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  1. La casa dei Cavalieri di Malta al Foro di Augusto

    Il Foro di Augusto si chiude con un alto muraglione. Augusto lo fece costruire per separare in maniera definitiva l’area dei fori dalla Subura e proteggere così i Fori dagli incendi che di frequente scoppiavano nel

    La Casa dei Cavalieri di Malta al foro di Augsto.

    popoloso quartiere. Addossata al muraglione, e oggi praticamente distrutta, sorge una chiesa che alcuni monaci basiliani, nell’XI secolo, costruirono appoggiandola al podio del tempio di Marte Ultore e sull’esedra settentrionale del foro di Augusto. La chiesa fu dedicata a San Basilio.
    In questo punto è possibile riconoscere ciò che resta delle stratificazioni urbane compiutesi a partire dal periodo romano, fino alle profonde trasformazioni subite dall’area tra il 1924 e il 1927.
    Successivamente la chiesa dedicata a San Basilio, infatti, fu, nel 1230, incorporata in una proprietà dei Cavalieri dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, al tempo detti Cavalieri di Rodi.
    Nel 1466 l’edificio subì importanti ristrutturazioni grazie al fatto che divenne priore dell’Ordine Marco Barbo, nipote di Paolo II. Probabilmente furono utilizzate le stesse maestranze che stavano lavorando a Palazzo Venezia. In questa occasione fu costruita la grande facciata su Piazza del Grillo dove si scorge ancora oggi un grande arco sovrastato da una finestra

    Sala del Balconcino – Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    a croce e una bellissima loggia a cinque arcate riccamente decorata ad affresco con vedute di paesaggi nelle quali spicca una rigogliosa natura. La decorazione della loggia è generalmente attribuita ad Andrea Mantegna o alla sua cerchia.
    Da questa loggia nella seconda metà del Quattrocento si affacciava il pontefice per benedire la folla.
    Dal lato che guarda verso il Foro di Augusto la Casa dei Cavalieri di Malta insiste sull’esedra del foro stesso e ne ricalca perciò l’andamento.
    Su questa facciata si può notare una finestra trilobata inserita in una cornice rinascimentale molto elegante.
    La casa fu organizzata intorno a due ambienti: il Salone d’Onore e la Sala della Loggetta. Entrambe le sale conservano il loro originario soffitto di legno.
    Il salone d’Onore è decorato ad affresco. Vi sono riprodotte delle carte geografiche legate a doppio filo con la storia dell’Ordine dei Cavalieri.
    L’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme nacque intorno alla prima metà dell’XI secolo quando, con le Crociate, venne a crearsi la necessità di difendere e assistere i Crociati e i pellegrini. In pratica i Cavalieri erano monaci militari che compivano anche l’assistenza ai malati e ai feriti. L’Ordine venne riconosciuto da papa Pasquale II nel 1113.
    Di fatto in origine i Cavalieri erano monaci benedettini di Cluny, provenienti da Amalfi, che costruirono l’Ospedale di San Giovanni Elemosiniere presso il Santo Sepolcro con il contributo e l’aiuto di mercanti e pellegrini che provenivano da Amalfi. Per questo motivo sulla loro tunica c’era la croce bianca della Repubblica di Amalfi.

