeltà religiosa della propria gente, sia per la politica di potenza che furono indotte a svolgere nella capitale del mondo antico e medievale e nel centro della Controriforma. Intendiamo i Paesi dell’impero germanico, la Francia, la Spagna e prima della Riforma, l’Inghilterra. Questi Paesi edificarono a Roma grandi chiese, ebbero centri culturali, ospedali e luoghi di sepoltura ed un complesso di proprietà che parzialmente sussistono. Insomma, per tutti questi Paesi, Roma rappresentò e rappresenta ancora oggi, una communis patria.

    Santa Maria dell’Anima – Roma.

    E dunque, ecco Santa Maria dell’Anima al rione Parione, la chiesa nazionale di tutti i cattolici di lingua tedesca, in pratica di tutti gli originari delle terre che appartennero all’impero germanico e poi, dopo la Riforma, soprattutto degli originari dei territori asburgici.
    Essa è stata ed è al centro di un complesso di organismi di assistenza, sovvenuti da larghe proprietà che hanno fatto del nucleo tedesco una delle colonie più solidamente installate nella città. Chiesa e ospizio relativo presero origine da una costruzione iniziata dopo il giubileo del 1350 su alcune case che due ricchi pellegrini germanici avevano acquistato a tale scopo. L’istituzione andò sviluppandosi nel corso del tempo finché la rivolta luterana le assestò un duro colpo di arresto.
    L’ hospitale pauperum alemanorum dovette concentrare le proprie forze, assorbendo altre iniziative assistenziali parallele, come quella dei garzoni fornai, curiosamente, molta immigrazione tedesca era costituita da panettieri.Tomba del papa Adriano VI - Baldassarre Peruzzi.
    Finalmente, nel 1806, Francesco I d’Austria riordinò l’Istituzione in maniera radicale, al punto di poter parlare di una seconda fondazione. Attualmente essa prosegue nella sua attività con il titolo di Pontificio Istituto Teutonico di Santa Maria dell’Anima, avvalendosi di ancora consistenti proprietà sparse per Roma. La chiesa venne ricostruita nella forma attuale in occasione del giubileo del 1500 per iniziativa del vescovo Johannes Burchardus, italianizzato in Burcardo, lo stesso del palazzetto del Burcardo a Largo di Torre Argentina.
    Si dovette sottostare a gravi limitazioni di spazio e, pur con l’intervento di artisti italiani quali, con molta probabilità anche Bramante e Sansovino, ci si rifece al gusto tedesco. Questo è soprattutto attestato dal corpo della chiesa concepita come una grande sala a tre navate della medesima altezza — ciò che determina la foggia quadrangolare della facciata — e dalla esile cuspide del campanile, rivestita a ceramiche.
    La facciata, per la quale si è fatto il nome di Giuliano di Sangallo, ha un coronamento orizzontale ed è divisa in tre ordini ripartiti da lesene con scarso rilievo. I tre portali con belle forme classicheggianti, inquadrati da colonne scanalate che sorreggono un timpano, sono attribuiti ad Andrea Sansovino il quale ha anche scolpito il rilievo sul portone centrale

    Pietà – Lorenzetto.

    raffigurante la “Madonna fra due anime purganti”, da ciò il nome della chiesa e della strada. Le due parti superiori della facciata sono caratterizzate da tre finestroni e più in alto da una finestra tonda affiancata dagli stemmi dell’Impero e di Adriano VI, maestro e consigliere di Carlo V, che fu l’ultimo papa non italiano, prima della successione esclusiva di papi italiani interrotta soltanto nel 1978 con la elezione del papa polacco Giovanni Paolo II.
    L’interno della chiesa, altamente suggestivo, è dominato da pilastri alti e sottili di tipo cruciforme, che suddividono lo spazio dell’aula in tre navate: questa architettura viene attribuita ad un artista nordico, peraltro sconosciuto. Sui lati vi sono quattro cappellette per parte, ricche di opere d’arte, fra le quali una “Deposizione” e affreschi di Francesco Salviati, un gruppo di “Pietà” del Lorenzetto, terminato da Nanni di Baccio Bigio, una scultura lignea di scuola tedesca con “Sant’Anna, Madonna e Bambino” e “Storie della Vergine” affrescate da Sermoneta.
    Importanti monumenti funebri attestano la presenza tedesca in Roma. Il più significativo è il monumento di Adriano VI a destra del presbiterio, con architettura di Baldassarre Peruzzi e Michelangelo Senese. E l’opera più

    Cappella di San Lamberto – Jan Miel.

    importante della chiesa: la pala d’altare di Giulio Romano raffigurante la Madonna col Bambino in conversazione con i santi Marco e Giacomo, patroni, per omonimia, del committente Jacob Fugger — banchiere tedesco, ed il principale imprenditore tedesco dell’inizio dell’Età Moderna — e dei due Markus Fugger, entrambi morti a Roma. La pala era stata dipinta in origine per la cappella che Jacob detto “il ricco”, aveva fatto erigere per i suoi congiunti in Santa Maria dell’Anima. Fuspostata all’altar maggiore a fine Seicento per risparmiarle ulteriori danneggiamenti conseguenti alle inondazioni del Tevere. In tempi moderni è stata restaurata nel 2007.
    All’esterno va notato il campanile del 1502 con bifore rinascimentali e con pinnacoli e cuspidi goticizzanti. In via dell’Anima, a sinistra della Chiesa, si trova la “Casa Sander” del 1508, la quale, benché troppo restaurata nel 1873, presenta una bella facciata con portone a lesene e a centina, finestre centinate e, in alto, archi che inquadrano le finestre, ma soprattutto fasce di graffiti e tutta una serie di motti e sentenze. La casa è legata fin dall’origine a funzioni di ospitalità per pellegrini germanici.

    Roma, 4 dicembre 2019