    Panorama dalla Loggia della Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    L’origine dei Cavalieri è quindi solo in parte simile a quello dei Templari, che pure si costituiscono nello stesso periodo, ma con l’esclusiva attività di protezione armata dei pellegrini. Essi ebbero nel 1129 il riconoscimento grazie all’appoggio di Bernardo di Chiaravalle, e divennero così dei veri e propri monaci combattenti.
    A differenza dei Cavalieri, l’ordine templare si dedicò nel corso del tempo anche ad attività agricole, creando un grande sistema produttivo, e ad attività finanziarie, gestendo i beni dei pellegrini e arrivando a costituire il più avanzato e capillare sistema bancario dell’epoca.
    Il potere e la ricchezza dei Templari crebbero, quindi, nel tempo fino a suscitare l’interesse del re di Francia Filippo il Bello che ne ottenne il definitivo annientamento, grazie anche all’appoggio di papa Clemente V, nel 1312. L’annientamento comportò anche l’acquisizione di tutti i beni dei Templari da parte della corona di Francia.
    Ritornando ai Cavalieri il loro Ospedale a Gerusalemme, assisteva tutti, non solo i Cristiani. Questa vocazione all’assistenza e alla cura degli infermi è ancora oggi un tratto distintivo dei Cavalieri.
    Quando, nel 1187, Gerusalemme cadde nuovamente in mani islamiche i Cavalieri abbandonarono la città e si rifugiarono a Cipro, e di qui dopo due anni di lotte e tentativi conquistarono Rodi e vi si stabilirono. Fu così che l’Ordine assunse il nome di Cavalieri di Rodi.

    La loggia della Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto.

    Nel 1522 i Cavalieri perdettero l’isola di Rodi e furono costretti ad abbandonarla ricevendo in cambio dal papa la città di Viterbo, la quale godette perciò di una grande fioritura e venne anche risparmiata dalla calata dei Lanzichenecchi nel 1527.
    Nel 1530 per interessamento del papa Clemente VII e dell’imperatore Carlo V i Cavalieri ricevettero l’isola di Malta, e vi si stabilirono. Essi costituivano il baluardo più estremo di difesa nei confronti degli “infedeli”. Una volta ottenuta l’isola di Malta essi cambieranno il loro nome in Cavalieri di Malta.
    Nel 1571 i Cavalieri di Malta parteciparono alla Battaglia di Lepanto contro gli Ottomani, battaglia che fu vinta dalla Lega Santa che vedeva alleati tra gli altri il Regno di Spagna e il Vaticano.
    I Cavalieri rimasero proprietari dell’isola di Malta fino all’invasione delle truppe napoleoniche avvenuta nel 1798. Dopo questo evento essi si dispersero un po’ in tutto il mondo e quelli che tornarono a Roma andarono a occupare la sede del Priorato sull’Aventino che nel frattempo il papa aveva loro assegnato.
    Ritornando alla casa che oggi è di nuovo di loro proprietà, dal 1946, oltre il Salone d’Onore esiste la Sala della Loggetta, detta anche delle Cariatidi perché accoglie la ricostruzione di parte del fregio marmoreo del portico del Foro di Augusto. Un clipeo con una grande testa di Giove Ammone

    La ricostruzione del fregio del tempio dedicato a Giove Ammone. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    circondato da cariatidi. In questa sale è inoltre collocato l’affresco della Crocifissione proveniente dalla chiesa delle Domenicane ormai demolita, attribuito a Sebastiano del Piombo. In questa stessa sala c’è un camino realizzato nel 1555 su cui è riportata una mappa dell’isola di Rodi come essa si presentava nel 1480, quando i Cavalieri erano ancora proprietari dell’isola.
    Dal Salone d’Onore, tramite una scala, si accede al piano superiore. Lungo le pareti della scala sono state rinvenute scritte e graffiti tra cui un ritratto del poeta Virgilio circondato sia da versi tratti dalle sue opere che dalle cantiche di Dante in cui Virgilio viene descritto.
    I Cavalieri di Malta restarono in questo edificio fino al 1566, quando il papa donò loro la chiesa di Santa Maria de Aventino, ovvero quella che oggi è la chiesa di Santa Maria del Priorato, in realtà chiesa dedicata a San Basilio che è appunto il protettore dell’Ordine dei Cavalieri.
    L’edificio nel foro venne quindi assegnato all’Istituto delle Neofite Domenicane, che aveva lo scopo di convertire al cristianesimo le fanciulle ebree.
    In questa occasione l’edificio subì una nuova trasformazione e un ampliamento eseguito su progetto di Battista Arrigoni da Caravaggio. Nell’ambito di queste trasformazioni le Domenicane chiusero la loggia affrescata per ricavarne delle stanzette. La chiesa venne dedicata alla

    Salone d’Onore – fregio – Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto.

    Santissima Annunziatina. I resti di questa chiesa sono ancora visibili lungo Via di Tor de’ Conti.
    Le monache inoltre ricavarono una lavanderia in un ambiente ipogeo da quello che, in epoca romana, era un cortile a cielo aperto su cui si affacciavano i locali a pian terreno di un’insula.
    Le Domenicane restarono in questo edificio fino al 1930, quando il convento venne demolito a seguito della costruzione di Via dell’Impero.
    A questo punto l’edificio passò prima in proprietà del comune di Roma che eseguì dei restauri dopo il 1940.
    Nel 1946 l’edificio tornò di proprietà dei Cavalieri, ormai divenuti di Malta. Nel locale che era stato lavanderia i Cavalieri realizzarono la Cappella Palatina, la cui pianta è organizzata in tre navate e che ospita, tra l’altro, alcuni affreschi portati qui dall’architetto Fiorini per salvarli dalle demolizioni dell’epoca mussoliniana.

    Roma, 23 agosto 2019

  2. Racconto

    La fortezza dell’imperatore

    di Hans Christian Andersen

    Il brano che presentiamo è tratto da Il bazar di un poeta, pubblicato da Hans Christian Andersen nel 1842. Il bazar di un poeta raccoglie le impressioni e gli appunti di viaggio che lo scrittore di fiabe svolse per 9 mesi

    Hans Christian Andersen.

    tra Germania, Italia, Grecia e Oriente, tra il 1833 e il 1834. L’opera è divisa in 6 capitoli e di questi uno è interamente dedicato all’Italia. Vi si trovano, descrizioni, appunti e schizzi su Roma, Napoli, Bologna, la Sicilia e anche descrizioni dell’attraversamento degli Appennini.

    Per quanto possa essere brutto, l’inverno romano ci porta anche giornate assai belle, belle come i più bei giorni di primavera su al Nord; allora vien voglia di uscire, di camminare nel verde che qui non è difficile da trovare! Le rose sono in fiore, le siepi di alloro emanano il loro profumo – sono tanti i luoghi dove si può passeggiare. Oggi visiteremo le rovine del castello dell’imperatore, che si trovano sopra un vero e proprio altipiano, nel bel mezzo della città; tra vigneti, giardini, rovine e catapecchie, puoi trovare fertili campi coltivati e spazi brulli dove l’asino trova il suo cardo da rosicchiare e dove le capre cercano un’erba che somiglia al muschio.

    continua…

  3. Sulle tracce della prima guida turistica di Roma: Mirabilia urbis Romae (XII secolo)

    Antiquae urbis Romae cum regionibus simulachrum – Rome – Valerius Dorichus Brixiensis – 1532.

    Mirabilia Urbis Romae è il titolo di un trattatello scritto in latino. La redazione più antica del testo è quella contenuta nel Liber Polypticus, un libro di carattere amministrativo pontificale, e risale al 1140 – 1143. Il trattato è anonimo ma l’autore del Mirabilia doveva probabilmente essere una persona appartenente all’ambiente ecclesiastico, o l’autore stesso del Liber Polypticus.
    Così come oggi il turista che si rechi a Roma arriva con un elenco di luoghi da visitare, magari ricavato dopo una più o meno accurata ricerca in rete, così accadeva anche prima del XII secolo, quando elenchi di cosa vedere a Roma erano stati già tramandati, ed erano soprattutto a uso dei pellegrini. La novità introdotta dai Mirabilia è che l’elenco dei luoghi in esso contenuto è molto più articolato, arricchito dalle considerazioni dell’autore, dalla citazione di fonti letterarie e da informazioni, commenti e considerazioni desunte dall’immaginario popolare del tempo. Le informazioni e le tradizioni possono essere relative, ad esempio, all’origine di una statua, di un tempio o di un colle.
    Nei Mirabilia sono, poi, contenute informazioni non legate al solo mondo cristiano dei pellegrinaggi, e questa costituisce una delle principali differenze con il così detto “Itinerario di Eisielden”.
    L’itinerario proposto nel

    Pianta di Roma in epoca imperiale.

    Mirabilia parte dal Vaticano per arrivare al Campo Marzio, quindi sale al Campidoglio e scende al Foro Romano. Dal Palatino si scende al Colosseo e quindi si sale all’Aventino per passare al Celio, al Laterano, al Viminale e al Quirinale.
    L’ultima visita è a Trastevere.
    I Mirabilia ebbero un grande successo come ci testimonia l’esistenza di ben 145 manoscritti che ce li tramandano, nelle numerose traduzioni dal latino in volgare, tedesco, olandese e inglese. Dal XV secolo i Mirabilia verranno stampati più volte. Essi possono essere, infatti, considerati i più antichi incunaboli stampati dalle tipografie tedesche a Roma. Nel corso delle varie stampe manterranno il titolo originale nonostante subiranno continui ammodernamenti e modificazioni dei contenuti.
    Nel XVI secolo, con la nascita dell’interesse per l’antichità favorito dalle scoperte archeologiche, la parte fantastica venne eliminata e i Mirabilia divennero una vera e propria guida alle rovine della città. Inoltre la parte aggiunta nel Quattrocento, verrà ampliata. Utilizzando i Mirabilia, quindi, il forestiero riusciva a fare il giro della città in tre giorni guidato da un cicerone. Essi saranno utilizzati fino al Barocco.

    Veduta di Roma – “Il Dittamondo” – Fazio degli Uberti – Milano – 1447


    Secondo alcuni autori, comunque, l’elenco dei monumenti era già presente nelle edizioni più antiche. Nei primi dieci capitoli vengono descritti i vari generi di monumenti: i colli, gli archi, le mura, le terme, i palatia, tra i palatia viene citato anche quello Romulianum e in occasione della descrizione di questo palatium viene raccontata la leggenda, tramandata da scrittori orientali a partire dal V – VI secolo, secondo la quale la statua d’oro eretta in onore di Romolo crollò quando partorì “una vergine”.
    I Mirabilia contengono ancora la descrizione dei teatri nei quali vengono compresi anche i circhi, i luoghi citati nelle passio dei santi, le colonne, i cimiteri, e molto altro. Nei capitoli 11, 12 e 13 sono riportate, ad esempio: la leggenda relativa alla visione di Ottaviano e la fondazione della chiesa di Santa Maria all’Ara Coeli sul Campidoglio, la storia delle statue dei Dioscuri sul Quirinale, l’origine del “cavallo di Costantino”, oggi noto come Marco Aurelio, la Salvacio Romae con la fondazione del Pantheon e quella di San Pietro in Vincoli. Nel capitolo 8 sono elencati i luoghi delle passioni dei santi, mentre nel capitolo 13 si parla dei funzionari imperiali, citati con i relativi nomi bizantini.
    Nel capitolo 12 si racconta, quindi, della leggenda della visione di Ottaviano collegata alla fondazione della chiesa di Santa Maria in Ara Coeli. La leggenda è tratta dal Chronichon di Giovanni Malala. In essa si dice che Ottaviano chiese alla Sibilla tiburtina se poteva essere adorato come un dio, secondo la volontà del Senato. La Sibilla, dopo tre giorni rispose: «dal cielo verrà un re che regnerà nei secoli, avrà sembianze umane e giudicherà il mondo». Dopo questo responso ad Augusto apparve, nella sua camera dall’alto, una donna su un altare con in braccio un bambino, dove ora c’è la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli, che significa appunto “altare del cielo”, e fu per questo motivo che in quel punto venne eretta la chiesa.
    La versione della leggenda contenuta nei Mirabilia è la terza in ordine di tempo, seguita poi da quella di Jacopo da Varazze. Non tutti gli autori sono d’accordo sull’interpretazione della leggenda. Probabilmente sul Campidoglio esisteva già un altare dedicato a qualche dea che, successivamente, viene dedicato a Maria. Le varie versioni della leggenda avrebbero il ruolo di mostrare la missione cristiana dell’Impero Romano e Ottaviano rappresenterebbe perciò l’autorità civile pronta ad accogliere la venuta di Cristo e l’avvento del Cristianesimo.

    Il Marco Aurelio – Roma.

    Un’altra leggenda riguarda l’origine di quello che, così riferisce l’autore, era chiamato comunemente “il cavallo di Costantino”, ovvero quella che sarà poi interpretata come la statua equestre di Marco Aurelio. Il gruppo scultoreo, datato 176 dopo Cristo, aveva una collocazione a tutt’oggi sconosciuta. Nell’VIII secolo fu spostato vicino alla basilica di San Giovanni in Laterano, costruita per volontà dell’imperatore Costantino.
    Nella leggenda si spiega che il cavallo è di un armigero che, dopo aver liberato Roma da un re orientale, chiese una ricompensa in denaro e di essere raffigurato in una statua equestre: sulla testa del cavallo sarebbe stata posta una civetta e legato sotto la pancia del cavallo ci sarebbe stato il re sconfitto. Perché poi l’armigero venga nel tempo identificato come Costantino è una questione controversa, molti autori ritengono che sia solo il consolidarsi di una tradizione popolare che era nata proprio a seguito della simpatia che Costantino aveva in qualche modo riscosso presso il popolo, un’altra ipotesi è che sia stata la vicinanza della statua alla basilica di San Giovanni, fatta costruire da questo imperatore, a determinarne il nome indicato dalla tradizione.
    La versione della storia dei Dioscuri che oggi campeggiano nella Piazza del Quirinale riportata nei Mirabilia, indica che dell’enorme gruppo scultoreo faceva parte anche una terza statua. Quest’ultima rappresentava una

    Dioscuri – Piazza del Quirinale – Roma.

    donna, circondata da serpi e recante una conca in mano, identificata dagli studiosi come Igea. Non si sa se questa terza figura sia davvero esistita. Se ciò fosse vero al momento essa è dispersa. Anche in questa guida viene riportata la leggenda che le due statue maschili fossero i ritratti di due filosofi indicati con il nome di Fidia e Prassitele venuti a Roma per dare consigli a Tiberio, così come è riportato nel così detto “Itinerario di Eisielden”.
    L’autore dei Mirabilia Urbis Romae ha come scopo, lo dice nell’ultimo capitolo, quello di tramandare ai posteri il ricordo le bellezze di Roma. Ma nel fare questo ci riporta quindi le notizie dell’immaginario medievale che mescola le varie storie e leggende per crearne di nuove. Ci informa ad esempio che nel X secolo il Mausoleo di Augusto era tanto caduto in degrado, da assumere l’aspetto di un colle.
    Oltre all’ammirazione dei resti dell’antica civiltà romana i Mirabilia dedicano attenzione agli aspetti del mondo cristiano. Il capitolo 8 è dedicato solo ai luoghi di Roma connessi con le “passio” dei Santi, e, ad esempio, vi si racconta dell’apparizione di Cristo a Pietro sulla via Appia. Pietro fuggiva dalla città per evitare il martirio e incontrato Cristo gli chiese: “Domine, quo vadis?”, ovvero “Signore, dove vai?” e Cristo gli rispose: “Eo Romam, iterum crucifigi”, “Vado a Roma, per farmi crucifiggere nuovamente”. A queste parole Pietro tornò in città e scelse di andare incontro al proprio destino. Nel luogo in cui la tradizione pone l’incontro tra Cristo e Pietro, nel IX secolo venne eretta una cappella, che oggi è la chiesa del Domine quo vadis.
    Con lo sviluppo della pratica del pellegrinaggio l’opera fu utilizzata, in una forma ridotta, proprio come una guida turistica.
    Ancora oggi la lettura di questo trattatello può essere utile, e divertente, non solo per ricostruire le architetture romane antiche, ma anche per conoscere le architetture mentali, i miti e le leggende, che hanno abitato e sono stati abitati in questa città.

    Roma, 18 agosto 2019

  4. Roma, città delle acque. L’acquedotto Vergine.

    «Mi sembra che la grandezza dell’impero romano si riveli mirabilmente in tre cose, gli acquedotti, le strade, le fognature».

    Gli acquedotti di Roma

    A scriverlo, lo storico di età augustea Dionigi di Alicarnasso. E più tardi Plinio il Vecchio osservava che: «Chi vorrà considerare con attenzione … la distanza da cui l’acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso».
    Gli undici acquedotti di epoca romana, che dal 312 avanti Cristo furono costruiti, portarono alla città una disponibilità d’acqua pro capite pari a circa il doppio di quella attuale, distribuita tra le case private (ma solo per pochi privilegiati), le numerosissime fontane pubbliche (circa 1.300), le fontane monumentali (15), le piscine (circa 900) e le terme pubbliche (11), nonché i bacini utilizzati per gli spettacoli come le naumachie e i laghi artificiali (3).
    La sorveglianza, la manutenzione e la distribuzione delle acque fu affidata, per due secoli e mezzo, alla cura di imprenditori privati, che dovevano rendere conto del loro operato a magistrati che avevano altri compiti principali. Solo con Agrippa, intorno al 30 avanti Cristo fu creato un apposito servizio, poi perfezionato ed istituzionalizzato da Augusto, che si occupava dell’approvvigionamento idrico cittadino e quindi del controllo e manutenzione di tutti gli acquedotti. Oltre ai condotti principali, nel tempo furono costruite diverse diramazioni e rami secondari, per cui un catalogo del IV secolo dopo Cristo ne contava ben 19.

    Acquedotto Vergine

    L’ultimo degli undici grandi acquedotti dell’antica Roma fu costruito durante il principato di Alessandro Severo intorno al 226 dopo Cristo. Raccoglieva l’acqua del “Pantano Borghese” sulla via Prenestina, alle falde del colle di “Sassolello”, a 3 km dall’odierno comune di Colonna: le medesime sorgenti furono successivamente utilizzate da papa Sisto V per la costruzione del suo acquedotto dell’ “Acqua Felice”.
    Furono gli Ostrogoti di Vitige, nell’assedio del 537, a decretare la fine della storia degli acquedotti antichi, che vennero tagliati per impedire l’approvvigionamento della città. D’altra parte Belisario, il generale difensore di Roma, ne chiuse gli sbocchi per evitare che gli Ostrogoti li usassero come via di accesso. Qualcuno fu poi rimesso parzialmente in funzione, ma dal IX secolo dopo Cristo il crollo demografico e la penuria di risorse tecniche ed economiche fecero sì che nessuno si occupasse più della manutenzione, i condotti non furono più utilizzabili e i romani tornarono ad attingere acqua dal fiume, dai pozzi e dalle sorgenti, come alle origini della fondazione della città.
    L’acquedotto Vergine fu progettato ed inaugurato nel 19 avanti Cristo da Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, per portare acqua alle proprie terme nel Campo Marzio ove ne sono stati individuati resti in diversi punti. E’ l’unico degli acquedotti di Roma antica rimasto ininterrottamente in funzione sino ai nostri giorni, alimentando le monumentali fontane della città barocca tra cui la celebre Fontana di Trevi. Sesto in ordine di tempo, dopo l’Appio, l’Anio Vetus, il Marcio, l’Aqua Tepula e la Iulia aveva origine a poca distanza dal corso dell’Aniene da alcune sorgenti che si trovavano nell’Agro Lucullano, presso l’odierna località di Salone.
    Da Salone, dopo un percorso sotterraneo di circa cinque chilometri, l’acquedotto arrivava al fosso della Marranella ma – come spesso accadeva negli acquedotti romani – anziché proseguire sotto i colli della città seguendo la via più breve, voltava bruscamente verso nord, seguiva la Via Collatina fino alla località di Portonaccio, dove raggiungeva la Via Tiburtina e l’Aniene che attraversava nella zona di Pietralata. Quindi si muoveva lungo le dorsali della Nomentana e della Salaria da dove, piegando verso sud, attraversava le zone di Villa Ada, dei Parioli, proprio sotto il ninfeo di Villa Giulia, e di Villa Borghese, per entrare infine in città in prossimità del Muro Torto e di piazza di Spagna. L’ultimo tratto, come detto, si sviluppava infine su arcuazioni fino al Pantheon, dove si trovavano le Terme di Agrippa.

    Ninfeo di Villa Giulia

    Il motivo più probabile di questo lungo percorso è da ricercarsi nell’orografia del territorio attraversato: essendo le sorgenti molto basse sul livello del mare e molto vicine a Roma, l’acqua, scorrendo secondo la forza di gravità, non avrebbe potuto raggiungere un livello più elevato nel punto terminale e doveva quindi costeggiare dorsali, superare in elevato le depressioni che incontrava, come sulla via Collatina Vecchia, e attraversare pendii. Il tratto urbano si può facilmente ricostruire grazie alla presenza dei numerosi resti delle arcuazioni: alle pendici del Pincio, sotto Villa Medici e vicino agli Horti Luculliani, una piscina limaria, dalla quale prese il nome il Vicolo del Bottino, serviva a trattenere i depositi presenti nell’acqua e a mantenere costante il carico nel condotto. Da lì veniva percorsa la falda fino al Campo Marzio in direzione parallela a Via Margutta, sbucando quindi finalmente e definitivamente a cielo aperto verso la metà dell’attuale Via due Macelli. Mediante una serie ininterrotta di arcate, l’acquedotto Vergine attraversava quindi l’attuale Via del Nazareno e passava quindi per la zona della Fontana di Trevi e nell’area oggi occupata da Palazzo Sciarra, scavalcava la Via Lata, oggi Via del Corso, e proseguiva lungo la Via del Caravita, Piazza Sant’Ignazio e Via del Seminario, dove doveva trovarsi il castellum terminale.
    Sesto Giulio Frontino, scrittore e architetto, scrive che «davanti alla fronte dei Saepta», in prossimità del Pantheon, l’acquedotto terminava, distribuendo l’acqua ai numerosi monumenti creati da Agrippa, non ultime le Terme che portavano il suo nome, fino in Trastevere.
    Essendo l’acquedotto Vergine in funzione è tuttora accessibile il suo tratto sotterraneo. E’ ancora funzionante e ispezionabile, in occasione di ripuliture e restauri, l’impianto di captazione delle sorgenti.
    La leggenda, ricordata da Frontino, fa risalire il nome dell’acquedotto ad una vergine che suggerì ai soldati di Agrippa, seguendo il suo intuito, l’esatta ubicazione delle sorgenti fino ad allora cercate invano e, a prova di ciò, presso il bacino di raccolta si trovava un’edicola con l’immagine dipinta della ninfa delle sorgenti. Più verosimilmente il nome era legato invece alla purezza ed alla freschezza delle acque, che per altro erano prive di calcare, il che rendeva tra l’altro meno impegnativa la manutenzione dell’acquedotto. Durante i suoi 2000 anni di utilizzo, l’acquedotto ha subito innumerevoli interventi di manutenzione, di restauro e di parziale rifacimento.
    Il tratto più importante è quello visibile in via del Nazareno, ove si conservano tre arcate in blocchi bugnati di travertino con l’iscrizione che ricorda il restauro compiuto nel 46 dopo Cristo dall’imperatore Claudio.
    Vi si legge: Ti(berius) Claudius Drusi f(ilius) Caesar Augustus Germanicus/ pontifex maxim(us) trib(unicia) potest(ate) V imp(erator) XI p(ater) p(atriae) co(n)s(ul) desig(natus) IIII /arcus ductus aquae Virginis disturbatos per C(aium) Caesarem / a fundamentis novos fecit ac restituit.

    Fontana di Trevi

    (Tiberio Claudio, figlio di Druso, Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, rivestito per la quinta volta della potestà tribunicia, acclamato imperatore per l’undicesima volta, padre della patria, console designato per la quarta volta, ricostruì e restaurò dalle fondamenta gli archi dell’acquedotto dell’acqua Vergine, danneggiati da Gaio Cesare, Caligola.
    L’incidente è stato da alcuni studiosi ricollegato alla costruzione di un anfiteatro nel Campo Marzio promossa dallo stesso imperatore e mai portata a termine.
    Nell’antichità i principali lavori conservativi si ebbero al tempo di Tiberio, nel 37 dopo Cristo, di Claudio, nel 45-46 dopo Cristo, quando vennero ripristinate le arcuazioni in blocchi bugnati di travertino nell’area urbana, e di Costantino. Ai tempi di Teodorico l’acquedotto era funzionante ed era ancora decantata la purezza dell’acqua.
    Papa Adriano I (772-795) fece eseguire nel Medioevo lavori di una certa consistenza. Procopio ci informa che «l’Acquedotto della Vergine, da molti anni demolito e così pieno di rovine tanto che in Roma entrava ben poca acqua… (Adriano I) lo restaurò nuovamente e lo arricchì di tanta abbondanza d’acqua che dissetava quasi tutta la città».
    Si noti come il biografo indichi che l’acquedotto, anche prima dei restauri, riuscisse a portare soltanto poca acqua in città: segno che, benché malandato, non cessò mai del tutto la sua attività. Con tutta probabilità il restauro di Papa Adriano consistette anche nell’allestimento di una nuova fontana terminale subito a monte di via del Corso, dove le arcuazioni erano state interrotte.

    Vicus Caprarius

    A due passi dalla celebre Fontana di Trevi, nel 1999, a pochi metri da Fontana di Trevi, i lavori per la realizzazione di una nuova sala cinematografica, la Sala Trevi intitolata ad Alberto Sordi, hanno offerto l’occasione per una fortunata campagna di scavo. Le indagini, estese per una superficie complessiva di 350 mq e una profondità massima di 9 m, hanno rimesso in luce un complesso edilizio di età imperiale, testimonianza dell’antico tessuto urbanistico della città.
    I rinvenimenti sono riferibili a un caseggiato (insula) edificato unitariamente ma articolato in due edifici indipendenti. Questo complesso abitativo destinato alla residenza intensiva venne successivamente trasformato, intorno alla metà del IV secolo, in una lussuosa residenza signorile (domus). Nell’ambito della suddivisione amministrativa della città in quattordici regioni voluta da Augusto, l’area del Vicus Caprarius era compresa nella VII regio via Lata. In particolare gli edifici messi in luce sorgevano lungo il tratto urbano dell’antica Salaria vetus che, nel tratto corrispondente alle attuali via di San Vincenzo e via dei Lucchesi, assumeva la denominazione di Vicus Caprarius, probabilmente in relazione alla presenza di una aedicula Capraria, luogo di culto dedicato a Iuno Caprotina.
    Un secondo edificio, che si articola su due piani, per un’altezza complessiva di circa 11 metri, che doveva svolgere una funzione pubblica, in età adrianea subì una profonda trasformazione: due dei suoi ambienti furono convertiti in un unico serbatoio idrico, il castellum aquae dell’acquedotto Vergine. Da questo serbatoio si dipartivano tra l’altro le tubature in piombo che conducevano l’acqua alla ricca domus.
    Sempre da questa area archeologica proviene il il celebre volto di Alessandro helios.

    Alessandro Helios – Vicus Caprarius

    Il sito si caratterizza però anche per la presenza di una sorgente la cui acqua risale naturalmente dalla falda e filtra attraverso le anche murature in opera laterizia.
    In un viaggio a ritroso nel tempo qui è possibile toccare con mano la millenaria stratificazione di Roma e osservare le testimonianze archeologiche dei grandi eventi che hanno caratterizzato la storia della città, dalla realizzazione dell’Aqua Virgo all’incendio di Nerone, dal sacco di Alarico all’assedio dei Goti.

    Roma, 15 gennaio 2017